Niccolò Machiavelli 

 

La vita e le opere di Niccolò Machiavelli (1469-1527): il ritratto di un grande protagonista del Rinascimento italiano. Scrittore vario e colto, riservò i suoi interessi soprattutto alla politica che, primo fra tutti, considerò una scienza a se stante. Con “Il Principe” segnò il passaggio dal pensiero politico medievale a quello moderno. 

 

Niccolò Machiavelli nasce a Firenze il 3 maggio del 1469 da messer Bernardo e Bartolomea de’ Nelli. Pur essendo parte di una famiglia di «notabili» popolani, il padre era uno dei membri più poveri della casata. A sette anni, come molti giovani fiorentini, è avviato allo studio del Donatello e in seguito è indirizzato allo studio della grammatica presso vari maestri. Pochi giorni dopo l’esecuzione del Savonarola - 23 maggio 1498 - e qualche tempo dopo la caduta del governo «fratesco», Machiavelli è eletto Segretario della seconda Cancelleria. La concatenazione di date e avvenimenti non è casuale. In effetti, una delle sue prime lettere private - quella del 9 marzo 1498 - rivela un’ironica diffidenza di Niccolò nei confronti del «profeta disarmato» e della sua politica di ispirazione cristiana. In seguito, a partire dal 1502, avvia un rapporto di crescente collaborazione con il governo filo-popolano del neo istituito gonfaloniere a vita Pier Soderini.

Nel ruolo di Segretario, oltre ai compiti di redazione della corrispondenza delle magistrature principali (Scritti di governo), svolge importanti missioni diplomatiche (celebri le varie legazioni al re di Francia e a Cesare Borgia) e si fa autore e promotore della riforma per l’istituzione della milizia d’Ordinanza (1506). Con la rotta militare fiorentina di Prato di fronte alle armate spagnole e il conseguente ritorno dei Medici a Firenze, nel novembre del 1512 è rimosso dal suo incarico. Subito dopo si trova ingiustamente implicato in una congiura antimedicea: costretto in prigione, viene torturato. Scarcerato nel marzo del 1513, è tuttavia confinato nel suo podere dell’«Albergaccio» a Sant’Andrea in Percussina. Qui, dividendo il suo tempo tra l’osteria e lo studio degli Antichi - come racconta nella lettera al Vettori del 10 dicembre di quell’anno - scrive il suo opuscolo “De principatibus” e inizia ad abbozzare alcuni capitoli dei “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”.

Uscito dal confino, e rivelatisi poco fruttuosi in quegli anni i tentativi di entrare nelle grazie dei Medici per ottenere da loro qualche nuovo ufficio, dal 1516 comincia a frequentare la cerchia di giovani che si riuniva nei giardini di casa Rucellai. Qui commenta i testi antichi e dà anticipazioni di alcuni dei temi toccati nei “Discorsi” e soprattutto nell’ “Arte della guerra” (unica delle grandi opere che darà alle stampe ancora in vita, nel 1521), il cui dialogo fittizio è ispirato proprio alle riunioni negli «Orti oricellari». Nel 1518 il clima attorno a lui si fa meno sfavorevole e non a caso a partire da quell’anno gli sono affidate alcune commissioni di varia natura all’estero: Genova, Lucca, Carpi al Capitolo generale dei frati Minori (famosa la corrispondenza scambiata da qui con Francesco Guicciardini) e più tardi Venezia. Sempre nel ’18 compone il suo capolavoro teatrale: “La Mandragola”. Nell’autunno del 1520 - per volontà dei Medici - lo Studio fiorentino gli commissiona la realizzazione delle “Istorie” della città. Nel 1526 gli è assegnata la Segreteria dei Procuratori delle mura di Firenze. Tra il ’26 e il ’27, svolge varie missioni per conto e presso il Luogotenente generale del Papa Guicciardini, impegnato nella condotta delle operazioni dell’esercito della Lega di Cognac contro le truppe di Carlo V. Dopo il sacco di Roma da parte degli imperiali nel maggio del 1527, Firenze si ribella al governo dei Medici. Machiavelli torna in patria sperando di riottenere il suo vecchio incarico di cancelliere della rinata Repubblica, che invece è assegnato ad altri. Pochi giorni dopo, il 21 giugno, muore.

Il pensiero politico machiavelliano, si sviluppa attorno ad un’attenta lettura degli Antichi. Alcuni suoi tratti distintivi, come l’inedita valutazione positiva del conflitto sociale tra patrizi e plebei nella Roma repubblicana - stigmatizzato invece dalla storiografia precedente e coeva - dimostrano tuttavia quanto il Segretario fiorentino sappia allontanarsi dai modelli del passato per intraprendere una visione interamente nuova della storia e della politica rivisitando molti stereotipi tradizionali. Di questo processo di revisione, i «quindici anni» di «studio dell’arte dello stato» trascorsi da Machiavelli in Cancelleria sono un elemento fondamentale. L’insieme di funzioni e responsabilità formato dalle sue missioni diplomatiche, dall’amministrazione del territorio controllato da Firenze e dall’organizzazione della milizia, ascrivibili al suo servizio di Segretario, costituisce infatti l’elemento principale di quell’«esperienza delle cose moderne», che rappresenta l’altro dei due presupposti alla base della redazione del “Principe” (e in generale di tutta la sua opera).

Sin dai tempi del suo lavoro in Cancelleria comincia ad apparire l’interesse storiografico di Machiavelli per la propria patria, quando dà alle stampe il primo (1506) di due “Decennali” in versi dedicati alla recente storia cittadina. Già in questo componimento si percepisce in modo netto la dimensione fortemente politica della sua ricostruzione storica, testimoniata emblematicamente dall’esortazione finale a ricostituire una milizia a Firenze.

Il metodo machiavelliano si rivela poi completamente innovativo nelle opere maggiori. Nei “Discorsi” il vicino passato della propria città è richiamato più volte, quale esempio contemporaneo parallelo al paradigma della storia romana. Oltre al carattere marcatamente politico della sua lettura, colpisce in quest’opera la completa rivoluzione del tradizionale modello storiografico fiorentino - fondato su di una narrazione cronologica lineare - operata dall’autore. Qui, infatti, la storia cittadina è vista e rivista attraverso diverse angolazioni, intrecciando fili cronologici diversi: nei tre libri l’autore torna a volte sugli stessi temi, sugli stessi avvenimenti e sulla stessa fase storica osservandoli da prospettive diverse. Questo procedimento rivela un preciso programma di indagine della realtà capace di strutture di analisi vaste e composite che danno voce a personaggi collettivi e ai meccanismi più profondi delle società umane.

Se nelle successive “Istorie fiorentine” la linea della narrazione torna a farsi apparentemente più tradizionale e lineare, tuttavia anche in esse la dimensione politica emerge sul discorso storico trovando comunque nuove forme di sviluppo e di indagine nei proemi e nelle orazioni. Fissando nei proemi la sua esigenza di interpretazione politica degli avvenimenti esposti in ogni capitolo, infatti Machiavelli aggira il problema che il vincolo dello sviluppo cronologico della narrazione pone alla sua riflessione personale, collocando qui il luogo della critica al di fuori del racconto. Inoltre, la funzione originale delle orazioni nel testo delle “Istorie” trasforma questo strumento retorico, ereditato dalla tradizione, in un mezzo di rappresentazione degli attori della politica e delle loro differenti posizioni. Le orazioni diventano, insomma, la via utilizzata per mettere in scena la dialettica politica.

Nonostante le “Istorie” gli fossero state commissionate dai Medici, infine si deve ricordare come si manifesti anche in quest’opera l’indole politica repubblicana dell’autore, sebbene di fatto dissimulata rispetto a quanto accade nei “Discorsi”, dove l’esplicito elogio della libertà rivela invece tratti antimedicei. E forse anche per queste sue caratteristiche il commento a Livio rimarrà privo di edizione a stampa, avvenuta solo postuma nel 1531.