Carmelo Bene

 

 

Un ritratto di Carmelo Bene, la sorprendente “macchina attoriale” che ha cambiato forma e sostanza del modo di fare teatro. Artista discusso, eclettico e imprevedibile: un'icona della cultura italiana a cui il III Municipio della Capitale ha dedicato un Viale nel quartiere Porta di Roma.

 

 

Carmelo Bene (1937-2002): l’ultimo grande artista espresso dal nostro Novecento letterario. 

La pubblicazione della sua intera opera da parte di Bompiani nel 1995 - ciò che gli ha consentito di autodefinirsi orgogliosamente “un classico in vita” - può essere considerata la riprova del fatto che anche la cultura ufficiale accettasse questo giudizio quale verità palese ed incontrovertibile.

Nato a Campi Salentina - in provincia di Lecce - il 1 settembre del 1937, Carmelo Bene comincia a manifestare la propria personalità già all'Accademia d'Arte Drammatica, dove non completa il triennio di studi: viene infatti espulso per indisciplina. Egli racconterà poi di essersene andato spontaneamente per ragioni ideologiche.

Debutta nel ‘59 con il “Caligola” di Camus diretto da Alberto Ruggiero; con ammirazione e un pò di sospetto, pochi spettatori e alcuni critici illustri - tra cui Flaiano e Chiaromonte - battezzano quindi la carriera di un "enfant terrible" della cultura italiana, primo e più grande eroe delle "cantine teatrali" romane. L’anno seguente offre un lavoro tutto in prima persona con “Spettacolo Majakovskij”, commentato da musiche di Sylvano Bussotti.

Nel decennio successivo, l’enorme talento dell’attore-regista ha modo di dispiegarsi compiutamente in spettacoli divenuti leggenda.

Le sue riletture - virulente, aggressive, irrispettose al limite dell’oltraggio - del “Pinocchio” di Collodi (1961), dello shakespeariano “Amleto” (1961), di “Edoardo II” da Marlowe (1963), “Salomè” da Oscar Wilde (1964), “Manon” da Prévost (1964), “Amleto” da Shakespeare-Laforgue (1967) hanno avuto all’epoca l’effetto di un vero e proprio ciclone, suscitando stroncature pressoché unanimi della critica - ad eccezione del sagace Ennio Flaiano - e reazioni scandalizzate del pubblico.

Ad esempio è del 1963 un famoso episodio apocrifo: nel romano Teatro Laboratorio (26 posti), un attore orina su uno spettatore. In realtà si tratta di un argentino che ha riconosciuto in platea l'ambasciatore del suo paese; ma da allora le biografie di Bene attribuiscono a lui la performance, perfettamente in stile con il personaggio.  

È invece del 1966 la scoperta di Antonin Artaud e del suo "Teatro della crudeltà", seguendo la cui estetica (teatro antiborghese, antinarrativo, antipsicologico) nascono "Il monaco" e il più famoso "Nostra signora dei turchi".

La fuoriuscita dalla cosiddetta “dimensione delle cantine” - fra il 1968 e il 1974 - e l’approccio assai felice al cinema, inaugurato nel ‘68 con “Nostra Signora dei Turchi” che vince il Premio speciale della Giuria al Festival di Venezia - cui seguiranno nel tempo altri sei lungometraggi -, hanno contribuito ad accrescerne la popolarità. Comincia anche il lungo sodalizio artistico-sentimentale con l'attrice Lydia Mancinelli.

Negli anni ‘70 egli ottiene con i superbi “La cena delle beffe” da Sem Benelli (1974), “Romeo e Giulietta” da Shakespeare (1976), “S.A.D.E.” (1977), e “Manfred” da Byron (1979) vasta eco e grande successo. Si alimenta allora la leggenda di un Bene tiranno dei suoi compagni di scena e soprattutto delle sue partner (la Mancinelli si allontanerà da lui).

Gli ultimi vent’anni Carmelo Bene li spende all’insegna della sperimentazione: in particolare, il suo lavoro sulla voce spinge la dimensione “attoriale” verso confini mai prima raggiunti e lo pone all’avanguardia della scena contemporanea mondiale.

Se la direzione della Biennale Teatro, alla quale è chiamato nel 1988, si rivelerà un fallimento, restano lavori memorabili - le letture di Majakovskij, di Leopardi, dei “Canti orfici” di Dino Campana - a testimonianza della sua inesauribile creatività; rutilanti caleidoscopi di scene e costumi, di citazioni letterarie e di figuranti che lasciano spazio solo alla voce del “protagonista-demiurgo” che diventa un virtuoso dell'amplificazione del play back. Oltre a quella “Hamlet suite” messa in scena nel ‘94, dove al testo di Laforgue egli aggiunge musiche proprie con effetti di mirabile, stralunato, straziante lirismo. Uno spettacolo definitivo, una pietra miliare del teatro “indigeno” di ogni tempo.

Negli anni ‘80 Carmelo - molti lo chiamano già senza il cognome - è dunque diventato un mito e per i francesi anche un guru intellettuale, santificato dal filosofo Gilles Deleuze.

Tuttavia i suoi spettacoli cominciano a diradarsi, e sono sempre più a rischio di rinvii, di capricci contrattuali e sbalzi umorali dell'attore.

Poi comincia l'era dei remake ("Amleto", "Macbeth"), delle autocitazioni ("Pinocchio", "Nostra signora dei turchi"), dei recital con amplificazioni da concerto rock.

Le sue intemperanze caratteriali cominciano a far saltare gli spettacoli. I 4 by-pass preoccupano i fans, mentre lui litiga spesso con i critici e con la moglie (l’ex Miss Italia Raffaella Baracchi). 

Nel 1995 infine Carmelo Bene torna sotto i riflettori - e sugli scaffali delle librerie - con la sua, già ricordata, opera “omnia” nella collana dei Classici Bompiani, cui segue nel 2000 il poemetto “l mal de' fiori”.  

Muore il 16 marzo del 2002, nella sua casa romana, all'età di 64 anni.