François Truffaut e Jacqueline Bisset
François Truffaut e Jacqueline Bisset

 

François Truffaut 

 

Ripercorriamo insieme la vita e la carriera del grande regista e attore francese François Truffaut (1932-1984): Premio Oscar nel 1974 per il miglior film straniero con “Effetto notte”, considerato tra le maggiori opere della cinematografia mondiale. 

 

 

François Truffaut nasce a Parigi il 6 febbraio del 1932.

 

La giovinezza del futuro artista è burrascosa. Sua madre, Janine, lo ha avuto da una relazione con un altro uomo e il piccolo François si sentirà spesso rifiutato dai genitori.

 

Il periodo della guerra e dell’occupazione nazista è durissimo, ma è proprio allora che Truffaut si appassiona al cinema, facendo di tutto per rimanere più tempo possibile nelle sale che, al contrario della sua casa, in inverno erano riscaldate. Nella generale confusione del dopoguerra, Truffaut si dà alla vita di strada; viene espulso dalla scuola e vagabonda per la città senza un progetto ben preciso, dimostrando però una grande intelligenza e divorando decine di libri.

 

A quattordici anni, l’adolescente Truffaut si impone l’incredibile obiettivo di leggere tre romanzi alla settimana e di guardare tre film al giorno. Durante i suoi vagabondaggi viene notato dal cinefilo Henri Langlois, fondatore della “Cinémathèque Française”, a quei tempi un attivissimo cineclub privato, ora una prestigiosa istituzione internazionale. Grazie a Langlois, Truffaut conosce il critico cinematografico André Bazin, che lo prende sotto la sua ala e da allora in poi rappresenterà per lui una specie di padre adottivo. I suoi rapporti con l’autorità rimangono sempre molto difficili: nel 1950 l’inquieto ragazzo parigino si arruola volontario nell’esercito, per disertare qualche mese dopo e rischiare l’arresto. Bazin fa di tutto per farlo congedare e gli offre un lavoro come giornalista negli appena fondati “Cahiers du Cinéma”, che in seguito diventerà la più prestigiosa rivista di cinema in Europa.

 

Truffaut comincia la sua carriera circondato da colleghi come Godard, Rivette, Chabrol o Rohmer. Il loro gruppo, riunito attorno ai “Cahiers”, attacca senza pietà il cinema francese, accusato di essere provinciale, venera Hitchcock e Ford e si interessa senza preclusioni di qualunque esperimento in campo filmico. I giovani e arrabbiati redattori della rivista avrebbero sviluppato la cosiddetta “Teoria degli autori” e, ben presto, avrebbero deciso di entrare in campo direttamente, dirigendo dei film. Dopo alcuni anni di polemiche e studi critici anche Truffaut sente il dovere di esordire come regista.

 

Nel 1957 realizza il corto “Les Mistons - L’età difficile”, ma il suo vero esordio è il lirico e autobiografico “I quattrocento colpi”, presentato a Cannes nel 1959 e subito premiato con la Palma d’Oro. Il film, che insieme a “Fino all’ultimo respiro” di Godard è considerato l’atto di nascita della “Nouvelle Vague”, diventa ben presto un classico. La storia del piccolo Antoine Doinel che si ribella alla famiglia, alla scuola e va a finire in riformatorio, è la traduzione in immagini profondamente poetiche della giovinezza del regista, oltre che un inno alla libertà dell’immaginazione e una corrosiva critica alla società francese. Per interpretare il ruolo, Truffaut sceglie personalmente il giovanissimo Jean-Pierre Léaud che da allora in poi gli farà da “doppio” in una specie di riuscitissimo esperimento cinematografico. Durante il decennio seguente Truffaut riprende il personaggio di Antoine mostrandone la crescita e la maturazione in “Antoine e Collette” (1962), segmento del film a episodi “L’amore a vent’anni”, in “Baci rubati” (1968) e in “Non esageriamo…è soltanto questione di corna” (1970). Quando non si occupa del suo personaggio-feticcio, Truffaut si dedica a riadattare la forma del film di genere hollywoodiano al film d’autore europeo, con senso dell’umorismo e sensibilità, come in “Sparate sul pianista” (1960), parodia del noir con un inedito Charles Aznavour, o “La sposa in nero” (1966), ritratto di una serial killer interpretata da Jeanne Moreau che influenzerà non poco il Tarantino di “Kill Bill”.

 

Sempre del 1966 è “Fahrenheit 451”, tratto dall’omonimo romanzo di Ray Bradbury.

 

Ma i film in cui il regista raggiunge i vertici della sua abilità poetica sono le storie d’amore, nelle quali spesso la passione fra uomo e donna diventa una forza distruttiva e inarrestabile. L’esempio più amato dal pubblico è sicuramente il tragico triangolo amoroso di “Jules e Jim” (1962), ma altrettanto riusciti sono i ritratti di “La calda amante” (1964), di “La mia droga si chiama Julie” (1969), straziante interpretazione della coppia Jean-Paul Belmondo-Catherine Deneuve, e “Il ragazzo selvaggio” (1969), dove Truffaut è anche interprete. Gli anni ’70 segnano un momento di sbandamento per la “Nouvelle Vague”.

 

Numerosi registi, come Godard, scelgono di dedicarsi al cinema militante e politico, rifiutando a priori l’intrattenimento. In risposta a questa tendenza Truffaut gira “Effetto notte” (1973), la sua lettera d’amore al cinema e al pubblico, oltre che uno dei migliori film ambientati su un set, ispirato dichiaratamente a “8  ½” di Federico Fellini.

 

I suoi film si fanno più riflessivi e drammatici, le storie d’amore più complesse e tragiche come in “Le due inglesi” (1971) o in “Adele H” (1975). Al tempo stesso il regista torna ad affrontare i temi che gli sono cari, come la libertà dell’infanzia, nel tenero “Gli anni in tasca” (1976). Dopo due film molto autobiografici come il divertente “L’uomo che amava le donne” (1977), storia di un impenitente Don Giovanni francese, e il malinconico “La camera verde”, profonda riflessione sull’importanza della memoria, Truffaut chiude il decennio concludendo simbolicamente le avventure di Antoine Doinel con i toni patetici del film “L’amore in fuga” (1979).

 

È evidente che il regista si sente pronto a nuove sfide, i suoi film anni ’80 sono tra i più maturi e lodati: “L’ultimo metrò” (1980) con la coppia Depardieu-Deneuve, il drammatico “La signora della porta accanto” (1981) ancora con Depardieu e Fanny Ardant, e soprattutto l’omaggio hitchcockiano di “Finalmente domenica” (1983), dove la splendida Fanny Ardant è questa volta in coppia con un affascinante Jean-Louis Trintignant.

Ma questa serie di capolavori è interrotta da una improvvisa e incurabile malattia che spegne il regista francese a soli 52 anni, il 21 ottobre del 1984.