“Bob Marley In This Life”: un libro dedicato al re del reggae.
Poco più di un anno fa, era il 9 febbraio 2017 - forse lo ricorderete - usciva per Chinaski Edizioni “Bob Marley In This Life” - Viaggio attraverso le parole del mito, il monumentale libro di Federico Traversa aka F.T. Sandman dedicato al re incontrastato del reggae, realizzato attraverso la raccolta e traduzione di gran parte delle interviste rilasciate da Bob Marley nel corso della sua straordinaria vita. Un pregevole progetto editoriale, decisamente degno di nota e di memoria.
Desideriamo ri-segnalarlo oggi, 11 maggio 2018, in occasione del 37° anniversario della scomparsa di questo grande eroe nazionale in Giamaica e mito assoluto della musica che è stato Bob Marley (1945-1981). Un artista che ha trasformato il reggae in linguaggio universale, per veicolare in tutto il mondo le grandi sfide - ancora drammaticamente in primo piano - contro la povertà, l’emarginazione e il razzismo.
Un’ autentica “leggenda” del XX secolo.
La Redazione
11/5/2018
I grandi protagonisti della storia politica italiana
Marco Pannella:
Il ritratto di un "radicale libero".
Nato a Teramo il 2 maggio del 1930, Marco Pannella - all’anagrafe Giacinto Pannella - a soli vent'anni è già incaricato nazionale universitario del Partito liberale, a ventidue Presidente dell'UGI (Unione Goliardica Italiana, associazione delle forze laiche studentesche), e a ventitré presidente dell'Unione nazionale degli studenti universitari (UNURI).
Laureatosi in Giurisprudenza nel 1950, giornalista, nel 1955 è tra i fondatori del Partito radicale assieme ad un prestigioso gruppo di intellettuali e di politici democratici, liberali e socialisti (Leo Valiani, Guido Calogero, Eugenio Scalfari).
Il Partito radicale inizia le sue attività nel 1956. Pannella vi si impegna subito a fondo.
1/5/2018
Lucio Toth: l’uomo del dialogo.
Un anno fa si spegneva a Roma Lucio Toth, un pilastro dell’associazionismo degli esuli: Presidente onorario dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia ed ex Presidente della Federazione delle Associazioni degli Esuli istriani, fiumani e dalmati. Aveva 82 anni. Lo ricordiamo tracciandone un breve profilo biografico.
Nato a Zara il 30 dicembre del 1934, dopo la carriera di Magistrato cassazionista e l’esperienza di Senatore della Repubblica nella X Legislatura, Lucio Toth è stato dal Congresso nazionale di Muggia (TS) del 1992 fino alle dimissioni nel 2012 al vertice dell’ANVGD - Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia - conducendola con mano sicura ed esperta negli anni in cui quelle terre vivevano profondi sconvolgimenti geopolitici.
28/4/2018
30 anni senza Steno: lo "scrittore" del cinema italiano.
A trent'anni dalla scomparsa, il percorso umano e artistico di uno dei grandi maestri della commedia all’italiana.
Steno, nome d’arte di Stefano Vanzina, nasce a Roma il 19 gennaio del 1917.
Appassionato di cinema fin da giovanissimo e con una spiccata vocazione all'umorismo, durante il periodo universitario si iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia e contemporaneamente collabora come redattore al giornale comico-umoristico "Marc'Aurelio", fucina di cineasti quali Fellini, Scola, Age, Scarpelli.
Nel 1939 abbandona la facoltà di Giurisprudenza e comincia la carriera di soggettista e sceneggiatore.
Il suo primo impegno è per "Imputato alzatevi" (1939) di Mario Mattioli, interpretato da Erminio Macario. In seguito scrive circa una trentina di film, lavorando con importanti registi fra cui Bragaglia, Freda, Borghesio, Alessandrini e Costa, finché nel 1949 è lui stesso a dirigere, insieme a Mario Monicelli, la commedia "Al diavolo la celebrità". È l' inizio di un lungo sodalizio che li porterà a realizzare insieme ben nove film fra cui il famoso "Guardie e ladri" (1951) con i due attori comici più amati di quegli anni: Aldo Fabrizi e Totò.
Nel 1952 Steno si mette in proprio e firma alcune esilaranti e divertenti commedie che gli offrono, fra l'altro, la possibilità di lavorare con attori di fama internazionale. Nel 1953 "L'uomo, la bestia e la virtù", tratto dall' omonima opera pirandelliana, ospita nel suo cast addirittura Orson Welles.
La sua ascesa è ormai inarrestabile e i suoi film successivi fra cui "Un americano a Roma" (1954), "Piccola posta" (1955), "I due colonnelli" (1962), "Arriva Dorrelik" (1967) riescono non solo a far divertire il suo pubblico ma rappresentano, con un'ironia tutta personale, i vizi e le virtù dell'Italia del dopoguerra. Determinante in questa direzione è sicuramente lo stretto rapporto professionale che lo lega a Totò, icona del napoletano disoccupato che ogni giorno deve usare la fantasia per superare il problema della fame.
Nel 1976 realizza uno dei suoi più grandi successi, "Febbre da cavallo", interpretato da Gigi Proietti, che diviene un vero e proprio “cult movie” tanto che i figli, Carlo ed Enrico, che nel frattempo hanno seguito le orme paterne, ne proporranno a distanza di oltre vent'anni una sorta di sequel "Febbre da cavallo- La mandrakata" (2002).
Durante tutti gli anni Ottanta dirige numerosi film, tra cui: "Mani di fata"(1983), "Mi faccia causa" (1984), "Animali metropolitani" (1987).
Stefano Vanzina si spegne a Roma, il 13 marzo del 1988, mentre lavora alla serie televisiva in sei episodi "Il professore".
In occasione del centenario della nascita del grande regista, annoverato insieme con Monicelli, Risi e Comencini tra i padri della cosiddetta commedia all’italiana, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma ha ospitato dall’11 aprile al 5 giugno 2017 una mostra monografica dal titolo “Steno, l’arte di far ridere - C’era una volta l’Italia di Steno. E c’è ancora”, patrocinata dalla Regione Lazio, curata da Marco Dionisi e Nevio De Pascalis e prodotta da Show Eventi in collaborazione con Fondazione Cinema per Roma.
Attraverso materiale inedito di famiglia - grazie ai figli - l’evento espositivo ha ricostruito per la prima volta la storia professionale e privata di uno dei più poliedrici registi italiani: dall'infanzia fino all'ultima opera cinematografica. Un percorso fatto di fotografie, cimeli, audiovisivi, carteggi e testimonianze dei tanti attori con i quali Steno ha lavorato.
7/3/2018
Fernando Botero
Molti lo considerano come il più importante artista sudamericano vivente: stiamo parlando di Fernando Botero Angulo.
La Capitale lo ha celebrato la scorsa estate con una mostra allestita nell’Ala Brasini del Complesso del Vittoriano. 50 capolavori provenienti da tutto il mondo che hanno ripercorso oltre cinquant’anni di carriera del grande artista colombiano.
Ad accogliere i visitatori - fuori dalla mostra - vi era la gigantesca scultura in bronzo “Cavallo con Briglie”.
Nato in Colombia il 19 aprile del 1932, pittore e scultore, Botero ha esposto per la prima volta nel 1948 a Medellìn: è molto conosciuto per il suo particolarissimo stile, talmente originale da meritare un nome proprio, “Boterismo”.
L'artista interpreta i soggetti delle sue opere d'arte, e conferisce loro una volumetria esagerata e sproporzionata estremamente espressiva, nonostante gli occhi siano fissi, quasi persi nel vuoto. Tra i temi trattati nella sua produzione ci sono temi sacri, temi sociali, ma anche temi come la maternità.
Nel 1951 Botero ha realizzato la sua prima personale nella capitale della Colombia, Bogotá. Negli anni ha lavorato anche in Francia, Italia e Spagna. Nel 1966 è stata organizzata la sua prima mostra europea, in Germania.
Nel corso della sua carriera, Botero ha donato numerose opere d'arte ai musei di Bogotà: nel 2000 ad esempio ha ceduto 123 pezzi suoi e 85 pezzi della sua collezione personale di altri pittori (come Chagall, Picasso e alcuni impressionisti francesi).
L'artista ha fatto però qualcosa di molto speciale per la sua città natale, la già citata Medellìn.
A Medellìn, che è anche la seconda città più grande della Colombia, nel quartiere conosciuto come “quartiere vecchio” vi è infatti Botero Plaza. Si tratta di un parco che ospita le 23 sculture che l'artista ha donato, insieme ad altre, alla città in occasione della ristrutturazione del Museo di Antioquia - che sorge proprio vicino al parco insieme al Rafael Uribe Palazzo della Cultura - avvenuta nel 2004.
Sempre al Museo di Antioquia Botero ha donato 119 pezzi.
16/4/2018
Giovanni Gentile
Esponente dell'idealismo, protagonista della cultura italiana durante il ventennio fascista, Giovanni Gentile venne ucciso il 15 aprile 1944 dai partigiani, ma i motivi decisivi dell'esecuzione sono ancora controversi.
Nato a Castelvetrano il 30 maggio del 1875, Giovanni Gentile ha compiuto gli studi universitari alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove è venuto a contatto con la filosofia dell'idealismo. Successivamente è stato professore all'Università di Palermo dal 1906 al 1913, dove ha scritto alcune delle sue opere principali come "La filosofia di Marx" e "La riforma della dialettica hegeliana". Passò poi a Pisa alla cattedra di filosofia teoretica; nel 1915 partecipò attivamente al Comitato pisano di preparazione e mobilitazione civile, secondo i principi espressi ne "La filosofia della guerra" (1914). Nel 1919 venne chiamato all'Università di Roma; dal 1922 al 1924 fu ministro della Pubblica Istruzione e legò al suo nome la riforma della scuola.
A conclusione di quanto aveva scritto e fatto nel decennio precedente, nel 1923 si iscrisse al partito fascista, adoperandosi per dargli un programma ideologico e culturale: primo atto di questo suo impegno fu il “Manifesto degli intellettuali del fascismo” (1925), a cui Croce rispose con un contromanifesto che da allora rese insanabile il contrasto fra i due filosofi.
Gentile tentò di collegare il fascismo direttamente al Risorgimento. Dal 1920 in poi il filosofo diresse il Giornale critico della filosofia italiana e numerose collane di classici e di testi scolastici; dal 1925 al 1944 diresse l'Enciclopedia Italiana, da lui fondata. Negli ultimi anni del fascismo Gentile tentò di porsi al di sopra dei contrasti con un nuovo programma di unità nazionale (“Discorso agli Italiani”, tenuto a Roma in Campidoglio, il 24 giugno 1943). Nell’autunno del 1943, su invito di Benito Mussolini e dopo aver subito un duro e inatteso attacco da parte del ministro badogliano Leonardo Severi, Gentile aderì alla Repubblica di Salò, auspicando tuttavia il ripristino dell’unità nazionale, e diventò presidente dell’Accademia d’Italia, con l’obbiettivo di riformare l’Accademia dei Lincei, e direttore della Nuova Antologia, con il proposito di accogliere “collaboratori non fascisti”.
Considerato da alcune componenti politiche della Resistenza come uno dei principali responsabili del regime fascista, venne assassinato il 15 aprile del 1944 sulla soglia della sua casa di Firenze, al Salviatino, da un gruppo partigiano fiorentino aderente ai GAP, come probabile conseguenza delle sue dichiarazioni pubbliche di alcune settimane prima, in cui approvava ed esaltava la fucilazione di cinque giovani renitenti alla leva, catturati durante un rastrellamento.
I due gappisti fiorentini, Bruno Fanciullacci - ucciso alcuni mesi dopo dalle forze italo-tedesche in un tentativo di fuga dopo essere stato catturato - e Antonio Ignesti, si appostarono verso le 13.30 nei pressi della Villa del Salviatino, e appena il filosofo giunse in auto gli si avvicinarono tenendo sotto il braccio dei libri per sembrare semplici studenti. Il filosofo abbassò il vetro per prestare ascolto ma fu subito colpito da una raffica. Fuggiti i due gappisti (che trovarono rifugio in casa del pittore Ottone Rosai che stigmatizzò il fatto con dure parole), l’autista si diresse all’ospedale di Careggi per trasferirvi il filosofo morente, ma invano.
15/4/2018
Arturo Toscanini: una vita per la musica.
Nella fase conclusiva delle celebrazioni del 150° anniversario della nascita, tracciamo un ritratto di Arturo Toscanini (1867-1957).
Genio della musica, stimato come uno dei più valenti direttori d'orchestra di sempre e uno dei più rigorosi interpreti di Verdi, Beethoven e Wagner, divenne un simbolo della cultura italiana nel mondo anche grazie alle prime trasmissioni radiofoniche e televisive che lo videro protagonista.
A lui è intitolata la Scuola Media Statale con Sezione Musicale di Via Flavio Andò, nel quartiere Serpentara del III Municipio di Roma. Continua a leggere
19/3/2018
La Redazione
Nicolò Carandini: il "conte rosso".
La figura di Nicolò Carandini (1895-1972): uno dei personaggi più rappresentativi del liberalismo italiano del dopoguerra.
Nicolò Carandini (1895-1972) nasce a Como il 6 dicembre del 1895. Proviene da un’antica e nobile famiglia modenese - possiede il titolo di conte - trasferitasi in Piemonte nell’800. Terminati gli studi classici, compiuti a Biella, partecipa al primo conflitto mondiale come ufficiale degli alpini. Dopo il congedo, le innate tendenze liberali lo avvicinano all’antifascismo. Intanto si laurea in Giurisprudenza a Torino e nel 1926 sposa Elena Albertini (1902-1990), figlia del senatore Luigi Albertini - da poco sollevato dalla direzione del “Corriere della Sera” a causa della sua opposizione al regime - e di Piera Giacosa. Attraverso gli Albertini ha modo di frequentare numerosi esponenti antifascisti, tra cui Ruffini, Croce, Amendola, Casati, Gallarati Scotti, Visconti Venosta, Ruini, Bonomi, De Gasperi, Donati, Papafava, Ferrara.
Dopo il matrimonio si trasferisce a Roma e si impegna con il cognato, Leonardo Albertini, nell’impresa della bonifica di Torre in Pietra, nell’Agro Romano. L’Azienda acquistata da Luigi Albertini (1871-1941) rappresenta un importante campo di sperimentazione agro-zootecnica, divenendo un’azienda modello per l’organizzazione del lavoro e per la qualità e la diversificazione dei prodotti. Il liberalismo di Carandini, anche grazie alla sua nuova esperienza professionale, risulta quindi sempre più caratterizzato dall’attenzione ai problemi sociali e dalla ricerca in chiave liberale di nuovi rapporti tra capitale e lavoro.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale e il progressivo deteriorarsi della presa sociale del fascismo, lo spingono a iniziare un lavoro politico più incisivo. Con il gruppo liberale di Pannunzio, Libonati, Bartoli e Cattani, Carandini si pone l’obiettivo di rinnovare il liberalismo italiano per porvi le basi della ricostruzione politica e morale della “nuova Italia”. Sotto questo profilo sente l’esigenza di collegarsi strettamente ai “grandi vecchi” della scuola liberale - Croce e Einaudi - per trarne l’autorevolezza intellettuale necessaria a dare un nuovo volto alla “comune presenza politica”. Animato da questo ideale, cura personalmente le prime pubblicazioni clandestine diffuse all’indomani del 25 luglio ’43 - Primi chiarimenti e Realtà -, il cui spirito si evince dal breve incipit che segue: “Siamo liberali e non sentiamo alcun bisogno di correggere questa nostra qualifica con aggettivi di accentuazione verso tendenze e graduazioni di colore che potrebbero prometterci, convenendo a un meglio avveduto calcolo politico, più vasti e immediati consensi”.
Il nucleo del pensiero di Carandini si traduce nell’inserimento dei liberali nel nuovo orizzonte democratico. Ciò può realizzarsi quando, nella veste di rappresentante del PLI all’interno del CLN romano, egli inaugura una politica di collaborazione tra tutte le forze democratiche antifasciste.
La liberazione di Roma, nel giugno del 1944, lo vede affermarsi immediatamente come uno degli esponenti più autorevoli del partito liberale. Il 3 settembre ’44 pronuncia un discorso al Teatro Brancaccio di Roma nel quale tratteggia con estrema lucidità le linee principali della proposta politica dei liberali; discorso che il giornalista e scrittore Mario Missiroli (1886-1974) stigmatizza definendo Carandini: “Un conservatore all’inglese”. Giudizio accolto di buon grado dall’interessato.
La sua partecipazione alla redazione di “Risorgimento Liberale”, nuovo organo del PLI, lo rende un attento osservatore degli sviluppi della realtà politica. Ed è proprio per l’autorevolezza acquisita che Benedetto Croce (1866-1952) gli propone di succedergli nel posto di Ministro senza portafoglio nel primo Gabinetto Bonomi. La carica, che detiene per pochi mesi - dal luglio al novembre del ’44 - gli vale la posizione di rappresentante della linea politica dei liberali, all’interno del primo governo realizzato interamente con il concorso delle neo ricostituite forze politiche democratiche.
Nel novembre 1944 accetta di andare a Londra come “rappresentante politico italiano” presso il governo britannico, con il rango di ambasciatore. La missione diplomatica, protrattasi fino al settembre 1947, gli consente di accumulare un’esperienza internazionale di grande valore: siede al tavolo della conferenza di pace di Parigi ed è tra i protagonisti delle “conversazioni” che portano all’accordo De Gasperi-Gruber sull’Alto Adige. Con lo statista trentino, nonostante la differente appartenenza politica, realizza un’intesa che contrassegna la politica estera italiana dell’immediato dopoguerra.
“Ti seguo con ogni voto migliore nella tua quasi inumana fatica - scrive ad Alcide De Gasperi - ammirando e facendomi modello della tua resistenza, del tuo buon volere e dell’altezza morale che guida la tua opera provvidenziale in questi duri tempi da cui usciremo unendo le nostre buone e fraterne volontà”.
Durante la missione londinese si avvicina molto alla cultura e alla politica britannica e lavora intensamente per un riavvicinamento italo-inglese. De Gasperi stesso lo vuole come ministro degli Esteri nel suo terzo gabinetto, ma i dissensi emersi con il PLI sull’opportunità o meno di firmare il trattato di pace - uniti alla sua nota ritrosia ad occupare “posti di potere” - impediscono a Carandini di accettare la proposta. Egli, contrariamente al partito, sostiene che il governo italiano dovrebbe accettare le clausole del trattato per poi avviare una nuova stagione di relazioni con le grandi democrazie occidentali.
Il 2 giugno 1946 viene eletto all’Assemblea Costituente, ma rinuncia al seggio per poter proseguire la missione a Londra. In quegli anni cominciano a delinearsi i primi dissensi con la leadership liberale. Le segreterie Lucifero e Cassandro spingono il partito ad allontanarsi da una ferma collaborazione con tutte le forze antifasciste. Il congresso del PLI del 1946 inoltre sancisce la scelta monarchica del partito, che per Carandini rappresenta una inequivocabile svolta a destra. Per tutto il periodo 1946-47 cerca di scongiurare un’involuzione conservatrice del partito, di cui nel frattempo è diventato vice-presidente. Il nuovo rapporto del PLI con “l’Uomo Qualunque” di Guglielmo Giannini però lo induce a prenderne le distanze. Dopo il congresso del dicembre 1947 la sinistra liberale dà vita al Movimento Liberale Indipendente che, in seguito all’affermarsi di una linea centrista nel PLI con la segreteria Villabruna, si ricongiunge al partito nel 1951.
Nel 1948 Carandini avvia alcune esperienze politiche e professionali che caratterizzeranno la sua vita. Da quell’anno è infatti uno dei rappresentanti italiani più autorevoli del Movimento Federalista Europeo. Sempre dal 1948 diventa presidente dell’Alitalia e dell’Istituto di Credito Fondiario, cariche che mantiene fino al 1968; in particolare l’Alitalia, sotto la sua brillante e capace presidenza, diviene l’unica linea nazionale e acquista prestigio a livello internazionale. Dal 1949 anima ininterrottamente l’attività editoriale del settimanale “Il Mondo” diretto da Mario Pannunzio (1910-1968) - fiore all’occhiello della sinistra liberale italiana - dalle cui colonne commenta gli avvenimenti più importanti sia di politica interna che estera: dal 1956 ne diventa anche uno dei principali finanziatori.
Tuttavia, la riunificazione liberale del 1951 ha vita breve. Nel 1954, con l’avvento di Giovanni Malagodi alla segreteria, il PLI prende una direzione opposta a quella indicata da Carandini, che di conseguenza nel 1955 è tra i fondatori del Partito Radicale: l’ultimo tentativo per dare vita ad una forza politica in grado di realizzare un liberalismo moderno e riformatore. Ma nel 1962 il Partito Radicale si scinde. Nicolò Carandini abbandona dunque definitivamente la scena politica. Trascorre infine gli ultimi anni della sua vita, oltre che nell’ininterrotta attività di agricoltore, collaborando a “Il Mondo” fino al termine della direzione di Pannunzio, nel 1966, e traducendo una scelta delle Lettere a Lucilio di Seneca - pubblicate nel 1971 -, il suo filosofo prediletto, che nell’introduzione definisce: “Il primo vero eretico del mondo pagano”. Muore a Roma il 18 marzo del 1972.
17/3/2018
Pasolini: un mistero italiano.
Intellettuale tra i più geniali e controversi del Novecento italiano, Pier Paolo Pasolini (1922-1975), in varie forme - dalla letteratura al cinema - seppe anticipare le trasformazioni della società italiana, evidenziandone limiti e storture. A distanza di tanti anni dalla sua scomparsa, sono molti i punti interrogativi ancora privi di risposta.
“Abbiamo perso un poeta, e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono solo tre o quattro dentro un secolo. Quando sarà finito questo secolo Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta”.
Con queste parole lo scrittore Alberto Moravia commentò la tragica scomparsa di Pier Paolo Pasolini, il cui assassinio rimane ad oggi uno dei grandi casi irrisolti della storia italiana.
Pier Paolo Pasolini nacque a Bologna il 5 marzo del 1922.
Dopo aver frequentato la facoltà di Lettere di Bologna si trasferì a Casarsa, in Friuli, fino al 1949. Si stabilì quindi a Roma, dove lavorò come soggettista e sceneggiatore cinematografico di numerosi film (La notte brava, 1959; Il bell’Antonio e La giornata balorda, 1960). Intanto pubblicava nelle riviste Paragone e Officina i primi saggi raccolti poi nel volume Passione e ideologia (1960), nei quali è molto forte l’interesse per il linguaggio, il rapporto tra lingua e dialetto e il significato di “sperimentalismo” nelle letteratura del dopoguerra. A distanza di anni uscirono altre raccolte di saggi: Empirismo eretico (1972), Scritti corsari (1975), Lettere luterane (postumo 1976).
Con logico passaggio dalla saggistica alla narrativa scrisse Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), che hanno per protagonisti i giovani del sottoproletariato delle borgate romane, ai quali l’autore fa parlare una lingua marcatamente intrisa di dialettismi. Nel 1963 pubblicò il romanzo giovanile Il sogno di una cosa e nel 1965 i racconti Alì dagli occhi azzurri. Postumo, e incompleto, è Petrolio, che vide la luce solo nel 1992.
Notevole la produzione lirica che egli andò man mano privilegiando con il passare degli anni (Le ceneri di Gramsci, 1957; La religione del mio tempo, 1961; Poesia in forma di rosa, 1964; Poesie dimenticate, 1965; Poesie, 1970; Trasumanar e organizzar, 1971).
Personalità complessa e scrittore di singolare originalità - le cui parole furono spesse interpretate come provocatorie - Pier Paolo Pasolini trovò un mezzo espressivo a lui non meno connaturale che la parola nel cinema, verso cui si andarono sempre più orientando i suoi interessi artistici.
Come regista ha realizzato una serie di film di valore disuguale, ma quasi sempre apprezzabili per forza espressiva e polemica, in alcuni dei quali alle istanze sociali si affiancano motivi religiosi: Accattone (1961), Mamma Rosa (1962), l’episodio La ricotta (1963) in RoGoPaG, Il Vangelo secondo Matteo (1964), Uccellacci e uccellini (1966), Edipo re (1967), Teorema (1968), Porcile (1969).
Dopo aver diretto nel 1970 Medea, ha realizzato una trilogia “erotica” (Decameron, 1971; I racconti di Canterbury, 1973; Il fiore delle mille e una notte, 1974) in cui risalendo alle grandi fonti della narrativa classica, ha espresso una sua concezione della sessualità innocente e spontanea.
Del 1975 è il suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Pier Paolo Pasolini venne ucciso nella notte tra il 1 e il 2 novembre 1975 nei pressi dell’Idroscalo di Ostia, a Roma.
Nel luogo in cui morì oggi sorge un parco letterario a lui dedicato.
A distanza di oltre quarant’anni il delitto Pasolini rimane un mistero irrisolto.
5/3/2018
Carla Fracci: una vita "sulle punte".
La vita e la carriera di Carla Fracci: il ritratto di una delle più importanti ballerine della storia.
Carla Fracci nasce a Milano il 20 agosto del 1936.
Il padre fa il tranviere ma nutre una grande passione per il tango. La porta perciò spesso nelle balere ad osservare chi balla. Entra alla Scala per un caso fortuito: un amico di famiglia, professore d'orchestra del teatro milanese, suggerisce ai genitori di iscriverla alla scuola di ballo. Quando, piccola e fragile, si presenta agli esami di ammissione, i commissari non la prendono molto in considerazione, ma il suo visino dolce suscita tenerezza in una maestra presente all'audizione, ed è così che Carla viene ammessa. Si diploma alla Scala nel 1954 ed entra a far parte del Corpo di Ballo nel 1955.
Dopo il "passo d'addio" al termine della scuola, avviene il classico colpo di fortuna. Alla Scala si rappresenta "Cenerentola" e Violette Verdy, prima ballerina dell'Opéra di Parigi, rinuncia ad alcune recite. Carla Fracci viene chiamata in palcoscenico per provare la parte e viene scelta come sostituta. Il debutto trionfale avviene il 31 dicembre del 1955. Da quel momento inizia la sua luminosa ed inarrestabile carriera.
Nel 1958 diventa prima ballerina della Scala e nello stesso anno avviene il grande incontro con il coreografo John Cranko che la vuole come Giulietta nella sua nuova versione di "Romeo e Giulietta" per la Fenice di Venezia. Successivamente, nel 1959, interpreta al Royal Festival Hall di Londra per la prima volta Giselle: personaggio con il quale la ballerina milanese si afferma in tutto il mondo. Segue un lungo elenco di eroine del balletto: Aurora, Gelsomina, Odile/Odette, Swanilda, da lei magistralmente interpretate e che, grazie alla sua straordinaria sensibilità, la consacrano come la “ballerina-interprete” per eccellenza.
Carla prosegue la sua formazione artistica partecipando a stage avanzati a Londra, Parigi e New York. Danza in Italia e all'estero con partner d'eccezione: Rudolph Nureyev, Milhorad Miskovich, Vladimir Vassiliev, solo per citarne alcuni.
Si sposa nel 1962 con il regista Beppe Menegatti , con cui nel 1968 avrà un figlio: Francesco.
Nel 1974 comincia a danzare con l'American Ballet Theatre.
Diventa direttrice del Corpo di Ballo del San Carlo di Napoli nel 1988, e successivamente dell'Arena di Verona e del Teatro alla Scala.
Dal 1994 è membro dell'Accademia di Belle Arti di Brera. Dal 1995 è anche presidente di Altritalia Ambiente, associazione ambientalista.
Il 2002 la vede protagonista di una vera e propria sfida, in cui veste i panni maschili di Amleto sul palcoscenico del Teatro dell'Opera a Roma, in un balletto ispirato all'omonimo dramma shakespeariano. Carla Fracci è l’unica donna attorniata da una compagnia di uomini.
Direttrice del Corpo di Ballo dell'Opera di Roma dal 2000 al 2010, la Fracci, nel corso della sua lunga e brillante carriera, ha ricevuto numerosi premi internazionali ed è stata insignita del titolo di Cavaliere, Commendatore e Grand'Ufficiale della Repubblica Italiana.
Dal 2009 al 2014 è stata Assessore alla Cultura della Provincia di Firenze.
Nel 2013 ha pubblicato, per Mondadori, la sua autobiografia “Passo dopo passo. La mia storia”.
22/2/2018
15 anni senza Alberto Sordi: storia di un italiano.
Sono trascorsi già 15 anni dalla sua scomparsa, ma sembra ieri, e soprattutto, adesso come allora, avremmo ancora molto bisogno di lui; del grande "Albertone nazionale" che, meglio di chiunque altro, ha incarnato tic, cialtronerie, generosità, coraggio e vigliaccherie di tutti gli italiani. Nessuno si senta escluso!
Per omaggiarlo ripercorreremo insieme le tappe principali della sua vita e della sua carriera. Alberto Sordi dunque (1920-2003): il ritratto di uno dei maggiori interpreti della commedia all’italiana. Continua a leggere
La Redazione
24/2/2018
Tornano su Rai 1 le storie del Commissario Montalbano.
Sono stati presentati ieri, 1 febbraio, a Roma, nella sede Rai di Viale Mazzini, i due nuovi attesi episodi de Il Commissario Montalbano, "La giostra degli scambi" e "Amore", tratti come di consueto dalle opere di Andrea Camilleri.
La messa in onda è prevista rispettivamente per lunedì 12 e lunedì 19 febbraio, in prima serata su Rai 1.
Il commissario Montalbano è una produzione Rai Fiction - Palomar, prodotto da Carlo Degli Esposti e Nora Barbieri con Max Gusberti, e diretto da Alberto Sironi, con Luca Zingaretti, Cesare Bocci, Peppino Mazzotta, Angelo Russo Fabrizio Bentivoglio, Stella Egitto, Serena Iansiti, Fabrizio Ferracane e Sonia Bergamasco.
Buona visione!
Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, il 6 settembre del 1925. Ha cominciato a lavorare come regista teatrale nel 1942. Da allora ha messo in scena più di cento opere, tra cui molti lavori di Luigi Pirandello: Così è (se vi pare) nel 1958, Ma non è una cosa seria nel 1964, La rappresentazione della favola destinata ai Giganti nel 1959, Sei personaggi in cerca d'autore, rappresentato a Lisbona con allievi e attori inglesi e russi che recitavano ognuno nella propria lingua, Il gioco delle parti nel 1980, e molti altri.
È stato il primo a portare Beckett in Italia, mettendo in scena Finale di partita nel 1958 al Teatro dei Satiri di Roma e poi nella versione televisiva con Adolfo Celi e Renato Rascel.
Ha rappresentato testi di Ionesco (Il nuovo inquilino nel 1959 e Le sedie nel 1976), Adamov (Come siamo stati nel 1957, prima assoluta in Italia), Strindberg, T.S. Eliot. Ha messo in scena i poemi di Majakovskij nello spettacolo Il trucco e l'anima, che è stato in tournée in tutto il Sudamerica.
Ha realizzato numerose regie di opere teatrali e di romanzi sceneggiati per la radio e per la televisione. È stato autore, sceneggiatore e regista di programmi culturali per la radio e la televisione. Ha prodotto diversi programmi televisivi tra cui, per esempio, un ciclo dedicato dalla Rai al teatro di Eduardo De Filippo e le famose serie poliziesche del Commissario Maigret di Simenon e del Tenente Sheridan.
Ha insegnato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma dal 1958 al 1965 e dal 1968 al 1970; è stato titolare della cattedra di regia all'Accademia Nazionale di Arte Drammatica "Silvio D'Amico" dal 1977 al 1997. Ha tenuto corsi, conferenze e stage di regia, sia in Italia che all'estero.
All’età di vent'anni alcune sue poesie furono pubblicate in un'antologia curata da Giuseppe Ungaretti. Nello stesso tempo scriveva i suoi primi racconti per riviste e quotidiani come "L'Italia socialista" e "L'ora" di Palermo.
Ha esordito come romanziere nel 1978 con Il corso delle cose (Lalli, ristampato da Sellerio nel 1999), primo della serie dei romanzi "storici".
Due anni dopo ha pubblicato con Garzanti Un filo di fumo (premio Gela).
Sono seguiti, per Sellerio: La strage dimenticata, La stagione della caccia, La bolla di componenda, Il birraio di Preston (premio Vittorini), La concessione del telefono. Nel 1999 è uscito per Rizzoli La mossa del cavallo (premio Elsa Morante). Sempre Sellerio ha pubblicato i primi cinque romanzi - ne sono seguiti molti altri - che hanno come protagonista il commissario Montalbano: La forma dell'acqua (1994), Il cane di terracotta (1996), Il ladro di merendine (1996), La voce del violino (1998, premio Flaiano), La gita a Tindari (2000).
Per Mondadori sono usciti: Un mese con Montalbano (1998), Gli arancini di Montalbano (1999) e La scomparsa di Patò (2000), che riprende il filone dei romanzi "storici". Ha collaborato a riviste italiane e straniere ("Ridotto", "Sipario", "Dramma", "Le théatre dans le monde") e dal 1995 all'"Almanacco letterario" (Edizione dell'Altana).
Dai suoi romanzi incentrati sulla figura del commissario Salvo Montalbano è stata tratta una lunga e fortunata serie di film per la televisione - la prima messa in onda risale al 1999 su Rai 2 - alla realizzazione della quale Camilleri ha collaborato come sceneggiatore. Difficile contare le repliche! Sua anche la sceneggiatura e l'adattamento per il teatro del Birraio di Preston, che nella versione per la radio lo ha visto autore e interprete.
Sempre per la radio ha sceneggiato e adattato Un filo di fumo, partecipandovi anche in veste di lettore. Ha recitato nel ruolo di capo della polizia in Guerra di spie, film per la Tv di Corrado Augias, e nel ruolo del nonno archeologo ne Il gioco della maschera di Rocco Mortelliti, di cui lo stesso Camilleri ha scritto il soggetto.
Sposato dal 1947 con Rosetta Dello Siesto, ha tre figlie e quattro nipoti.
Andrea Camilleri vive a Roma dalla fine degli anni Quaranta.
Con “L’altro capo del filo”, Sellerio editore, la nuova indagine del commissario Montalbano - maggio 2016 -, ha festeggiato i cento libri pubblicati.
Nel 2017 è uscito, sempre per Sellerio editore, il romanzo “La rete di protezione”, che ha visto ancora una volta protagonista il Commissario più amato dagli italiani.
2/2/2018
Ricordando Al Jarreau: una voce leggendaria.
Considerato uno dei più grandi artisti degli ultimi decenni, Al Jarreau resta il solo ad aver vinto tre Grammy Award in categorie diverse: jazz, pop e rhithm and blues.
Come ricorderete, si è spento a Los Angeles un anno fa, il 12 febbraio del 2017, a 76 anni. Aveva annunciato da poco il suo ritiro dalle scene.
Nato il 12 aprile del 1940 a Milwaukee, nel Wisconsin, e figlio di un vicario, Al Jarreau aveva iniziato a cantare da piccolo nel coro gospel della chiesa locale. Nonostante il suo amore per la musica e per il canto, Jarreau aveva continuato gli studi e si era laureato in Psicologia.
Aveva iniziato a cantare in piccoli jazz club nei primi anni ‘60 e nel 1965 aveva inciso il suo primo album, “1965”, per la Bainbridge, dandogli però un seguito solo 10 anni dopo, quando la Reprise, l'etichetta di Frank Sinatra, lo aveva riportato sul mercato discografico e lo aveva fatto conoscere alla critica e al pubblico del jazz americano.
Jarreau negli anni '70 e '80 divenne maestro indiscusso del più sofisticato pop-jazz americano, partecipando ai più importanti jazz festival internazionali e ricevendo numerosi premi sia negli States che in Europa.
Famose le sue cover di brani come “Your song” di Elton John, “Rainbow in your eyes” di Leon Russell, “Mas que nada” di Jorge Ben e l’adattamento vocale di “Take five” di Paul Demond. Aveva registrato con Randy Crawford al Montreux Jazz Festival nel mitico “Casino Lights”, ed era apparso inoltre come ospite nei dischi di Quincy Jones, Shakatak, Chick Corea, Freddie Hubbard, Joe Sample,Larry Carlton, Bob James, Lee Ritenour.
Il suo ultimo album è stato "My Old Friend: Celebrating George Duke", pubblicato nel 2014 per la Concord.
Al Jarreau, il "grande" Al Jarreau, si è spento a Los Angeles il 12 febbraio del 2017, alla soglia dei 77 anni.
10/2/2018
Vasco Rossi: 66 anni di “vita spericolata”.
Blasco e Komandante sono i suoi due soprannomi più popolari, ma per la storia del rock italiano, di cui è un protagonista di primo piano, è Vasco e basta!
2/2/2018
110 anni fa, Amintore Fanfani: il "rieccolo".
Tra l’estate del 1948 e la primavera del 1949 nel nostro Paese si susseguono alcuni eventi entrati poi a buon diritto nei libri di Storia: l’attentato a Palmiro Togliatti, il Piano Marchall, la scissione sindacale, l’adesione italiana al Patto Atlantico, solo per citarne alcuni.
Nello stesso biennio emergono due personaggi che per molti anni saranno protagonisti indiscussi della scena politica nostrana: Amintore Fanfani e Aldo Moro, i “cavalli di razza” della scuderia di Giuseppe Dossetti. Entrambi “professorini”, entrambi decisi a fare del partito della Democrazia Cristiana qualcosa di molto diverso rispetto alla formula interclassista perseguita e realizzata da Alcide De Gasperi, vale a dire quella di un partito-recipiente in grado di accogliere elettori provenienti da ogni ceto, accomunati da un “mastice” confessionale e dalla disperata ricerca di stabilità, sicurezza e libertà. Sentimenti, questi ultimi, che tuttavia fanno ottenere alla DC lo straordinario risultato nella tornata elettorale del 18 aprile ’48. Nel governo che ne deriva Fanfani è ministro del Lavoro e Moro sottosegretario agli Esteri, con l’incarico di sovrintendere ai problemi dell’emigrazione sotto la severa guida del ministro Carlo Sforza. A questo punto Amintore ha da poco compiuto quarant’anni, essendo nato a Pieve Santo Stefano, a nord di Arezzo, tra i monti dell’Alto Tevere, il 6 febbraio del 1908.
6/2/2018
Giorgio Perlasca
In vista della Giornata della Memoria, vogliamo ripercorrere insieme a voi la straordinaria esistenza di Giorgio Perlasca (1910-1992). La scorsa estate lo avevamo ricordato in occasione del 25° anniversario della scomparsa.
Il suo nome, come sappiamo, compare nell’elenco dei 525 italiani Giusti tra le Nazioni, ossia i “non ebrei” che hanno rischiato la propria vita per salvare quella dei perseguitati dal genocidio nazista.
La Redazione
Giorgio Perlasca nasce a Como il 31 gennaio del 1910. Dopo qualche mese, per motivi di lavoro del padre Carlo, la famiglia si trasferisce a Maserà, in provincia di Padova.
Negli anni Venti aderisce con entusiasmo al fascismo, in particolar modo alla versione dannunziana e nazionalista. Tanto che per sostenere le idee di D’Annunzio litiga pesantemente con un suo professore che aveva condannato l’impresa di Fiume, e per questo motivo viene espulso per un anno da tutte le scuole del Regno.
Coerentemente con le sue idee, parte come volontario prima per l’Africa Orientale e poi per la Spagna, dove combatte in un reggimento di artiglieria al fianco del generale Franco.
Tornato in Italia al termine della guerra civile spagnola, entra in crisi il suo rapporto con il fascismo. Essenzialmente per due motivi: l’alleanza con la Germania, contro cui l’Italia aveva combattuto solo vent’anni prima, e le leggi razziali entrate in vigore nel 1938 che sancivano la discriminazione degli ebrei italiani. Smette perciò di essere fascista, senza però mai diventare un antifascista.
Scoppiata la Seconda guerra mondiale, è mandato come incaricato d’affari con lo status di diplomatico nei paesi dell’Est per comprare carne per l’Esercito italiano.
L’Armistizio tra l’Italia e gli Alleati (8 settembre 1943) lo coglie a Budapest: sentendosi vincolato dal giuramento di fedeltà prestato al Re rifiuta di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, ed è quindi internato per alcuni mesi in un castello riservato ai diplomatici.
Quando i tedeschi prendono il potere (metà ottobre 1944) affidano il governo alle Croci Frecciate, i nazisti ungheresi, che iniziano le persecuzioni sistematiche, le violenze e le deportazioni verso i cittadini di religione ebraica.
Si prospetta il trasferimento degli internati diplomatici in Germania. Approfittando di un permesso a Budapest per visita medica Perlasca fugge.
Si nasconde prima presso vari conoscenti, quindi grazie a un documento che aveva ricevuto al momento del congedo in Spagna trova rifugio presso l’Ambasciata spagnola, e in pochi minuti diventa cittadino spagnolo con un regolare passaporto intestato a Jorge Perlasca. Inizia dunque a collaborare con Sanz Briz, l’Ambasciatore spagnolo che assieme alle altre potenze neutrali presenti (Svezia, Portogallo, Svizzera, Città del Vaticano) sta già rilasciando salvacondotti per proteggere i cittadini ungheresi di religione ebraica.
A fine novembre Sanz Briz deve lasciare Budapest e l’Ungheria per non riconoscere de jure il governo filo nazista di Szalasi che chiede lo spostamento della sede diplomatica da Budapest a Sopron, vicino al confine con l’Austria.
Il giorno dopo, il Ministero degli Interni ordina di sgomberare le case protette perché é venuto a conoscenza della partenza di Sanz Briz.
È qui che Giorgio Perlasca prende la sua decisione: “Sospendete tutto! State sbagliando! Sanz Briz si è recato a Berna per comunicare più facilmente con Madrid. La sua è una missione diplomatica importantissima. Informatevi presso il Ministero degli Esteri. Esiste una precisa nota di Sanz Briz che mi nomina suo sostituto per il periodo della sua assenza”.
È creduto e le operazioni di rastrellamento vengono sospese.
Il giorno dopo, su carta intestata e con timbri autentici compila di suo pugno la sua nomina a rappresentante diplomatico spagnolo e la presenta al Ministero degli Esteri, dove le sue credenziali vengono accolte senza riserve.
Nelle vesti di diplomatico regge pressoché da solo l’Ambasciata spagnola, organizzando l’incredibile “impostura” che lo porta a proteggere, salvare e sfamare giorno dopo giorno migliaia di ungheresi di religione ebraica ammassati in “case protette” lungo il Danubio.
Li tutela dalle incursioni delle Croci Frecciate, si reca con Raoul Wallenberg, l’incaricato personale del Re di Svezia, alla stazione per cercare di recuperare i protetti, tratta ogni giorno con il Governo ungherese e le autorità tedesche di occupazione, rilascia salvacondotti che recitano “parenti spagnoli hanno richiesto la sua presenza in Spagna; sino a che le comunicazioni non verranno ristabilite ed il viaggio possibile, Lei resterà qui sotto la protezione del governo spagnolo”.
Li rilascia utilizzando una legge promossa nel 1924 da Miguel Primo de Rivera che riconosceva la cittadinanza spagnola a tutti gli ebrei di ascendenza sefardita (di antica origine spagnola, cacciati alcune centinaia di anni addietro dalla Regina Isabella la Cattolica) sparsi nel mondo.
La legge Rivera è la base legale dell’intera operazione organizzata da Perlasca, che gli permette di portare in salvo 5218 ebrei ungheresi.
Fino alla Prima guerra mondiale gli ebrei si sentivano ed erano pienamente integrati (nel 1910 erano 911.227 il 4,3% della popolazione della Grande Ungheria) con un volontario processo di “magiarizzazione” in tutti i campi. Questa fedeltà alla nazione e fervente patriottismo ottenne in cambio un’attenzione particolare nel reprimere ogni atteggiamento antisemita. Questo rapporto di amicizia con il popolo ungherese iniziò ad incrinarsi subito dopo la sconfitta del 1918. L’Ungheria con il Trattato di Trianon dovette cedere oltre i due terzi del suo territorio e circa 14 milioni di abitanti. In tale atmosfera maturarono una serie di movimenti ultranazionalistici il cui scopo principale fu quello di trovare un colpevole a cui attribuire le responsabilità di tale situazione. Il capro espiatorio fu trovato negli Ebrei. Venne introdotto nel 1920 il “Numerus clausus”, stabilendo che la percentuale degli ebrei ammessi a frequentare le scuole superiori e le università non potesse superare il 6% del totale degli iscritti. Negli anni ’30 vi fu un sostanziale avvicinamento con la Germania nazista e nel triennio 1938-41 furono promulgate tre leggi razziali sul modello delle leggi di Norimberga. La politica verso gli Ebrei si caratterizzò da accelerazioni e rallentamenti determinati innanzitutto dagli interessi della politica ungherese che li usava come merce di scambio per ottenere “favori” da Hitler. L’Ungheria, dopo aver recuperato la quasi totalità dei territori perduti con il Trattato di Trianon, esauriva il desiderio di collaborare pienamente con i Tedeschi e di fare alla Germania ulteriori concessioni sulla “questione ebraica”. Ma quando nel giugno 1941 l’Ungheria entrò in guerra alleata alla Germania, le condizioni degli Ebrei peggiorarono notevolmente. I cittadini ebrei dai 22 anni in sù dovettero prestare servizio nei “Battaglioni di lavoro” in abiti civili e con un collare al braccio che li identificasse come ebrei. Peggiorando le sorti della guerra, l’Ungheria tentò di riprendersi una autonomia consumando la rottura totale nel settembre 1943, quando riconobbe la legittimità del governo italiano di Badoglio ma soprattutto quando prese posizione in difesa degli Ebrei. A quel punto l’unica soluzione valida per la Germania fu quella di rovesciare il governo ungherese e l’operazione “Margarethe I” fu il nome in codice scelto per l’occupazione del Paese (12 marzo 1944) e il 22 venne nominato un governo gradito ai Tedeschi. In quei giorni Eichmann e i suoi più fidati collaboratori arrivarono in Ungheria e il 28 aprile partirono i primi convogli: in meno di tre mesi Eichmann riuscì a deportare oltre 300.000 persone verso i campi di sterminio. Il 6 giugno lo sbarco in Normandia degli Alleati apriva un nuovo fronte di guerra: Horthy, il Reggente, sempre più preoccupato chiese il ritiro delle truppe tedesche senza risultato. Il 28 agosto l’Armata rossa raggiungeva la Transilvania minacciando direttamente l’Ungheria. Horthy tentò di trattare una pace separata. L’11 ottobre accettava le condizioni imposte dai Russi e il 15 annunciò l’armistizio alla radio. I nazisti ungheresi, le croci frecciate, spalleggiati dai tedeschi, occuparono la sede della radio annunciando che Horthy era stato deposto incitando la popolazione ungherese a continuare la lotta a fianco dei Tedeschi. A Budapest si trovavano tra i 150.000 e i 160.000 Ebrei ed altrettanti sopravvivevano ancora nel resto dell’Ungheria utilizzati nei “Battaglioni di lavoro”. Il 17 Eichmann tornava a Budapest per riprendere l’opera lasciata interrotta pochi mesi prima. Il 21 le squadre di nylas iniziavano a rastrellare casa per casa gli Ebrei di Budapest. Molti vennero impegnati in lavori disumani in città, altri organizzati in 70 “Battaglioni di lavoro” e mandati in Germania, a piedi, oltre 200 chilometri in 7 giorni, al freddo e senza cibo. Chi non resisteva veniva ucciso. Altri inviati nei campi di sterminio, altri uccisi e gettati nel Danubio, altri concentrati nel Ghetto a morire di stenti. Alla liberazione dei 786.555 ebrei ungheresi (censimento del 1941) solo 200.000 sopravvissero.
Dopo l’entrata in Budapest dell’Armata Rossa, Giorgio Perlasca viene fatto prigioniero, liberato dopo qualche giorno, e dopo un lungo e avventuroso viaggio per i Balcani e la Turchia rientra finalmente in Italia.
Da eroe solitario diventa un “uomo qualunque”: conduce una vita normalissima e chiuso nella sua riservatezza non racconta a nessuno, nemmeno in famiglia, la sua storia di coraggio, altruismo e solidarietà.
Grazie ad alcune donne ebree ungheresi, ragazzine all’epoca delle persecuzioni, che attraverso il giornale della comunità ebraica di Budapest ricercano notizie del diplomatico spagnolo che durante la Seconda guerra mondiale le aveva salvate, la vicenda di Giorgio Perlasca esce dal silenzio.
Le testimonianze dei salvati sono numerose, arrivano i giornali, le televisioni, i libri, e lo stesso Perlasca si reca nelle scuole per raccontare quel che aveva compiuto. Non certo per protagonismo, ma proprio perché ritiene necessario rivolgersi alle giovani generazioni affinché tali follie non abbiano mai più a ripetersi.
Giorgio Perlasca si spegne il 15 agosto del 1992. È sepolto nel cimitero di Maserà, a pochi chilometri da Padova. Ha voluto essere sepolto nella terra con al fianco delle date un’unica frase: “Giusto tra le Nazioni”, in ebraico.
25/1/2018
15 anni senza l’Avvocato. Gianni Agnelli: l’ultimo re d’Italia.
Affascinante, ricco, amante dello sport e dell’arte, Gianni Agnelli (1921-2003) è stato il rappresentante di spicco dell’economia italiana nel mondo, il re d’Italia senza corona - come amavano definirlo - e uno degli uomini più ammirati per il suo stile inconfondibile e la sua innata eleganza. Lo ricordiamo tracciandone un ritratto a 15 anni dalla morte.
Gianni Agnelli nasce a Torino, il 12 marzo del 1921, secondo di sette fratelli.
Suo padre Edoardo muore tragicamente in un incidente aereo nel 1935, quando Gianni ha appena 14 anni e questo lo porta a stringere un legame strettissimo con il nonno Giovanni, fondatore della FIAT (Fabbrica Italiana Automobili Torino): è con lui che ha avuto inizio la dinastia Agnelli, destinata a conservare un ruolo di primo piano nella storia economica e sociale d’Italia. Il rapporto tra i due non si incrina nemmeno nei difficili anni che vedono il senatore Giovanni opporsi alla nuora Virginia Bourbon del Monte, colpevole di aver intrecciato una relazione con il giornalista Curzio Malaparte. La contesa si risolve con un compromesso firmato nel 1937, in base al quale la custodia dei sette figli rimane a Virginia, che di fatto rinuncia però a sposare in seconde nozze il suo amante. Virginia Bourbon del Monte morirà qualche anno dopo, nel 1945, a seguito di un incidente automobilistico. Nello stesso anno muore il senatore Giovanni Agnelli.
Il timone della FIAT non passa subito a Gianni Agnelli, ma a Vittorio Valletta, figura manageriale di grande spessore che guiderà l’azienda torinese per un ventennio, ponendo delle basi solidissime per la crescita della FIAT, soprattutto negli anni del boom economico. A Gianni Agnelli sono riservate, al momento, delle cariche onorarie e di rappresentanza, che gli valgono come apprendistato, e la Presidenza della Juventus, squadra di calcio che il padre Edoardo aveva portato al successo.
Il giovane erede di casa Agnelli sceglie infatti di seguire il consiglio di suo nonno di prendersi qualche anno di libertà, prima di immergersi nelle preoccupazioni dell’azienda. Ha conseguito una laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Torino e giovanissimo ha preso parte al secondo conflitto mondiale, arruolato nel 1° reggimento “Nizza Cavalleria”. Ma ora inizia a godersi la giovinezza, compiendo numerosi viaggi, frequentando i luoghi della mondanità e le personalità del jet-set internazionale: attrici, principi, uomini politici (è di questi anni l’inizio della sua amicizia con John Fitzgerald Kennedy).
Nel 1953 Gianni Agnelli sposa la principessa Marella Caracciolo di Castagneto, alla quale rimarrà accanto per tutta la vita, nonostante pettegolezzi e alcune dichiarazioni rilasciate in vita dallo stesso Avvocato lascino pensare a infedeltà coniugali. La coppia ha due figli, Edoardo - morto celibe, probabilmente suicida, a 46 anni, il 15 novembre del 2000 - e Margherita, sposata in prime nozze con Alain Elkann, dal quale ha tre figli, John Jacob detto Jaki - erede designato alla guida del gruppo - Lapo e Ginevra, e in seconde nozze con il nobile russo Serge de Pahlen, dal quale ha avuto 5 figli.
È il 1966 quando Gianni Agnelli assume finalmente la guida della FIAT. Gli anni del miracolo economico italiano sono ormai finiti e l’Avvocato si trova a dover gestire una situazione delicata, contrassegnata da forti tensioni sociali, nota come “autunno caldo”. Sul piatto c’è il rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici - che verrà siglato nel 1970 al termine di una lunga serie di scioperi - ma ci sono anche le problematiche legate alla politica industriale di Valletta. Gianni Agnelli decide così di cedere alcune quote delle produzioni della Divisione Mare e della Fiat Velivoli e di concentrarsi sul settore automobilistico. Tra il ’69 e il ’70 vengono acquisite la Ferrari e la Lancia, viene avviato un ambizioso progetto per rendere noto il marchio FIAT a livello internazionale e vengono aperte unità produttive anche in Polonia, Spagna, Yugoslavia, Brasile, Argentina e Turchia.
Nel 1974 viene eletto Presidente della Confindustria, in nome di una guida che gli industriali vogliono sicura e autorevole, carica che mantiene fino al 1976. Nel 1979 raggiunge il culmine una nuova profonda crisi economica iniziata qualche anno prima, tanto che si arriva a parlare per la sola FIAT di ben 14.000 licenziamenti. Gli scontri tra l’azienda, da una parte, e i sindacati e il Partito Comunista, dall’altra, si fanno durissimi: i cancelli di Mirafiori vengono “bloccati” per ben 35 giorni, finché si arriva al 14 ottobre del 1980, alla cosiddetta “marcia dei quarantamila”, dal supposto numero di lavoratori che reclamano il diritto di poter andare a lavorare. La FIAT, sotto pressione, rinuncia ai licenziamenti e mette in cassa integrazione 23.000 dipendenti. Per il sindacato è una sconfitta storica, per Gianni Agnelli una vittoria che può finalmente dare una svolta decisiva alla FIAT.
Agnelli, affiancato da Cesare Romiti, rilancia la FIAT in campo internazionale e, in pochi anni, la trasforma in una holding con interessi differenziati, che non si limitano più al solo settore dell’auto (in cui fra l’altro aveva ormai assorbito anche l’Alfa Romeo), ma vanno dall’editoria alle assicurazioni.
La scelta risulta vincente e gli anni ’80 si rivelano fra i più felici di tutta la storia aziendale. Agnelli si consolida sempre di più come figura di spicco dell’Italia nel mondo, di re senza corona e di uomo di stile. I suo vezzi, le sue stravaganze in fatto di stile diventano simbolo di eleganza e di raffinatezza: a cominciare dall’imitatissima “erre moscia” fino all’orologio sul polsino.
Intervistato dalle riviste di tutto mondo, si può permettere giudizi ironici e talvolta taglienti su chiunque, dai politici in carica ai giocatori di calcio, specie se della Juventus che segue sempre con passione, anche se, curiosamente, allo stadio ha l’abitudine di assistere a un solo tempo di gioco, il primo.
Nel 1991, Gianni Agnelli è nominato senatore a vita da Francesco Cossiga. Nel 1996, compiuti i 75 anni di età, rispetta le norme statutarie dell’azienda e cede la presidenza all’ex amministratore delegato Cesare Romiti, cui succederà poi, nel 1999, Paolo Fresco. In realtà, l’Avvocato aveva designato come suo successore e futura guida della FIAT il nipote, figlio del fratello Umberto e già presidente della Piaggio, Giovanni Alberto Agnelli, detto Giovannino, che muore, però, per un tumore al cervello nel dicembre del 1997. Al suo posto, Gianni Agnelli designa come suo successore John Elkann, primogenito di sua figlia Margherita.
Il 24 gennaio del 2003 Gianni Agnelli si spegne nella sua residenza collinare Villa Frescòt, a seguito di una lunga malattia. La camera ardente viene allestita nella pinacoteca del Lingotto, secondo il cerimoniale del Senato. I funerali, trasmessi in diretta da Rai Uno, si svolgono al Duomo di Torino, seguiti da un’enorme folla.
È sepolto nella monumentale cappella di famiglia all'interno del piccolo cimitero di Villar Perosa, nei pressi della storica dimora estiva degli Agnelli.
24/1/2018
Arnoldo Foà: una vita lunga un secolo.
La vita e la carriera artistica di Arnoldo Foà (1916-2014). Grande attore di teatro, di cinema e di televisione, regista e doppiatore, ma anche scultore, pittore e poeta, Foà ha attraversato, come pochi, il Novecento sempre da protagonista nel mondo della cultura.
Arnoldo Foà nasce a Ferrara il 24 gennaio del 1916 da una famiglia di origine ebraica.
Mamma Dirce e papà Valentino si trasferiscono presto a Firenze, dove il giovane Arnoldo completa la scuola superiore, e studia alla scuola di recitazione del Rasi, sotto la guida di Raffaello Melani. A vent’anni abbandona gli studi di Economia e Commercio a Firenze per trasferirsi a Roma, dove frequenta per qualche tempo il Centro Sperimentale di Cinematografia. Nel 1938 in seguito alla promulgazione delle leggi razziali, Arnoldo Foà, in quanto ebreo, è costretto a lasciare i corsi del Centro.
Riesce a sopravvivere in questi terribili anni trovando lavoro come “pompiere”, cioè sostituendo attori malati nelle più famose compagnie dell’epoca, “Cervi-Pagnani-Morelli-Stoppa”, “Ninchi-Barnabò”, “Adani-Cimara”, “Maltagliati-Cimara”, utilizzando dei nomi falsi, come Puccio Gamma. Verso la fine della guerra si rifugia a Napoli dove viene assunto come capo-annunciatore alla Radio Alleata PWB, ed ha il compito di comunicare a milioni di ascoltatori la mattina dell'8 settembre 1943 la firma dell'armistizio tra le forze armate alleate e l'esercito tedesco. Tornato al teatro, dopo la guerra, si unisce a numerose compagnie, tra le quali: “Ferrati-Cortese-Scelzo”, “Ferrati-Cortese-Cimara”, “Stoppa-Morelli-Cervi” sotto la guida di Visconti, la “Compagnia del Teatro Nazionale” diretta da Guido Salvini.
Contribuisce alla nascita della Radio RAI (ex EIAR) partecipando a numerose trasmissioni con gli attori più importanti di quegli anni (Benassi, Morelli, Stoppa, Cervi, Ferrari, Ninchi, Pilotto) sia a Roma con registi come Morandi, Majano, ed altri, che a Firenze con il regista Umberto Benedetto, pietra miliare della radio fiorentina.
La sua attività teatrale è intensa e importante: ha portato sulle scene spettacoli di autori sia classici che contemporanei, diretto da registi come Visconti o Strelher, con interpretazioni sempre incisive e spesso memorabili, frutto di uno studio attento e di una singolare misura drammatica, e di una grande passione. Come regista ha messo in scena spettacoli di prosa di grande successo, tra cui “La Pace” di Aristofane, “Diana e la Tuda” di Pirandello, e ha diretto anche opere liriche, come l’ “Otello” di Verdi a Cagliari e il “Friedermahus” di Strauss al Bellini di Catania.
Esordisce nel 1957 come autore teatrale con “Signori buonasera”, proseguendo poi con “La corda a tre capi” (pubblicato) e “Il testimone”, testi da lui stesso messi in scena con grande successo.
La sua recitazione asciutta e moderna, la sobrietà di gesti e intonazioni lo ha portato ad interpretare più di 100 film, e ha lavorato con famosi registi italiani e internazionali: Pietro Germi, Alessandro Blasetti, Giuliano Montaldo, Orson Welles, Joseph Losey, Edward Dmytryk, Nunnally Johnson, Tony Richardson, Christian Jacques. Tra i titoli più prestigiosi, “Altri tempi” di Blasetti, “Il processo” di Welles, “Il sorriso del grande tentatore”, “I cento cavalieri” di Cottafavi, “Il giocattolo” di Montaldo.
La dizione, il naturale temperamento e una voce ormai leggendaria ne hanno fatto un protagonista anche alla radio e uno dei più esperti doppiatori italiani.
Sono celebri inoltre le sue registrazioni di dizioni poetiche su vinile e recentemente anche su cd: Dante, Lucrezio, Carducci, Leopardi, Neruda, Garcia Lorca, (circa 1.000.000 di copie negli anni ‘50/’60), contribuendo enormemente alla divulgazione delle opere di questi due importanti autori spagnoli, all’epoca poco conosciuti in Italia.
Foà ha legato il suo nome ad alcune delle più famose ed importanti produzioni della televisione italiana: “Capitan Fracassa”, “Le cinque giornate di Milano”, “La freccia nera”, “L’isola del tesoro”, “Il giornalino di Giamburrasca”, “David Copperfield”, “I racconti del Maresciallo”, “Il cugino americano”, “Nostromo” (trasmesso con successo in tutto il mondo) e più recentemente “Fine secolo”e “Il Papa buono”.
Arnoldo Foà è stato inoltre pittore, scultore, giornalista e scrittore: ha pubblicato due romanzi, La costituzione di Prinz e Le pompe di Satana, una raccolta di poesie, La formica, e nel 1998, per i tipi della Gremese, Recitare. I miei primi sessant’anni di teatro, in cui racconta ricordi e aneddoti, e dispensa consigli con passione e divertita ironia. Nel 2009 ha firmato la sua Autobiografia di un artista burbero, Sellerio editore.
Negli anni ’60 è stato nominato consigliere comunale di Roma per il Partito Radicale, come ha ricordato l’ex sindaco della Capitale Francesco Rutelli, festeggiandolo per i suoi 85 anni in Campidoglio nel gennaio 2001.
Si è spento a Roma l’11 gennaio del 2014, alla soglia dei 98 anni. La cerimonia funebre si è tenuta in forma laica presso il Campidoglio. Riposa nel cimitero acattolico di Roma.
23/1/2018
Omaggio a Ettore Scola: l’ultimo maestro.
Il 19 gennaio del 2016 si spegneva a Roma Ettore Scola (1931-2016), annoverato tra i maestri del cinema italiano del secondo Novecento.
Nel 2017, a un anno dalla scomparsa del grande regista e sceneggiatore, sono stati molti gli omaggi resigli. Su tutti quello della famiglia Scola, che lo ha celebrato nel suo paese adottivo, Pescasseroli, nel Parco Nazionale d’Abruzzo - “il suo luogo del cuore” dove ha scritto e ambientato film che hanno fatto la storia del cinema italiano - con una giornata di eventi (il 19 gennaio) e l’intitolazione del cinema locale: la prima sala cinematografica in Italia a portare il suo nome.
Degna di nota inoltre l’esposizione dal titolo “Piacere, Ettore Scola”, che nella splendida location del museo Carlo Bilotti, nel cuore di Villa Borghese, ha voluto ricordare uno dei protagonisti indiscussi del cinema italiano. In essa hanno rivissuto non solo i suoi capolavori, ma anche i disegni, le sceneggiature, l’impegno politico e il suo amore per Roma. Il tutto raccontato in una raffinata mostra celebrativa.
Anche noi vogliamo dedicare un tributo a questo indimenticabile regista, che con le sue opere ha narrato i principali fatti del suo tempo, ripercorrendo - a pochi giorni dal secondo anniversario della scomparsa - le tappe principali della sua vita e del suo impegno professionale. Un esempio imprescindibile per le giovani generazioni di cineasti.
La Redazione
Nato a Trevico, in provincia di Avellino, il 10 maggio del 1931, Ettore Scola frequenta ancora l’università quando a Roma inizia a collaborare con il giornale umoristico “Marc’Aurelio”, in qualità di disegnatore.
Si avvicina alla scrittura alla fine degli anni Quaranta, come autore di trasmissioni radiofoniche e televisive per la Rai (suoi sono i testi delle indimenticabili prove di Alberto Sordi come Mario Pio e il conte Claro) e sceneggiatore di commedie. Portano la sua firma, tra le tante, le sceneggiature di “Un americano a Roma” (1954) di Steno; “Il sorpasso” (1962) di Dino Risi, con un indimenticabile Vittorio Gassman; “I mostri” (1963) ancora di Risi; “Io la conoscevo bene” (1965) di Antonio Pietrangeli con Nino Manfredi e Stefania Sandrelli, e i tanti film da lui diretti.
L’esordio alla regia avviene con la pellicola a episodi con Vittorio Gassman dal titolo “Se permettete parliamo di donne” (1964) a cui segue “La congiuntura” (1964); uno dei tre episodi di “Thrilling” (1965) e “L’arcidiavolo” (1966). Il primo titolo memorabile è l’avventuroso “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?” (1968) con Alberto Sordi e Nino Manfredi al quale seguirà “Il commissario Pepe” (1969) con Ugo Tognazzi.
Gli anni Settanta si aprono con un’altra pellicola passata alla storia che vede Monica Vitti, Marcello Mastroianni e Giancarlo Giannini impegnati a districarsi nel “Dramma della gelosia - Tutti i particolari in cronaca” (1970). Nel 1974 racconta invece trent’anni del nostro Paese attraverso la storia dei tre amici Gassman, Manfredi e Stefano Satta Flores, con una bellissima Stefania Sandrelli in “C’eravamo tanto amati”, vincitore del Premio César come Miglior Film Straniero. È ancora ispirato nel successivo “Brutti, sporchi e cattivi” (1976) dove si trova nuovamente a dirigere Nino Manfredi, uno dei suoi attori preferiti, costretto a barcamenarsi nella povera periferia romana e grazie al quale vincerà la Palma come Miglior Regista a Cannes. Sempre lo stesso anno dirige con Mario Monicelli, Nanni Loy, Luigi Magni “Signore e signori, buonanotte”, in cui si sofferma sui vizi e sulle virtù dell’Italia.
È il 1977 quando coglie nel segno con “Una giornata particolare”, dove Sophia Loren e Marcello Mastroianni (una delle coppie più belle della storia del cinema) mettono a nudo i propri sentimenti all’interno di un edificio popolare della Roma fascista. La pellicola gli varrà nuovi riconoscimenti come il César per il Miglior Film Straniero, il Nastro d’Argento per la Migliore Sceneggiatura e il David di Donatello per la Regia. Sempre nel 1977 è impegnato con Monicelli e Risi ne “I nuovi mostri”, mentre per il 1980 con “La terrazza” riunisce gli intellettuali borghesi Gassman, Trintignant, Mastroianni e Tognazzi, per poi dedicarsi al film storico incentrato sulla Rivoluzione Francese “Il mondo nuovo” (1982) con un Mastroianni Casanova affascinante.
Nel 1983 con “Ballando ballando” ottiene il premio per la Regia al Festival di Berlino, due César, la nomination all’Oscar e due David di Donatello. È ancora con Marcello Mastroianni, affiancato dall’americano Jack Lemmon il successivo “Maccheroni” (1985), al quale segue con Vittorio Gassman, Stefania Sandrelli e Fanny Ardant, “La famiglia” (1987) affresco che, attraverso i ricordi di un professore in pensione, ripercorre ottant’anni di storia. Dirige sempre Mastroianni, stavolta con Troisi, in “Splendor” (1988) e “Che ora è” (1989), per poi dedicarsi ai guitti di Gautier nel film “Il viaggio di capitan Fracassa” (1990), o al politico e meno riuscito “Mario, Maria e Mario” (1993).
Realizza una critica della società borghese, supportato dall’ottima prova di Alberto Sordi, in “Romanzo di un giovane povero” (1995) e convoca l’ennesima riunione di famiglia con Vittorio Gassman, Giancarlo Giannini, Stefania Sandrelli e Fanny Ardant ne “La cena” (1998).
Meno incisivo nel nuovo millennio, lavora con Claudio Bigagli, Gérard Depardieu, Diego Abatantuono, Sergio Castellitto in “Concorrenza sleale” (2001), oltre a raccontare una giornata qualunque nella capitale in “Gente di Roma” (2003) e a dedicarsi al documentario “Lettere dalla Palestina” (2004).
Dopo anni di assenza dalle scene, Scola torna sul grande schermo nel 2013 con “Che strano chiamarsi Federico”, un film dedicato alla figura del grande maestro del cinema, Fellini, presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2013.
Sposato con la sceneggiatrice e regista Gigliola Fantoni - con la quale ha avuto due figlie, Silvia e Paola - ha fatto parte del governo ombra del Pci nel 1989 con delega ai Beni Culturali e nel 2001 ha ottenuto la medaglia d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte: “Per la particolarità del suo cinema che è quella di lasciare degli spazi al pubblico, spazi di riflessione autonoma nei quali ognuno può trovare se stesso, i propri sogni, impulsi, desideri, delusioni. È considerato uno dei massimi registi italiani, per molti un maestro”.
Ettore Scola si è spento a Roma il 19 gennaio del 2016, all’età di 84 anni.
10/1/2018
“la Repubblica”: storia di un quotidiano.
Era il 14 gennaio del 1976 quando, nell'Italia degli anni di piombo, arrivava in edicola il quotidiano “la Repubblica”, che fin dal primo numero si propone di far riflettere sui fatti, più che raccontarli.
La sua natura innovatrice, nel formato e nel linguaggio, lo ha portato a scrivere una pagina importante del giornalismo italiano, di cui è ancora oggi tra le voci più autorevoli.
Ripercorriamone dunque insieme la lunga avventura editoriale.
Quando nasce, "la Repubblica" era vicina alla linea politica di Pietro Nenni ed Ernesto De Martino e del settimanale di informazione culturale "il Mondo", fondato nel '49 da Mario Pannunzio con l'obiettivo di realizzare una "terza forza liberale, democratica e laica", capace di inserirsi come alternativa ai due grandi blocchi, quello marxista e quello democristiano, nati in Italia dalle elezioni del 1948.
Per lanciare il giornale Scalfari rilasciò un’intervista in cui affermò che la nuova testata si proponeva come alternativa delle 'versioni ufficiali' dei fatti, proprio perché molte di queste, ormai, avevano perso una parte fondamentale di credibilità. La campagna pubblicitaria quindi fu impostata su una serie di aut-aut: «O credete ai bilanci aziendali o credete a 'la Repubblica'», «O credete alle versioni ufficiali o credete a 'la Repubblica'», «O credete alla televisione o credete a 'la Repubblica'».
L’idea di fondare 'la Repubblica' venne a Carlo Caracciolo e Eugenio Scalfari quando i Rizzoli decisero di rilanciare “il Mondo” come primo settimanale economico italiano. Caracciolo e Scalfari, azionisti di maggioranza de 'L'espresso' si sentirono infatti minacciati dal possibile successo de “il Mondo” e decisero così di sfidare i Rizzoli anche sul terreno dei quotidiani. Questi, nel corso degli anni, erano rimasti pressoché immutati e quindi sobri, formali e in linea con uno spirito politico moderatamente conservatore. La scelta fu quella di fare de 'la Repubblica' un quotidiano che avesse in sé lo spirito moderno proprio dei settimanali che, tra gli anni '50 e '60, erano diventati “il grande laboratorio” del linguaggio giornalistico italiano con la loro narrazione leggera e romanzata, e con la commistione di letteratura e giornalismo in senso stretto.
Piero Ottone, che nel '76 dirigeva ancora il 'Corriere della Sera', ricorda che in redazione non erano preoccupati dell'avvento di questo nuovo quotidiano, perché fare un giornale nuovo era molto difficile, così come era difficile riuscire a spostare i lettori. Ma 'la Repubblica' portava in seno una serie di cambiamenti destinati a 'fare scuola'. Ad esempio adottò, per la prima volta in Italia, il formato piccolo, simile a quello francese de 'le Monde' e ai tabloid inglesi della working class: più leggibile, maneggiabile ed 'essenziale' per il risparmio della carta.
Fu inoltre lungimirante l'aver intuito l"importanza dei titoli: essendo questi ad attirare l'attenzione dei lettori, era importante creare prima di tutto una suggestione dell’immagine complessiva del titolo e poi curarne la funzione di “informatore”. Il titolo così si trasforma sia nel formato sia nel lessico. Vengono infatti adottati i più 'carini' caratteri bodoniani, ovvero i caratteri con le 'grazie' che, a differenza di quelli bastoni utilizzati dagli altri quotidiani, necessitano di un formato più grande per catturare l'attenzione. E da questa innovazione ne deriva un'altra: poiché i titoli sono più grandi, la lunghezza massima è di venti battute e quindi, anche per questo motivo, nasce l'esigenza del gioco di parole, del titolo 'battente' e d"impatto. Scalfari, inoltre, impose di creare titoli che avessero una loro metrica, ossia che fossero recitabili, cantabili.
Un altro elemento distintivo è la vignetta, collocata inizialmente nella pagina dei commenti e ben presto poi anche in prima pagina. Il primo vignettista fu Forattini. Il suo stile si caratterizzava per la mancanza di scritte o fumetti: la vignetta infatti, di regola, doveva 'parlare da sola'.
Scalfari ricorda che: “Nel '77, quando Montanelli fu ferito da una pistolettata alla gamba, Forattini fece una vignetta in cui ero ritratto io che, con un'aria disperata, mi autoferivo a una gamba, per dire che mi rincresceva che la ferita di Montanelli facesse notizia a favore del Corriere della Sera!”.
La scelta del nome della testata, invece, nasceva dalla volontà di fare un giornale nazionale, e poiché esistevano già 'Paese Sera' e 'La Nazione', la scelta cadde su 'la Repubblica'. In quegli anni inoltre, durante la Rivoluzione dei Garofani che portò alla liberazione del Portogallo dalla dittatura di António de Oliveira Salazar, la sede del giornale portoghese 'la Repubblica' fu invasa perché considerata troppo conservatrice rispetto alla rivoluzione in corso. L'omonimo giornale italiano, di contro, sarebbe stato moderno, progressista e laico.
I primi veri successi di vendita arrivano nel '78, proprio quando Piero Ottone lascia la guida del 'Corriere della Sera' per diventare una delle grandi firme de 'la Repubblica'. Il pareggio in bilancio insieme a una tiratura di 180.000 copie arriverà nel '79; da allora i due giornali, entrambi contraddistinti per la loro libertà rispetto al potere politico, si contenderanno il primato tra i quotidiani italiani. Il successo del giornale di Scalfari, inoltre, è attribuibile anche al fatto di aver attirato molti lettori democratici di sinistra e comunisti con una posizione di assoluta fermezza nei confronti del terrorismo italiano.
Dopo i primi successi, negli anni '80, arrivano anche le prime strategie di vendita: è la volta dei supplementi. In realtà Scalfari aveva già cercato negli anni '60 di fare una rubrica economica (grazie anche alla sua esperienza maturata nell’inserto 'L'espresso - Economia & Finanza'), ma in televisione. L'esperienza però durò poco: gli autori infatti gli rimproveravano di fare affermazioni eccessivamente 'chiare' e quando, in seguito a una forte crisi economica del Paese, gli imposero di utilizzare l'espressione 'circuito distributivo' invece che 'commercianti' per indicare i responsabili dell'aumento dei prezzi decise di lasciare il programma. E così nell'86 tenta nuovamente l"impresa, ma questa volta sulla carta stampata, lanciando il primo supplemento"Affari & Finanza". Nell'87 invece uscirà “Il Venerdì”.
Nel '96 Ezio Mauro prende il timone della direzione del giornale. È proprio lui a raccontarne la giornata-tipo: si comincia con la lettura dei giornali, le telefonate ai colleghi, la consultazione degli editorialisti e dei commentatori. Poi, tra le 10:30 e le 11, si inizia la riunione plenaria del mattino, introdotta da Scalfari, in cui si esamina il giornale dalla prima all'ultima pagina, discutendolo apertamente. Alla fine della mattina i capiredattori tracciano finalmente un primo disegno di quello che sarà il giornale il giorno dopo e poi lo presentano a Mauro a fine mattinata. Quindi nel tardo pomeriggio i capiredattori e il direttore fanno una riunione di due ore in cui viene disegnata una nuova struttura e si sceglie la prima pagina. L'ultimo tassello riguarda la scelta dei titoli e l"impaginazione in base agli articoli arrivati in redazione. Il direttore lascia la redazione intorno alle 22:30.
Secondo Mauro 'la Repubblica' è diventata adulta ed è cresciuta: «Perché ha scelto d"istinto, sempre, dal primo giorno fino all'ultimo, di stare con le istituzioni. Anche quando alcuni intellettuali come Sciascia dicevano che lo Stato è un guscio vuoto, questo giornale ha sempre saputo che se anche il suo giudizio sullo Stato poteva coincidere con il giudizio di Sciascia, tuttavia quel guscio andava difeso perché se salta il guscio, oltre al guscio, che cosa resta. Ne vanno di mezzo le istituzioni del nostro Paese. Quelle istituzioni sono state difese, prima di tutto dalle forze politiche più consapevoli e poi anche dai giornali più consapevoli».
Gli inserti, nel corso degli anni, sono aumentati: nel '95 arrivano in edicola 'Musica, rock & altro!' e 'Salute', nel '96 'D-la Repubblica delle Donne'.
Sempre nel '96 viene lanciato in via sperimentale, in occasione delle elezioni politiche, il sito web 'Repubblica.it': si tratta del primo sito editoriale con redazione e contenuti propri rispetto al quotidiano di riferimento. Il sito sarà online 24 ore su 24 dal gennaio del '97 diventando il più visitato d'Italia. «La scelta di aumentare gli inserti - ha affermato Mauro - deriva dalla voglia giornalistica di andare a esplorare nuovi orizzonti e ambiti (legati alle necessità dei nostri lettori), da una parte, e a una necessità di mercato, anche pubblicitario, dall'altra». Per le stesse ragioni, negli ultimi anni, è nato il fenomeno dei libri venduti in edicola con il giornale.
Nel 2004 è stata portata a termine l'operazione 'full colour': se dal '95, infatti, il colore era una prerogativa solo della prima pagina e della pubblicità, ora questo viene utilizzato per tutte le pagine del quotidiano. E sempre nel nuovo millennio è nato 'XL', il primo mensile italiano legato a un quotidiano.
Per Mauro l'obiettivo da perseguire nel tempo è stato quello fare di 'la Repubblica' una piattaforma centrale intorno alla quale far girare tv, radio, inserti e web. Non a caso è stato dato il via a una serie di iniziative come la nascita di 'Repubblica Radio Tv'. Per Mauro, infatti, la televisione non è un nemico: «Alle volte arriva prima, altre no. E il giornale può essere una porta laterale, una prospettiva complementare che illumina il lato oscuro degli avvenimenti».
Dal 15 gennaio 2016 le redini de “la Repubblica” sono passate nelle mani di Mario Calabresi.
11/1/2018
Zygmunt Bauman
Il dilemma della globalizzazione.
A un anno dalla scomparsa, vogliamo ricordare la figura e il pensiero del filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman, teorico della “società liquida”: uno degli intellettuali più illustri del Novecento. Docente nelle università di Varsavia, Tel Aviv e Leeds, si è spento in Inghilterra il 9 gennaio del 2017. Aveva 91 anni. Nei suoi studi più recenti si era occupato delle trasformazioni politiche e sociali determinate dalla globalizzazione.
Nato a Poznan, in Polonia, il 19 novembre del 1925, di origine ebraica, Zygmunt Bauman si rifugiò in URSS in seguito all'invasione nazista; tornato a Varsavia, si è poi trasferito in Gran Bretagna, dove ha insegnato sociologia presso l'università di Leeds (1971-90).
Di formazione marxista, dopo essersi occupato di questioni relative alla stratificazione sociale e al movimento dei lavoratori, ha studiato il rapporto tra modernità e totalitarismo, con particolare riferimento alla Shoah.
Zygmunt Bauman è stato uno dei massimi interpreti del nostro tempo. Autore tra i più letti e citati - anche in Italia - ha colto con singolare lucidità la transizione epocale in corso, elaborando persuasive categorie di pensiero per comprenderne il senso. Le sue analisi sulla frammentazione delle identità, sull’incertezza esistenziale, sulla precarietà e la solitudine delle nostre vite hanno oltrepassato i confini disciplinari della sociologia, diventando parte del patrimonio culturale diffuso.
Ricordiamo alcuni titoli dei suo libri: "Vita liquida", "Consumo dunque sono", "L'arte della vita", "Il demone della paura", "Modernità liquida", "Amore liquido", "Capitalismo parassitario", "L'etica in un mondo di consumatori", "Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone", "Danni collaterali. Diseguaglianze sociali nell'età globale", "Paura liquida", "La società sotto assedio", "Sesto potere", "Stranieri alle porte".
Che cos’è dell’essere umano nel nostro contesto storico e quale sarà il suo destino? Domande urgenti dopo lo sfaldamento di quel mondo solido, forte, istituito, ordinato, che abbiamo conosciuto sotto il nome di modernità, e al quale, negli ultimi decenni, soprattutto in forza della globalizzazione, è subentrato un universo ‘liquido’, destrutturato, precario, privo di riferimenti stabili. La mutazione di scenario ha inciso profondamente sulle esistenze individuali: angoscia, fragilità, perdita di senso sono le cifre dei vissuti più comuni, non solo in Occidente.
Il quadro tracciato da Bauman sulla nuova condizione umana appare tanto più inquietante se si considerano anche i risvolti materiali di questo processo: disuguaglianze e povertà crescenti, diritti umani calpestati, prepotente ritorno di violenza e guerre. È l’umanità di immense moltitudini a essere minacciata. Questa critica, risoluta perché lucida e moralmente ispirata, non indulge tuttavia alla nostalgia del passato né alla rassegnazione: ogni epoca ha le sue luci e le sue ombre. Si tratta di capire la storia in cui siamo immersi, per limitarne gli enormi rischi e svilupparne le potenzialità, in nome di una responsabilità verso l’umano a cui non ci si può sottrarre, e nella quale ultimamente si attua il profilo etico dell’intellettuale.
L’illustre pensatore si è spento a Leeds il 9 gennaio del 2017, all’età di 91 anni.
7/1/2018
70 anni fa, il "Natale della Costituzione".
Roma, Montecitorio: lunedì 22 dicembre 1947. L'aula della Camera dei Deputati è gremita in ogni scranno per il grande appuntamento con la Storia: all'ordine del giorno c'è la votazione della Costituzione della Repubblica italiana, cui hanno lavorato per oltre un anno tutte le forze politiche. Approvata quasi all'unanimità, entrerà in vigore il 1° gennaio del 1948.
A distanza di settant'anni da quei giorni cruciali, ripercorriamo dunque le tappe principali di quel complesso iter legislativo che ha dotato la nostra Repubblica di una “Carta costituzionale”.
Costituzione, Assemblea Costituente: parole “nuove” per la gente comune, di cui bisognava diffondere il significato, affinché l’operazione elettorale del 2 giugno risultasse una votazione consapevole; parole implicanti un’azione complessa, che occorreva opportunamente preparare.
Era infatti la prima volta che lo Stato italiano avrebbe avuto una “sua” Costituzione, deliberata da un’Assemblea Costituente, in luogo dello Statuto del Regno, una carta costituzionale “concessa” nel 1848 da re Carlo Alberto per il Regno sardo piemontese e divenuta Statuto del Regno d’Italia per estensione plebiscitaria.
Il sistema proporzionalistico, adottato per la sua elezione, aveva conferito all’Assemblea Costituente una rappresentanza politica variegata, dominata dai tre partiti protagonisti della vita politica italiana: la Democrazia Cristiana in testa con 207 “costituenti”, il Partito Socialista con 115, il Partito Comunista con 104.
Vi erano parecchi altri minori raggruppamenti. Così l’Unione Democratica Nazionale, che nei suoi 41 rappresentanti raccoglieva liberali, democratici del lavoro e indipendenti; il “Fronte dell’Uomo Qualunque” con 30 rappresentanti capeggiati dal suo fondatore Guglielmo Giannini, un noto commediografo giornalista, che aveva suscitato un movimento politico intorno al suo giornale intitolato “L’Uomo Qualunque”; i 23 rappresentanti del Partito Repubblicano Italiano, ancorato al programma del Partito Repubblicano Storico e 36 rappresentanti di gruppi politici minori, tra i quali il Blocco Nazionale della Libertà, il Partito d’Azione, il Partito dei Contadini ed altri.
Questa così composita Assemblea Costituente doveva provvedere, nel giro di appena 8 mesi, alla elaborazione e alla approvazione della nuova Costituzione italiana, e avrebbe dovuto, insieme, svolgere altri compiti politici e legislativi. Riunitasi il 25 giugno 1946 per la prima volta a Montecitorio, prescelto come sua sede, sotto la presidenza del decano Vittorio Emanuele Orlando, l’Assemblea elesse prima di tutto il suo Presidente nella persona di Giuseppe Saragat.
Quindi provvide alla elezione del Capo Provvisorio dello Stato nella persona di Enrico De Nicola, avendo il “referendum” sulla questione istituzionale attribuito una netta vittoria alla forma di Stato repubblicana. E passò ad occuparsi del suo compito primario.
Poiché nessun progetto di Costituzione era stato predisposto dal Governo, né dal ministero per la Costituente, né era previsto che lo fosse, bisognava cominciare con l’elaborarlo. Si stabilì pertanto di conferire questo incarico ad una Commissione, composta da 75 “costituenti” e da questo numero denominata poi la Commissione dei 75, presieduta da Meuccio Ruini, già Presidente del Consiglio di Stato, uomo politico di vasta cultura, la cui appartenenza al Partito Democratico del Lavoro garantiva vedute equilibrate e moderate.
I 75 “costituenti” designati dal Presidente dell’Assemblea furono, in pratica, i “facitori” della Costituzione - in quanto il progetto da loro predisposto subì poche varianti sostanziali e formali da parte dell’Assemblea - e furono scelti in proporzione alla forza numerica dei gruppi politici che componevano l’Assemblea.
Nella Commissione erano presenti eminenti personalità degli stessi partiti, come Palmiro Togliatti e Attilio Piccioni, giovani e meno giovani “costituenti”, tra i quali alcuni sarebbero saliti ad altissimi ranghi della vita politica italiana, come Luigi Einaudi, Giovanni Leone, Amintore Fanfani, Aldo Moro, Emilio Taviani, Umberto Terracini.
Vi erano inoltre “tecnici” di grande prestigio, come i professori di diritto pubblico Piero Calamandrei e Costantino Mortati.
Tuttavia la Commissione dei 75 era troppo numerosa per deliberare collegialmente, soprattutto con la richiesta rapidità, perché l’Assemblea Costituente, investendola dell’incarico, le aveva prefissato un termine di tre mesi.
La Commissione fu quindi suddivisa in tre sottocommissioni, a ciascuna delle quali fu assegnato di predisporre una diversa parte del progetto, rimettendosi ad un Comitato ristretto chiamato di “redazione” la coordinazione delle parti, e alla Commissione nel suo “plenum” le decisioni sui punti rimasti controversi e l’approvazione finale.
Distribuito il lavoro, le sottocommissioni si misero immediatamente all’opera e si organizzarono, a loro volta, con presidenze, relatori e segretari, tenendo sedute con ritmo serrato. Ma il periodo di tre mesi per la redazione del progetto di Costituzione si rivelò inadeguato, soprattutto per approntare l’ordinamento della Repubblica, per cui il progetto venne presentato alla Presidenza dell’Assemblea Costituente solo alla fine del gennaio 1947, accompagnato da una chiara relazione dell’on. Ruini. Questo ritardo sui tempi era stato previsto e l’Assemblea Costituente deliberò la propria proroga fino al 24 giugno 1947; ma anche questa protrazione non bastò e fu necessaria una seconda proroga fino al 31 dicembre 1947. Queste proroghe furono causate anche dall’esercizio dell’attività politico-legislativa, che in certi momenti assorbì interamente l’Assemblea. Si verificarono peraltro eventi politici che indussero lo stesso on. Saragat a dimettersi dalla carica di Presidente dell’Assemblea Costituente; al suo posto venne eletto Umberto Terracini, al quale toccò l’onere e l’onore di dirigere la discussione e l’approvazione da parte dell’Assemblea Costituente della nuova Costituzione.
Il 22 dicembre 1947 il testo definitivo, con i suoi 139 articoli e le disposizioni finali e transitorie, venne sottoposto al voto segreto ed approvato con 453 voti favorevoli e 62 contrari.
Infine l’Assemblea approvò l’emblema dello Stato: “La stella a cinque raggi di bianco bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota d’acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale: Repubblica Italiana”.
Il 1° gennaio 1948 la Costituzione italiana entrò ufficialmente in vigore.
Del testo si conservano tre originali, uno dei quali presso l'archivio storico della Presidenza della Repubblica.
22/12/2017
1968-2018: il “Sessantotto” compie 50 anni. Uno scatto per ricordarlo.
Cari lettori, vogliamo aprire il nuovo anno facendo un lungo salto indietro nel tempo. Un salto di 50 anni esatti per ricordare, attraverso un fermo immagine-icona di quel periodo, un anno cruciale: il 1968. Un anno che fatto Storia.
I primi sono stati gli studenti americani di Berkeley. Poi la protesta si sposta in Europa: e fu Sessantotto, appunto. A Parigi migliaia di giovani scendono in piazza sostenuti da intellettuali come Jean-Paul Sartre. L’Italia segue a ruota: i giovani si ribellano contro consumismo e conformismo, e da quel momento - nel bene e nel male - il mondo non è stato mai più uguale a prima.
La Redazione
3/1/2018
Un ricordo di Paolo Villaggio.
Abbiamo scelto di salutare il 2017 con il ricordo di uno dei personaggi più amati dal pubblico, che purtroppo ci ha lasciati l’estate scorsa. Il grande Paolo Villaggio (1932-2017): il ragioniere più buffo e scanzonato del cinema italiano, omaggiato questa sera alle 20.45 su Italia 1 con la messa in onda del mitico film Fantozzi (1975).
La sua vita - e la sua scomparsa - risultano, non a caso, tra gli argomenti maggiormente clikkati e discussi sul web nel corso degli ultimi mesi.
Buon 2018 a tutti!
La Redazione
Paolo Villaggio dunque. Il ritratto di uno dei primi attori brillanti in Italia che con la sua dissacrante e grottesca ironia è riuscito, attraverso la satira, a far riflettere sui tanti problemi della nostra società.
Nato a Genova il 30 dicembre del 1932, Paolo Villaggio trascorre un'infanzia abbastanza povera e rovinata dalla Seconda guerra mondiale. Dirà poi: "In quel periodo facevo una dieta, dettata non dalla voglia di apparire ma dalla povertà".
Da giovane attraversa diverse esperienze lavorative, dal cameriere allo speaker della BBC, dal cabaret all'intrattenitore sulle navi da crociera, dal teatro al lavoro impiegatizio presso la Cosider; ed è proprio a questa esperienza lavorativa che Paolo Villaggio si ispira per la creazione del personaggio del ragioner Ugo Fantozzi, chiaramente autobiografico, che in seguito lo renderà popolarissimo.
A scoprire la sua vena artistica è Maurizio Costanzo, che nel 1967 gli consiglia di esibirsi in un cabaret di Roma. Da qui passerà a condurre il programma televisivo "Bontà loro", in cui i suoi personaggi aggressivi, vili e sottomessi troveranno la loro definitiva consacrazione.
Dal set televisivo passerà poi alla macchina da scrivere facendo pubblicare da L'Espresso e dall'Europeo i suoi brevi racconti incentrati sulla figura del ragionier Ugo Fantozzi, uomo dal carattere debole, perseguitato dalla sfortuna e dal "megadirettore" della "megaditta", dove Fantozzi lavora.
Nel 1971 la casa editrice Rizzoli pubblicherà il libro "Fantozzi", basato proprio su questi racconti, dando a Paolo Villaggio notorietà internazionale. Il successo dei suoi best-seller (tutti editi dalla Rizzoli), gli darà l'opportunità di darsi al cinema con successo e profitto. Per la verità, Villaggio aveva già lavorato in alcuni film (si ricordi, per tutti, Brancaleone alle crociate di Mario Monicelli, del 1970), ma solo con il celebre film Fantozzi di Luciano Salce, nel 1975, incomincerà ad essere apprezzato anche in questo campo. Ne seguiranno tanti altri, ben 9 sul personaggio del mitico ragioniere (uno di Salce oltre al primo già citato, sette di Neri Parenti ed uno, l'ultimo, di Domenico Saverni), oltre a quelli fatti interpretando personaggi minori, quali Giandomenico Fracchia e il professor Krantz.
Grazie al grande successo dei film, sono entrate nel bagaglio lessicale dell'italiano medio espressioni quali "Mi si sono incrociati i diti", "Come è umano lei", oltre agli aggettivi "fantozziano" e all'espressione "Alla Fantozzi", sorte per indicare esperienze, atteggiamenti o situazioni nati male e finiti peggio. Una famosa battuta sul film La corazzata Potëmkin, giudicata dal ragioniere "una cagata pazzesca", ha fatto si che di fatto questa pellicola non venisse più riprodotta nei cineforum aziendali (proprio come quelli che il grande ragioniere era costretto a seguire) ed in quelli parrocchiali. Fantozzi vuole rappresentare dunque l'italiano medio degli anni Settanta, medioborghese dal lifestyle semplice (niente laurea, lavoro da impiegato, casa in equocanone) che mette davanti alla telecamera le ansie e le "perversioni" di un'intera classe di lavoratori. In tutti gli uffici, per esempio, è esistita una seduttrice un pò doppiogiochista come la "signorina Silvani", un capo esigente o un collega arrivista, in molti andati in giro su una vecchia utilitaria come la bianchina di Fantozzi, ma soprattutto in molti hanno pensato di essere dei perseguitati dalla sfortuna.
Villaggio inoltre ha recitato in moltissime commedie cinematografiche. A volte, uscendo dalla routine delle sue creazioni, ha lavorato con maestri del cinema quali Federico Fellini (nel 1990 con La voce della Luna, insieme a Roberto Benigni), Lina Wertmuller (nel 1992 con Io speriamo che me la cavo), Ermanno Olmi (nel 1993 con Il segreto del bosco vecchio), Mario Monicelli (nel 1994 con Cari fottutissimi amici) e Gabriele Salvatores (nel 2000 con Denti).
Tra i numerosi premi cinematografici ricevuti, vale la pena ricordare il David di Donatello conquistato nel 1990, il Nastro d'Argento nel 1992 e il Leone d'Oro alla carriera nel 1996. In tutti questi anni non è tuttavia cessata la sua attività di scrittore: ha continuato a far pubblicare libri di buon successo con regolarità, cambiando però editore dal 1994 (è infatti passato dalla Rizzoli alla Mondadori). Per quest'ultima segnaliamo: "Fantozzi saluta e se ne va" (1994-1995), "Vita morte e miracoli di un pezzo di merda" (2002), "7 grammi in 70 anni" (2003) fino al suo ultimo disperato sfogo: "Sono incazzato come una belva" del 2004.
Tutti lo ricordiamo come attore di cinema e scrittore, ma è stato anche un buon attore di teatro: ha infatti interpretato in teatro il ruolo di Arpagone nell'"Avaro" di Molière nel 1996. Nello stesso anno, ha anche condotto il tg satirico Striscia la notizia insieme ad Ezio Greggio. Più recentemente ha partecipato alla fiction televisiva Carabinieri, in cui ha interpretato il ruolo di un barbone che spesso collabora nella risoluzione dei casi con le forze dell'ordine.
Paolo Villaggio si è spento a Roma il 3 luglio del 2017, all’età di 84 anni.
31/12/2017
Lina Cavalieri
Correva l'anno 1874 quando, nel giorno di Natale, nasceva Lina Cavalieri (1874-1944): la “donna più bella del mondo”.
A pochi giorni dal Natale 2017 ripercorriamone insieme la vita e la straordinaria carriera artistica.
A lei il III Municipio di Roma ha intitolato un Viale, nel quartiere Serpentara.
Canzonettista e soprano lirico, mito della belle époque europea, Lina Cavalieri nasce a Viterbo il 25 dicembre del 1874, motivo per il quale fu battezzata Natalina, poi abbreviato in Lina.
Poco dopo la nascita della piccola Lina, la famiglia Cavalieri è costretta a lasciare Viterbo alla volta di Roma in tutta fretta: il padre assistente architetto è licenziato a causa delle molestie rivolte alla moglie del suo principale. A Roma la famiglia non se la passa bene e la giovanissima Lina è costretta a dare un aiuto impiegandosi nei più diversi mestieri: fioraia, piegatrice di giornali presso una tipografia ed infine apprendista sarta. L'abitudine della ragazza a cantare durante il lavoro con una notevole voce spinge la madre a ricorrere ad Arrigo Molfetta, maestro di musica non certo passato alla storia, che si offre gratuitamente di insegnare qualche canzonetta alla oramai adolescente Lina.
Dal timoroso debutto - appena quattordicenne - in un sordido teatrino romano di Piazza Navona, dove si esibiva per una lira al giorno, la popolarità di canzonettista della Cavalieri sarà in continua ascesa grazie alla maestria vocale, ma anche grazie alla sua notevole bellezza e ad un temperamento focoso. Passò ad esibirsi al teatro Orfeo, per dieci lire al giorno, e poi al teatro Diocleziano per quindici lire. Era arrivato il momento di approdare nel regno italiano dei cafèchantant: Napoli.
E fu a Napoli, al Salone Margherita, sicuramente il traguardo più prestigioso per una canzonettista del tempo, che la Cavalieri raggiunse il primo successo di ampio respiro, ottenendo così il trampolino di lancio per l'Europa.
Da Napoli a Parigi, dove trionfò alle Folies bérgères cantando un programma di canzoni napoletane accompagnata da un'orchestra completamente femminile: tutte chitarre e mandolini.
Il 1900 è l'anno della svolta. Spinta da molteplici pareri favorevoli, Lina decide di passare al canto lirico. Bruciando le tappe e studiando con Maddalena Mariani Masi, si cimenta in Bohème di Giacomo Puccini, nel ruolo di Mimì al teatro San Carlo di Napoli, il 4 marzo dello stesso anno.
Il passo era fatto e Lina Cavalieri era diventata soprano lirico. Da Napoli le si apre una carriera che la porterà nei più importanti teatri lirici d'Europa e d'America, al fianco di nomi celebri della lirica, quali Enrico Caruso e Francesco Tamagno.
Importantissimi sono gli ingaggi che la Cavalieri ottiene oltreoceano, per la Metropolitan Opera Company e per la Manhattan Opera Company, dove è nel 1906 protagonista accanto a Enrico Caruso della Fedora di U. Giordano e nel 1907 della Adriana Lecouvreur di F. Cilea.
Lina Cavalieri non era dotata di una voce che oggi diremmo eccezionale, o almeno non era in grado di strappare gli applausi entusiastici delle principali platee mondiali. Il suo successo doveva molto al fatto che la nostra diva incarnava l'esatto prototipo di bellezza femminile della sua epoca, una bellezza trasognata e in grado di sottolineare il carattere delle sue eroine; inoltre la sua presenza scenica e la sua recitazione erano notevoli, e questo, in campo operistico, nell'epoca del verismo rappresentava una carta decisiva.
Una sera, d'impulso, durante le repliche della Fedora, Lina Cavalieri baciò realmente Enrico Caruso sulle labbra, in scena, ottenendo così il definitivo successo del suo personaggio.
Il 1914 è l'anno dell'addio alle scene: ma Lina non era certo una personalità da rinunciare a far parlare di sé. Negli anni successivi tenta una carriera cinematografica, ma questa è forse l'unica attività per la quale deve riconoscere di non essere tagliata.
Nel 1921 si trasferisce a Parigi, dove, sfruttando la fama che la circonda, apre un istituto di bellezza. Un'abile decisione: il salone è frequentato da molte signore incuriosite dal mito di una donna che aveva scatenato passioni di ogni tipo, era stata corteggiata da principi e milionari e la cui vita sentimentale aveva dato la stura a molte voci. È difficile distinguere tra verità e leggende abilmente costruite, come, ad esempio, il numero di proposte di matrimonio ricevute, ben ottocentoquaranta secondo alcuni.
Comunque i matrimoni effettivi raggiunsero il numero ragguardevole di cinque, compensato però dalla loro breve durata. Il primo celebrato a Pietroburgo nel 1899 con il Granduca Eugenio di Luchtenberg, dal quale divorziò in fretta, dopo la richiesta di lasciare la vita teatrale. Anche il secondo matrimonio, consumato a Lisbona nel 1900 nientemeno che con il re del Kazan, finisce in un divorzio in seguito all'identico rifiuto di Lina di rinunciare al canto e al teatro. Il terzo marito fu un ricchissimo americano conosciuto nel 1907 durante le rappresentazioni di Fedora al Metropolitan, Bob E. Chanel, ma anche lui venne liquidato in una settimana per aver impudentemente pensato di trasformare la cantante in una moglie. Un'immensa quantità di beni, comprendente addirittura tre palazzi, trasmigrò prima del divorzio dal patrimonio dell'americano nelle mani della Cavalieri. Solo il compagno d'arte Pietro Muratore, sposato nel 1914, riuscì là dove altri avevano fallito, farle cioè abbandonare il teatro. Il 26 luglio del 1927 divorziò però anche da quest'ultimo per sposare Giuseppe Camperai, che le fu accanto al momento del ritorno in Italia e nella vecchiaia, quando la vita di Lina Cavalieri divenne simile a quella di tante altre oculate amministratrici.
La storia dei fans e degli appassionati della Cavalieri meriterebbe un capitolo a parte. Tra i tanti gustosi aneddoti sulle follie maschili che accompagnarono il successo della Cavalieri come non ricordare quello che vede, all'inizio del Novecento, la diffusione del famoso aperitivo Campari nel mondo e le toumées della Cavalieri intrecciarsi strettamente? Il giovane Davide Campari, figlio di Gaspare, cui si deve la creazione dell'aperitivo, era infatti uno degli innamorati più ardenti. Per giustificare le sue fughe al seguito della Cavalieri, il giovane Davide usa con la famiglia un abile stratagemma: quello della ricerca di contatti esteri per smerciare il prodotto. Nei suoi viaggi Davide Campari instaurò davvero proficui rapporti con il mercato estero, ma, a quanto pare, non ottenne mai il favore della sua stella cantatrice.
Un'altra presenza indiretta ma importante nella folta schiera degli appassionati è il famoso designer Piero Fornasetti. Il viso serigrafato che ricorre nelle realizzazioni di Fornasetti, e che costituisce la cifra distintiva delle sue opere, altro non è che un ritratto di Lina Cavalieri preso da una rivista del tardo Ottocento.
Mentre l'immagine della Cavalieri è reperibile in moltissime fotografie d'epoca, la sua voce è preziosamente conservata nelle poche incisioni superstiti, effettuate in America per la Columbia. Nonostante la riproduzione risulti non fedelissima per i limiti tecnici e per i danni inevitabili del tempo, si intuisce chiaramente un timbro morbido di soprano drammatico, con un’ampia possibilità nel registro di petto, che la farebbero sembrare a volte addirittura un mezzosoprano. Comunque su tutto emerge eleganza d'emissione e fraseggio.
Negli ultimi anni Lina Cavalieri si ritirò in una villa nei pressi di Rieti, dove aveva raccolto i numerosi cimeli della sua vita professionale, in compagnia del suo unico figlio. In quel periodo dettò al giornalista Paolo D'Ariani le sue memorie. Il carattere singolare e avventuroso delle sue vicende suggerirono alla casa produttrice Paramount un film sulla sua vita. L'avvento della Seconda guerra mondiale fece cadere il progetto e costò la vita alla Cavalieri che, trasferitasi nel frattempo a Firenze, morì nella sua bella villa di Fiesole a causa di un bombardamento aereo, il 6 marzo del 1944.
20/12/2017
Mao Tse-Tung
La vita del rivoluzionario e politico cinese Mao Tse-Tung (1893-1976): il ritratto di uno dei principali protagonisti della storia del Novecento.
Rivoluzionario, pensatore e uomo politico, Mao Tse_Tung nacque a Shaoshan, in Cina, il 26 dicembre del 1893, figlio di contadini relativamente benestanti. Fu allevato secondo i metodi tradizionali della piccola borghesia rurale cinese, alternando lo studio al lavoro della terra del padre e sposandosi non ancora adolescente.
Per sfuggire all'opprimente ambiente familiare, poco più che quattordicenne si arruolò volontario nell'esercito repubblicano di Sun Yat-sen, che lasciò dopo un anno per dedicarsi agli studi di istitutore.
Dopo essersi diplomato alla scuola normale di Changsha - nel 1918 - trascorse un breve soggiorno a Pechino per seguire alcuni corsi universitari. Qui ebbe i suoi primi contatti con il nascente movimento marxista cinese, e in particolare con l'economista Li Ta-chao e il futuro segretario del partito comunista Ch'en Tu-hsiu.
Ritornato nel 1919 a Changsha, partecipò attivamente all'organizzazione del movimento rivoluzionario dello Hunan e nel 1920 fondò i primi circoli marxisti locali, dai quali fu poi delegato al congresso costitutivo del partito comunista cinese (Conferenza di Sciangai, 1921).
Dopo le repressioni anticomuniste condotte da Chiang Kai-shek (1927) - che eliminò numerosi quadri del partito comunista imputato di eccessi contro i civili nelle città che venivano occupate dall'esercito nazionalista - Mao intraprese l'organizzazione della lotta partigiana nella zona montagnosa di Ching-kang shan, al confine tra lo Hunan e il Jianxi. Qui, dopo aver gettato le basi dell'esercito rosso e aver introdotto misure di riforma agraria, fondò una Repubblica sovietica di cui divenne presidente (1931), sottraendosi al controllo del comitato del PCC e del Comintern.
Nel biennio 1934-1935 comandò la “lunga marcia” durante la quale riuscì a imporre la propria linea di condotta al partito, che lo elesse presidente dell'ufficio politico (gennaio 1935). Alla vigilia dell'aggressione giapponese, in seguito a un incontro con Chiang Kai-shek, che era prigioniero a Xi'an, Mao riuscì a indurre il capo effettivo del Kuo-min tang a una tregua, come prezzo della sua liberazione, per opporre un fronte comune contro i Giapponesi.
Falliti i tentativi di mediazione, la guerra civile riprese con violenza (1946), e mentre Chiang Kai-shek, con i resti del suo esercito, si ritirava a Formosa (Taiwan), Mao proclamò il 1º ottobre 1949 a Pechino la Repubblica Popolare Cinese, della quale venne eletto primo presidente.
Da quel momento Mao, riservatasi la presidenza del partito, promosse una campagna di denuncia dei gruppi di “opportunisti di destra”, dentro e fuori del partito, che “sabotavano” la costruzione del socialismo in Cina. Avvenuta la rottura con Mosca, che ritirò gli esperti sovietici dalla Cina (luglio 1960), Mao nel settembre del 1962 propose di intensificare la lotta contro il revisionismo di Krusciov a livello mondiale e la lotta contro “i dirigenti degenerati” in Cina, attraverso un “movimento d'educazione socialista” che durò fino al 1966.
Nel corso di quell'anno Mao approvò la pubblicazione del primo giornale murale (dazibao), redatto all'università, che attaccava violentemente il sindaco di Pechino Peng Cheng e, indirettamente, lo stesso presidente della repubblica Liu Shao-chi.
Gli eventi successivi, come la misteriosa scomparsa di Lin Piao, in seguito accusato di tradimento, e il nuovo indirizzo della politica estera cinese, ridimensionarono il successo di Mao, che cedette sempre più la direzione politica del paese al “numero due”, il primo ministro Chou En lai, leader dei moderati. Il culto della sua personalità proseguì anche dopo la sua morte, avvenuta a Pechino il 9 settembre del 1976, e venne inizialmente sostenuto dal nuovo gruppo dirigente, proprio contro i veri continuatori della politica del presidente, i radicali che furono successivamente arrestati e bollati come gruppo antimaoista, dopo essere stati definiti la “banda dei quattro”.
Nel 1977 venne costruito al centro della piazza Tien an' men, a Pechino, un grande mausoleo per la sua salma imbalsamata.
18/12/2017
Pupella Maggio
Un ritratto di Pupella Maggio (1910-1999), il cui nome di origine è Giustina Maggio: attrice, ballerina, cantante ma anche operaia.
Il suo destino di attrice fu stabilito fin da piccola quando al Teatro Orfeo fu portata in palcoscenico per rappresentare “Una Pupa movibile” di Eduardo Scarpetta, e per questo fu chiamata Pupella.
Raggiunse l’apice del successo con Eduardo De Filippo che le aprì una splendente carriera artistica. Capace di cantare, ballare e recitare si affiancò ad attori del calibro di Ugo D’Alessio, Totò e Nino Taranto.
Il III Municipio della Capitale le ha dedicato una via nel quartiere Porta di Roma.
Pupella Maggio nacque a Napoli il 24 aprile del 1910 in una famiglia di artisti molto numerosa. Il padre era un attore teatrale e la madre un’attrice e cantante.
La sua carriera artistica cominciò proprio nella compagnia teatrale itinerante del padre insieme ai suoi sei fratelli attori: Icario, Rosalia, Dante, Beniamino, Enzo e Margherita. Pupella, abbandonò la scuola dopo aver frequentato la seconda elementare; recitava, ballava e cantava in coppia con il fratello più piccolo, Beniamimo.
Stanca della vita errante dell’attrice, negli anni ’40, in seguito alla morte dei suoi genitori, trovò un impiego come modista a Roma, ma fu costretta ad andar via poiché nascose nella sua casa alcuni ebrei. Lavorò successivamente come operaia in un’acciaieria di Terni, dove si occupò anche dell’organizzazione degli spettacoli del Dopolavoro.
Ma la passione per il teatro fu più forte di ogni cosa e dopo un periodo in cui lavorò nella rivista della sorella Rosalia insieme a Totò, Nino Taranto e Ugo D’Alessio, incontrò Eduardo De Filippo. Nel 1954 Pupella Maggio cominciò a recitare nella compagnia Scarpettiana con cui Eduardo mette in scena i testi del padre Eduardo Scarpetta.
La consacrazione di Pupella come attrice avviene dopo la morte di Titina De Filippo, quando Eduardo le diede la possibilità di interpretare Filumena Maturano. Per Eduardo interpretò “donna Rosa Priore” in “Sabato, domenica e lunedì”, ruolo che le valse tre premi: Maschera D’Oro, San Genesio e Nettuno. Interpretò poi la famosissima Concetta di “Natale in casa Cupiello”. Recitò ne “L’Arialda” di Giovanni Testori per la regia di Luchino Visconti. Da questo momento in poi l’attrice intervallò il teatro con il cinema. Recitò, infatti, ne “La Ciociara” di Vittorio De Sica, “Le quattro giornate di Napoli” di Nanni Loy, “Sperduti nel buio” di Camillo Mastrocinque, “La Bibbia” di John Huston nel ruolo della moglie di Noè, “Il medico della mutua” di Luigi Zampa al fianco di Alberto Sordi, “Armarcord” di Federico Fellini nel ruolo della madre del protagonista, “Nuovo cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore, “Sabato Domenica e Lunedì” di Lina Wertmuller, “Fate come noi” di Francesco Apolloni.
A teatro recitò, diretta da Giuseppe Patroni Griffi, in “Napoli notte e giorni” e in “In memoria di una signora amica”, al fianco del regista napoletano Francesco Rosi. Dal 1979 iniziò anche il suo sodalizio teatrale con Tonino Calenda per il quale recitò ne “La madre” di Bertolt Brecht tratto dal romanzo di Massimo Gor’kij, “Aspettando Godot” di Samuel Beckett nel ruolo di Lucky e a fianco di Mario Scaccia e in “Questa sera…Amleto”.
Nel 1997, all’età di ottantacinque anni, ha pubblicato il suo libro di memorie “Poca luce in tanto spazio”, edito da Grassetti, che contiene, oltre a tanti ricordi personali, anche le sue poesie.
La grande interprete si è spenta a Roma, l’8 dicembre del 1999.
6/12/2017
Giuseppe Dossetti
Tra fede e politica: la vita di Giuseppe Dossetti (1913-1996). Il ritratto di un riformatore cristiano.
Giuseppe Dossetti nasce a Genova il 13 febbraio del 1913. È ancora in fasce quando i suoi genitori si trasferiscono nel comune di Cavriago, in provincia di Reggio Emilia, dove il padre svolge la professione di farmacista. Qui il piccolo Giuseppe compie gli studi inferiori. Frequenta quindi il liceo classico di Reggio Emilia, e dopo aver conseguito la maturità si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Bologna.
Il giovane Dossetti brucia le tappe e si laurea brillantemente discutendo una tesi in Diritto Canonico: ha poco più di vent’anni. Ottiene una borsa di studio per la specializzazione presso l’Università Cattolica di Milano, ed è qui che viene a contatto con il gruppo che in seguito rappresenterà la “seconda generazione” del partito della Democrazia Cristiana. Fanfani, La Pira, Lazzati, Moro, Mortati, Taviani, Tosato ed altri: tutti allievi di Padre Agostino Gemelli, un uomo dalla volontà di ferro. Si tratta dei cosiddetti “professorini” che non vivono l’esperienza del “popolarismo” di Luigi Sturzo, ma che si formano sul finire degli anni Trenta negli organismi di Azione cattolica, a contatto con le tematiche personalistiche e comunitarie espresse dal pensiero cattolico francese, ed in particolare da Maritain e da Mounier. Gli stessi che si riuniranno intorno alla rivista “Cronache sociali” fondata da Dossetti nel ’47.
La Seconda guerra mondiale, la crisi del fascismo e la partecipazione cattolica alla Resistenza tra il 1943 e il 1945 segnano intanto la ripresa del movimento politico dei cattolici in Italia dopo gli anni della dittatura. Anche Giuseppe Dossetti partecipa alla guerra di liberazione nazionale nelle formazioni partigiane della sua terra, diventando presidente del CLN provinciale di Reggio Emilia. Dopo la Liberazione, quando è già avviato con successo alla carriera universitaria, Dossetti è attratto dalla vocazione politica, che consuma in pochi ma intensi anni. Prima come vice segretario di Alcide De Gasperi e poi in qualità di deputato all’Assemblea Costituente per l’elaborazione della Carta Costituzionale. In seguito, per obbedienza al cardinale Giacomo Lercaro, accetta di candidarsi a Bologna in concorrenza con il sindaco Dozza: un’impresa che si rivela impossibile. Ma per lui la via maestra è un’altra: quella del sacerdozio. Lercaro però lo vuole con sé come esperto del Concilio; inoltre immediatamente dopo il cardinale chiede invano che Dossetti diventi suo vescovo ausiliare.
Ma Dossetti decide di dedicarsi alla Terra Santa, con una visione ecumenica molto originale. Dà infatti vita alla piccola comunità monastica di Monteveglio, nell’appennino Bolognese, che diventa un centro di documentazione, di spiritualità e di impulsi politici di tendenza a favore della formazione di una profonda cultura di pace, che Giuseppe Dossetti alimenterà fino alla fine dei suoi giorni.
Nel 1959 viene ordinato sacerdote: nel suo saio grigiastro appare quasi spettrale, ed i suoi occhi inquieti non smetteranno mai di indagare.
Si spegne nella sua comunità il 15 dicembre del 1996.
3/12/2017
L’assassinio di John Lennon
New York, lunedì 8 dicembre 1980 ore 23.07: una voce dall'ombra esclama, «Mr Lennon!», e subito dopo sei colpi di pistola, cinque a segno nella schiena di John Lennon, che cade a terra esanime sotto gli occhi della moglie Yoko Ono, all'ingresso del Dakota Building. L'attentatore, Mark David Chapman, viene disarmato e bloccato dal portiere del lussuoso palazzo newyorchese (in cui Lennon risiede), mentre una pattuglia della polizia accorsa sul posto preleva il corpo del ferito e lo trasporta al vicino ospedale St. Luke's-Roosevelt. Qui arriva dopo aver già perso conoscenza e, pochi minuti più tardi, i medici constatano che non c'è più nulla da fare. Se ne va così qualcosa di più di un bravo musicista: un pensatore in anticipo sui propri tempi, uno strenuo difensore della pace, dei diritti umani e del dialogo tra diverse culture, ma soprattutto un opinion leader per i movimenti giovanili dell'epoca. Ciò spiega perché alla notizia della sua morte si radunano in migliaia, nelle piazze di mezzo mondo, intonando tra le lacrime le immortali note di Imagine e Give peace a chance, due inni alla pace e all'uguaglianza dei popoli.
Chi era dunque John Lennon (1940-1980)? Ripercorriamone insieme la vita.
Il ritratto di una delle più grandi e celebri icone della musica mondiale, di cui ha scritto una pagina fondamentale sia come leader dei Beatles che come solista.
John Winston Lennon nasce a Liverpool il 9 ottobre del 1940. Non è un giorno come un altro: siamo nel pieno della Seconda guerra mondiale e la città è minacciata da un raid tedesco.
Di origini irlandesi, John Lennon viene alla luce al Maternity Hospital, figlio della giovanissima Julia Stanley e del marinaio Alfred Lennon. È la donna a scegliere il nome John per il figlio, aggiungendoci quel Winston in onore dell'allora primo ministro inglese Winston Churchill, che aveva promesso a tutto il popolo britannico la tanto sognata pace e la fine della guerra.
Cresciuto nell'assenza paterna (suo padre era spesso via per lunghi viaggi oltremanica), John ha però una sorella, Victoria Elizabeth, nata nel giugno del 1945 da una relazione fedifraga che la madre ebbe con un soldato gallese. Costretta a darla in adozione, la bambina cambiò il suo nome con quello di Ingrid. Quanto alla madre di Lennon, giudicata troppo stupida e immatura per badare a un bambino, fu costretta a dare John alla sorella Mimi nella primavera del 1946.
Furono Mimi e suo marito George a educare il bambino, sperando di restituirlo alla madre qualora avesse dimostrato più responsabilità materna. Non volendo privarsi di suo figlio, Julia divorziò da Alfred e decise di trasferirsi con John e il suo nuovo compagno, John Bobby Dykins, altrove, sottraendo il suo bambino dalle mani della sorella. Disgraziatamente, tutto questo si rivelò vano. Bastò una visita di Mimi all'appartamento della sorella, perché John tornasse dalla zia. Nel contempo, Julia diede alla luce altre due figlie: nel 1947 Julia Dykins, e nel 1949 Jacqueline Dykins. Fra le due nascite, il trasferimento a Penny Lane e quello a Springwood.
Iscritto alla Dovedale Primary School, John emerge fin da subito come un bambino molto creativo ed eccentrico, tanto da preoccupare un pò la zia che, terminate le scuole dell'infanzia, gli fece frequentare (senza ottimi risultati) la Quarry Bank High School e poi il Liverpool College of Art, dove John si specializzò nel disegno. Ma fu la musica a rapirlo maggiormente. Autodidatta, imparò a suonare un'armonica a bocca. Furono artisti come Bill Haley, Lonnie Donegan e Elvis Presley a fargli nascere dentro la voglia di imparare a suonare la chitarra, che si fece regalare dalla madre. Fu Julia, entrata ancora una volta nella sua vita, a farlo appassionare alla musica, insegnandogli i primi accordi per chitarra e banjo.
Nel 1956 John forma la sua prima band: i Quarrymen. La zia Mimi ancora una volta storse il naso all'idea di un nipote musicista. Nel 1953, però, accade la disgrazia. Sua madre Julia, con la quale aveva ripreso i rapporti, viene investita da un agente di polizia ubriaco. Il dolore lo porta ancora una volta alla musica, alla chitarra dono della madre, agli accordi. Ed è proprio durante una delle performance dei Quarrymen che John incontra un ragazzino di nome Paul McCartney, con il quale condivideva il lutto materno (anche sua madre era morta, ma per un tumore al seno nel 1956). Tornato a casa della zia Mimi, John vive con lei fino al 1963, dandosi completamente alla scrittura e alla composizione di canzoni insieme a Paul. Una volta riusciti a ottenere un contratto discografico con la Parlophone, pubblicano il loro primo singolo: "Love Me Do". E inizia la storia del rock dei Beatles. Cambia tutto.
A questo singolo si aggiungono "Please Please Me" (ispirata alle ballate di Roy Orbison) e "She Loves You" con il ritornello "yeah yeah" che divenne presto un tormentone. Nasce la “Beatlemania” che viene esportata fuori dall'Inghilterra e diventa mondiale.
I Beatles vengono chiamati ovunque. Anche il cinema li corteggia, imponendoli come attori in Tutti per uno (1964) di Richard Lester, per il quale saranno nominati ai BAFTA come miglior promesse. Paul McCartney, John Lennon, George Harrison e Ringo Starr diventano indivisibili. Lennon partecipa ad altri film di Lester: Aiuto! (1965) con Eleanor Bron (che poi ispirerà loro la canzone "Eleanor Rigby") e Come vinsi la guerra (1967). Tenta anche la strada della scrittura con i libri "In His Own Write" e "A Spaniard in the Works", all'interno del quale si mette in luce per tutto il suo umorismo dissacrante nei confronti delle istituzioni e dello status quo, emergendo come il più polemico e intellettuale fra i quattro musicisti. Ma il loro genere musicale non si ferma al rock. I Beatles sperimentano, cercano nuovi suoni, a volte orientali, a volte elettrici, psichedelici. Arrivano canzoni come "Nowhere Man", "Girl", "In My Life", "Run for Your Life", "Norwegian Wood" e tante altre. Arriva anche un cartone animato, Yellow Submarine (1968).
Negli anni Settanta, la bellissima "Let It Be" fa vincere loro l'Oscar per la migliore canzone originale. Non potendo essere presenti, per ritirare il premio delegano Quincy Jones.
Ma un incontro è fondamentale nella vita di Lennon: quello con l'artista giapponese Yoko Ono, che spinge John Lennon a usare la propria popolarità per scopi umanitari.
I Beatles non resistono. Cominciano i primi contrasti, fino alla rottura nell'aprile del 1970. John diventa solista, ma talvolta registra dei pezzi accompagnandosi a Yoko Ono. I pezzi di Lennon da spensierati, felici, leggeri, si fanno politicamente impegnati, autobiografici, a difesa del proletariato e psicanalitici. Lennon, in effetti, accetta di andare in terapia da uno psicanalista ed è proprio da questa esperienza che nascono canzoni come "Mother", "My Mummy's Dead" e "Julia", dove affronta il trauma dell'assenza materna.
Nel 1971 si trasferisce in America, dove regista il singolo "Power to the People". Lennon diventa il simbolo della sinistra americana, del pacifismo, dell'opposizione a una guerra sbagliata come quella del Vietnam. Vuole portare la pace nel mondo, e crea un inno per questo sogno utopico: "Imagine". Non gli basta, vuole imporsi anche con una canzone che celebri il Natale, non per il materialismo consumistico ma per quello che dovrebbe portare, la serenità e la tenerezza: "Happy Xmas (War Is Over)". Vestito come un santone, bianco da capo a piedi, circondato da mobili lattei (persino il pianoforte) Lennon continua a comporre album prodotti da Phil Spector.
L'8 dicembre del 1980 la vita di John Lennon viene stroncata. Ha solo 40 anni. A poche settimane dall'uscita del suo ultimo disco "Double Fantasy", mentre sta per entrare con Yoko Ono al Dakota Building (dove viveva), viene raggiunto da cinque colpi di pistola. A sparare è Mark Chapman, un giovane di venticinque anni. Soccorso da una pattuglia di polizia, Lennon perde conoscenza durante la corsa verso il Roosevelt Hospital, dove muore. Per sua volontà, il corpo viene cremato e le sue ceneri sparse nell'Oceano Atlantico.
Dalla ricostruzione postuma dei fatti, emergerà che l'attentatore è una guardia giurata di Honolulu (Hawaii) e che ha viaggiato fino a New York con il proposito di uccidere l’ex leader dei Beatles. Le motivazioni che rivelerà agli investigatori diranno tutto del suo squilibrio psichico; la sua indignazione era nata in seguito alla frase di Lennon, «i Beatles sono più popolari di Gesù», da lui considerata una bestemmia, e per la contraddizione tra il rifiuto del possesso cantato in Imagine e la ricchezza personale dell'artista.
John Lennon è stato sposato due volte. Dal primo matrimonio, con Cynthia Powell, John ha avuto il suo primogenito, Julian. Dal secondo matrimonio, con Yoko Ono, è nato Sean. Entrambi seguono la carriera artistica del padre.
30/11/2017
Wolfgang Amadeus Mozart
Un ritratto di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791): annoverato tra i geni della musica, dotato di raro talento manifestatosi precocemente, morì all’età di 35 anni, lasciando però pagine indimenticabili di musica classica, da camera e operistica.
Nato a Salisburgo, uno dei principali centri dell'allora Impero asburgico (e oggi dell'Austria centro-settentrionale), il 27 gennaio del 1756, Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart dimostrò ben presto le sue doti di genio della musica, componendo già a cinque anni brani per clavicembalo e violino.
Il padre Leopold, un uomo dal carattere austero, permeato di ideali illuministi, schivo e sprezzante, che all'epoca ricopriva l'incarico di maestro di cappella del principe arcivescovo di Salisburgo e celebre violinista compositore, fu il suo primo maestro.
E proprio dagli appunti del padre si apprende che Wolfgang prima dei quattro anni era già in grado di utilizzare una raccolta di esercizi che egli stesso aveva preparato, e che a Wolfgang occorreva solo mezz'ora per eseguirli perfettamente.
Nel 1762 Leopold portò il piccolo Wolfgang e sua sorella Nannerl di undici anni, anche lei bambina prodigio, in giro per le corti d’Europa. Durante il viaggio, Wolfgang compose sonate per violino e clavicembalo (1763), una sinfonia (1764), un oratorio (1766), e l’opera buffa "La finta semplice" (1768).
Nel 1769 Wolfgang viaggiò con il padre per l'Italia, soggiornando e perfezionando gli studi musicali a Milano, Venezia, Bologna, Roma e Napoli. A Milano, per il teatro La Scala, Mozart compone l’opera seria "Mitridate re di Ponto", rappresentata nel 1770, e si avvicina alle composizioni di Sammartini.
A Roma ascolta le polifonie ecclesiastiche, mentre a Napoli prende coscienza dello stile diffuso in Europa.
Finita l'esperienza italiana, torna a Salisburgo e precisamente al servizio dell'iroso arcivescovo Colloredo, che gli lascia la massima libertà di movimento concedendo a Wolfgang di recarsi ancora in Italia per assistere a Milano alla rappresentazione dell’opera "Lucio Silla" (1772).
Da allora fino al 1777, ad eccezione di brevi viaggi a Vienna dove prese lezioni da Haydn e si dedicò allo studio del contrappunto, Mozart restò quasi sempre a Salisburgo.
Sulla spinta del successo ottenuto, nel 1777 lascia l'incarico presso l'Arcivescovo Colloredo e inizia la carriera di musicista autonomo e si reca a Parigi insieme alla madre (che muore proprio in quella città), toccando Manheim, Strasburgo e Monaco e scontrandosi per la prima volta con insuccessi professionali e sentimentali.
Deluso, Mozart, torna a Salisburgo e si dedica alla composizione di sonate, sinfonie e concerti. Qui compone la bellissima "Messa dell'Incoronazione K 317" e l'opera rappresentata a Monaco il 29 gennaio 1781 "Idomeneo, re di Creta", molto ricca dal punto di vista del linguaggio e delle soluzioni sonore, che riscosse un inatteso successo.
L'ultimo decennio della sua breve esistenza è per Mozart il più produttivo e felice per la musica.
Si trasferisce a Vienna, si sposa con Constanze Weber contro il parere di suo padre e, nel 1782, l’imperatore Giuseppe II gli commissiona un’opera. Egli sceglie di scrivere un "singspiel", cioè un’opera in tedesco con dialoghi recitati, su libretto di Gottlob Stephanie; Mozart compone così l’opera buffa "Il ratto dal serraglio".
I contatti con gli impresari e gli agganci con l'aristocrazia, favoriti dal successo dell'opera buffa, gli permettono un'esistenza precaria ma dignitosa.
Fondamentale è il suo incontro con il librettista Da Ponte che darà vita agli immortali capolavori teatrali conosciuti anche con il nome di "trilogia italiana", ossia "Le nozze di Figaro"(1786), "Don Giovanni"(1787) e "Così fan tutte"(1790).
Le prime due opere ottennero successi senza precedenti per l’epoca e fruttarono a Mozart la carica di Kammermusicus dell’imperatore.
Ma nel 1787 la morte del padre arrecò un grave colpo al suo instabile equilibrio economico e psicologico. Il tiepido successo della terza opera - “Così fan tutte” (1790) - fu seguito dalla morte dell’imperatore Giuseppe II.
Il successore, Leopoldo II, pur non essendo interessato alla musica quanto Giuseppe II, nel 1791 per la sua incoronazione commissionò a Mozart l’opera seria "La clemenza di Tito" (su libretto di Metastasio).
Nel 1790 Mozart compose per il teatro il singspiel "Il Flauto magico" - considerato il momento di avvio del teatro tedesco - ma il 5 dicembre del 1791 si spense misteriosamente all'età di soli 35 anni, lasciando incompleto il "Requiem in Re minore", portato a termine dal suo allievo Franz Sussmayr.
La sua preziosa eredità comprende opere di musica sinfonica, sacra, da camera e di vario genere.
Luca De Filippo
La vita di Luca De Filippo (1948-2015): il ritratto dell’ultimo erede della commedia napoletana.
Luca De Filippo nasce a Napoli il 3 giugno del 1948 dal grande Eduardo De Filippo e dalla cantante e attrice torinese Thea Prandi.
La sua carriera comincia da bambino, nel 1955, quando è Peppeniello in “Miseria e nobiltà” di Eduardo Scarpetta, diretto dal padre. Ma il vero debutto avviene all’età di vent’anni ne “Il figlio di Pulcinella” di Eduardo (regia di Gennaro Magliulo), con il nome di Luca Della Porta. Da questo momento inizia un’intensissima attività teatrale. Numerose sono anche le sue apparizioni cinematografiche e televisive.
Nel 1981 fonda la sua compagnia teatrale, con la quale sceglie di confrontarsi non solo con le commedie del padre ma con tutti i grandi maestri della Storia del teatro: da Molière a Pinter a Beckett, da Scarpetta a Pirandello. Dirige quindi “Uomo e galantuomo”, “Non ti pago”, “Il contratto”, “Penziere mieje” - nato attorno ad alcune poesie di Eduardo musicate da Antonio Sinagra - e “Ditegli sempre di sì”, ma realizza anche un’opera di Pasquale Altavilla “ ‘A fortuna e Pulicinella” e il “Don Giovanni” di Molière, e nel 1990 dirige Umberto Orsini ne “Il piacere dell’onestà” di Pirandello.
Per la regia di Armando Pugliese interpreta “ ‘O scarfalietto”, “Ogni anno punto e daccapo”, “Questi fantasmi!” - che segna l’inizio della lunga collaborazione con Enrico Job - e “Il Tartuffo” di Molière.
Nell’estate del 2000 cura la regia de “La scala di seta” di Gioacchino Rossini, per il Rossini Opera Festival di Pesaro. Nel biennio 2001-2002 dirige ed interpreta, insieme a Umberto Orsini, “L’Arte della commedia”, di Eduardo.
Particolarmente attento al teatro contemporaneo, è regista e interprete de “La casa al mare” di Vincenzo Cerami (1990-91), protagonista di “Tuttosà” e “Chebestia” (1992-93, regia di Benno Besson), de “L’esibizionista”, (testo e regia di Lina Wertmuller, 1993-94), de “L’amante” di Harold Pinter (con Anna Galiena, regia di Andrée Ruth Shammah, 1997), de “Il Suicida” (libero adattamento di Michele Serra da Nicolaj Erdman, regia di Armando Pugliese, 1999-2000), di “Aspettando Godot”, di Samuel Beckett, sua anche la regia (2001-02), e dirige “Resisté” di Indro Montanelli, realizzato in collaborazione con il Teatro Franco Parenti di Milano.
Nel 2002-03 interpreta “La palla al piede” di Georges Feydeau, con Gianfelice Imparato e Carolina Rosi, regia di Armando Pugliese, curandone anche, con Carolina Rosi, traduzione e adattamento.
A maggio del 2003 debutta nello stesso Teatro San Carlo, con la regia di Francesco Rosi, la nuova messa in scena di “Napoli Milionaria!”, a distanza di quasi sessant’anni dalla prima storica rappresentazione del 25 marzo 1945, a pochi mesi dalla fine della Seconda guerra mondiale, nella sala requisita e ottenuta da Eduardo per una sola replica. Luca ne è protagonista, accanto all’interprete femminile Mariangela D’Abbraccio. Le repliche si susseguono con grande successo in tutta Italia fino alla primavera del 2006. Sempre con la regia di Francesco Rosi, debutta ad ottobre del 2006 al Teatro Argentina ne “Le Voci di dentro”, di Eduardo. Lo spettacolo, accolto con unanime favore da critica e pubblico, viene replicato per tre stagioni. Terzo allestimento della trilogia su Eduardo realizzata in collaborazione con Francesco Rosi, è “Filumena Marturano”, di cui è interprete con Lina Sastri e che, accolta con lo stesso successo, rimane a lungo in tournée.
Alla fine del 2009, insieme a Nicola Piovani presenta al Teatro San Ferdinando di Napoli “Padre Cicogna”, poema messo in musica per ricordare Eduardo a venticinque anni dalla scomparsa. Nel 2010 torna alla regia con lo spettacolo “Le bugie con le gambe lunghe”, di cui è anche l’interprete principale, come pure, nel 2012, de “La Grande Magia”.
A dicembre del 2013 mette in scena un nuovo spettacolo: “Sogno di una notte di mezza sbornia”, di Eduardo De Filippo, commedia liberamente tratta da “La Fortuna si diverte”, di Athos Setti.
L’inizio del 2015 si apre con le repliche di “Sogno di una notte di mezza sbornia”, per continuare con la messa in scena e la regia di “Non ti pago”.
Sempre nel 2015 ha accettato l’incarico di dirigere la Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Napoli - Teatro Nazionale.
È stato presidente della Fondazione Eduardo De Filippo, costituita nel 2008, in seguito alla donazione del Teatro San Ferdinando alla città di Napoli da parte della famiglia De Filippo. La Fondazione persegue finalità culturali ed è attiva in ambito civile e sociale a favore dei ragazzi a rischio per i quali Luca si è impegnato, come già suo padre, promotore della legge regionale n. 41 del 1987, nota come “legge Eduardo”.
Da due diverse compagne ha avuto tre figli (Matteo, Tommaso e Luisa). Nel 2013 ha sposato Carolina Rosi figlia del regista Francesco Rosi, con la quale ha condiviso anche tante avventure teatrali.
Luca De Filippo, l’ultimo erede della commedia napoletana, si spegne a Roma il 27 novembre del 2015, all’età di 67 anni.
25/11/2017
Un anno fa, Vittorio Sermonti: un ritratto.
Narratore, saggista, traduttore, regista, attore. Vittorio Sermonti (1929-2016): il ritratto di un grande divulgatore.
Vittorio Sermonti era nato a Roma il 26 settembre del 1929, sesto di sette fratelli, da padre avvocato di modestissime origini pisane, e madre di cospicua famiglia palermitana.
Da bambino vedeva circolare in casa dei nonni e degli zii materni notevoli personaggi: da Vittorio Emanuele Orlando (suo padrino di nascita) a Luigi Pirandello, da Alberto Beneduce a Enrico Cuccia.
Freelance ostinatissimo, nelle vesti più disparate - narratore, saggista, traduttore, regista di radio e tv, giornalista, docente di Italiano-Latino al liceo «Tasso» di Roma (1965-1967), e di tecnica del verso teatrale all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica (1973-1974), consulente CEE (1985-1988), poeta e lettore di poesia - Vittorio Sermonti si è sempre occupato dell’energia vocale latente nei testi letterari; insomma, del rapporto fra la scrittura e la voce.
Cresciuto nel perimetro di Niccolò Gallo con Giorgio Bassani, Cesare Garboli, Antonio Delfini, Pier Paolo Pasolini, Goffredo Parise, e molti altri, promosso per le stampe da Roberto Longhi ( è stato redattore di «Paragone» dal 1954), Sermonti si è laureato con lode (1963) alla Sapienza di Roma in Filologia Moderna, con una tesi su Lorenzo Da Ponte (relatori, Natalino Sapegno e Giovanni Macchia).
Per meno di un anno (1956) è stato iscritto al P.C.I. Nel 1956-57 ha vissuto a Brema, nel 1967-68 a Praga, nel 1975-79 a Torino, dove ha diretto il Centro Studi del Teatro Stabile.
Ha collaborato a vario titolo con diversi giornali (L’Unità, 1979-82; Il Mattino, 1985-86; Corriere della Sera, 1992-94).
Nelle sue centoventi regie per la radio (1958-1984), ha lavorato con i più grandi attori del tempo: da Renzo Ricci a Vittorio Gassman, da Paolo Poli a Carmelo Bene, da Sarah Ferrati a Valeria Moriconi.
Tra il 1987 e il 1992 ha registrato per Raitre l’intera Commedia introdotta da cento racconti critici sotto il titolo La Commedia di Dante, raccontata e letta da Vittorio Sermonti; tra il 1995 e il 1997 ne ha replicato la lettura, ampliando le introduzioni, nella basilica di San Francesco a Ravenna, davanti a migliaia di persone di ogni età, ceto, grado di istruzione; tra il 2000 e il 2002, aggiornando via via la parte critica, ai Mercati di Traiano e al Pantheon di Roma; dal 2003 al 2005 a Firenze (Cenacolo di Santa Croce) e a Milano (S. Maria delle Grazie); nel 2006 a Bologna (Santo Stefano).
In letture di singoli canti si è prodotto per tutta Italia, ma anche in Svizzera, Spagna, Regno Unito, Argentina, Cile, Uruguay, Israele, Turchia.
Nell’autunno 2006 (Milano, Santa Maria delle Grazie) e nell’autunno 2007 (Roma, esedra del Marco Aurelio nei Musei Capitolini) ha letto i XII libri dell’Eneide tradotti da lui. Fra l’autunno 2009 e la primavera 2010 ha registrato per intero - con la regia di Ludovica Ripa di Meana e a loro spese - la versione definitiva dei cento commenti-racconto e delle cento letture della Commedia di Dante, dei dodici libri dell’Eneide e di 14 «racconti verdiani».
Nel giugno 2012 ha registrato - stessa regia, stesso finanziamento - le Metamorfosi di Ovidio nella sua traduzione.
Residente da sempre a Roma, Sermonti ha soggiornato per molti anni e in epoche diverse a Milano.
In prime nozze con Samaritana Rattazzi ha avuto tre figli: Maria, Pietro e Anna; ha vissuto per oltre trent’anni a Roma con Ludovica Ripa di Meana, poetessa, che ha sposato nel 1992.
Membro d’onore della «Dante Alighieri» di Parigi, membro dell’Accademia Virgiliana di Mantova e dell’Aspen Institute Italia, Sermonti è stato cittadino onorario di Ravenna e di Palermo.
A marzo 2016 ha ricevuto il Premio Nazionale per la traduzione a cura del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo: “per aver tradotto con particolare acume interpretativo ed una scrittura agile ed elegante la letteratura classica e aver affrontato le letture dantesche riconsegnando alla contemporaneità la più profonda essenza dell’opera del Poeta”.
Vittorio Sermonti si è spento a Roma il 23 novembre del 2016, all’età di 87 anni.
23/11/2017
“Natale in casa Cupiello” compie 89 anni
Il 25 dicembre del 1931, al Teatro Kursaal di Napoli, Eduardo De Filippo portava in scena per la prima volta “Natale in casa Cupiello”. Con il Natale alle porte ripercorriamo dunque i momenti salienti della vita di Eduardo e la trama di questa straordinaria e “tradizionale”rappresentazione teatrale.
Nato a Napoli il 24 maggio del 1900 - figlio illegittimo dell'attore e commediografo Eduardo Scarpetta e della sarta Luisa De Filippo - Eduardo De Filippo cresce dentro l'ambiente teatrale napoletano e rivela già nell'adolescenza straordinarie doti comiche.
A 14 anni entra stabilmente nella compagnia del fratellastro Vincenzo, dove già lavorava la sorella Titina e che tre anni dopo accoglierà anche il fratello Peppino.
I tre fratelli dagli anni Venti lavorano insieme sia nell'ambito del teatro dialettale che in quello più eterogeneo del varietà e della rivista. Eduardo compone testi di vario tipo, molti dei quali sono rimasti inediti: il più antico tra quelli pubblicati, "Farmacia di turno", risale al 1920.
Dopo il sodalizio artistico con Michele Galdieri, nel 1931 i tre fratelli realizzano il grande sogno di recitare insieme in una compagnia tutta loro: il Teatro Umoristico "I De Filippo". Hanno un grande successo e il loro nome inizia a risuonare in tutti i teatri italiani, dove spopolano con spettacoli farseschi ispirati alla commedia dell'arte.
Eduardo inoltre punta l'attenzione anche sugli aspetti concreti della realtà contemporanea napoletana, portando in scena le abitudini, gli stenti e le illusioni quotidiane della "piccola borghesia". Nel tentativo di elevare il teatro napoletano a una dimensione nazionale, egli guarda con ammirazione alla grande eredità di Luigi Pirandello, che incontra nel 1933 e insieme al quale scrive la commedia “L'abito nuovo”.
Il piglio autoritario e carismatico lo porta a scontrarsi con Peppino fino alla dolorosa separazione nel 1944, dopodiché dà vita a una nuova compagnia teatrale, "Il Teatro di Eduardo".
Rilevato e riportato a nuova vita il Teatro San Ferdinando di Napoli, ne fa un laboratorio all'avanguardia e da qui rilancia il teatro dialettale elevandolo a forma d'arte e attribuendo al napoletano la dignità di lingua ufficiale. Tra le opere più significative di questo periodo: "Napoli milionaria!", "Questi fantasmi!" e "Filumena Marturano".
Il suo successo cresce anche grazie al cinema e alla televisione, per la quale reinterpreta tutte le commedie: con il suo volto, la voce e la proverbiale gestualità diventa un'icona dell'arte della recitazione. Con la popolarità si intensificano anche gli impegni nel sociale. Tra l’altro, si batte per i minori rinchiusi negli istituti di pena e per la creazione di un teatro stabile a Napoli.
Ottiene moltissimi riconoscimenti ufficiali tra cui la nomina a "Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana", il "Premio Feltrinelli" dell'Accademia dei Lincei di Roma, il "Premio Pirandello", due lauree honoris causa dalle Università di Birmingham e Roma e la nomina di senatore a vita nel 1981.
Eduardo De Filippo si spegne a Roma il 31 ottobre del 1984, all’età di 84 anni.
La camera ardente viene allestita al Senato e, dopo il commosso saluto di oltre 30 mila persone, Eduardo viene sepolto al Cimitero del Verano, dove riposa.
Le sue commedie, raccolte nei volumi Teatro di Eduardo (Einaudi), risentono di numerosi stimoli che vanno dai canovacci della Commedia dell’arte di Eduardo Scarpetta al «teatro del grottesco» di Luigi Chiarelli e Luigi Pirandello. Eduardo ha seguito tuttavia un suo personale itinerario, conferendo dignità artistica e risonanza nazionale al teatro napoletano. Il successo del suo teatro è legato soprattutto alla capacità da lui dimostrata nell’interpretare le esigenze del mondo popolare - colto nel momento in cui incominciava a manifestare aspirazioni piccolo-borghesi - e nell’essere riuscito a stabilire con esso una partecipazione immediata. In virtù di questo orientamento, la famiglia, in quanto specchio della società e, soprattutto, sentita come luogo di comunicazione e di fiducia, è uno dei centri di interesse di Eduardo.
Tra i testi più famosi, Natale in casa Cupiello (due atti nel 1931, poi ampliati in tre nella versione del 1943) è legato in parte alla tradizione farsesca dell’antica Commedia dell’Arte. Ma l’atmosfera, a mezzo tra il tragico e il comico, e i temi (la solitudine, la volontà dell’individuo di reagire all’indifferenza e al male, la sconfitta dell’uomo buono), indicano la vocazione umoristica di Eduardo e, nel contempo, anticipano l’amara riflessione sulla vita delle sue opere più mature.
Natale in casa Cupiello
Il modesto tipografo Luca Cupiello, detto Lucariello, vive con la moglie Concetta, il figlio Tommasino, detto Nennillo, e un fratello, Pasquale. La famiglia non è serena: il figlio è scapestrato, vive di espedienti e deruba lo zio; la figlia Ninuccia non va d’accordo con il marito Nicolino e pensa di fuggire con l’amante Vittorio; la moglie cerca di nascondere al marito le grane familiari. Luca, che patisce silenziosamente la situazione, si rifugia nell’allestimento del Presepe, fiducioso che la bontà del Bambinello Gesù possa calarsi come per miracolo nell’indifferenza degli uomini e scacciare il male. Ma il Presepe è criticato dalla famiglia, disdegnato da Tommasino e infine rotto da Ninuccia in una crisi d’ira. Durante il pranzo natalizio, messa all’improvviso a fuoco la situazione familiare e compreso che la realtà è più drammatica di quanto si era immaginato, Luca è colto da malore. Il crollo fisico e psicologico che ne segue lo condurranno alla morte, ma gli conquisteranno l’amore sincero dei figli; Nennillo più di tutti comprende il dramma del padre e cambia comportamento. Per qualche istante Luca ritrova la serenità vedendo la famiglia affettuosamente unita intorno a lui: nel delirio scambia Vittorio per Nicola (il genero invece è partito), quindi chiede a Ninuccia e a Vittorio di giurare che non si lasceranno mai più, e muore guardando il Presepe. Ma il “miracolo” si è avverato solo nella sua mente.
Addio a Elsa Martinelli
Lutto nel mondo del cinema. Si è spenta a Roma Elsa Martinelli. Riferimento per le modelle degli anni '50, conobbe i fasti di Hollywood ottenendo ampi consensi. Recitò per registi del calibro di Monicelli e Orson Welles. Aveva 82 anni.
Elsa Martinelli - nome d'arte di Elsa Tia - era nata a Grosseto il 30 gennaio del 1935. Romana di adozione, è proprio nella Capitale che avrà l'opportunità di raggiungere il successo, prima come modella e successivamente come attrice.
Fu scoperta dallo stilista Roberto Cappucci, che la scelse come propria testimonial. La bellezza e l'eleganza innate, oltre che una buona dose di fascino e magnetismo, la fecero diventare in poco tempo una delle modelle più apprezzate. Ebbe subito un grande successo anche come fotomodella.
Nel 1954 debutta al cinema con il film diretto dal regista francese Claude Autant-Lara L’uomo e il diavolo, dove recita in una piccola parte. Nel 1955 Kirk Douglas dopo aver visto una sua foto su Life, la sceglie come sua partner nel film Il cacciatore di indiani.
Per Elsa Martinelli si spalancano le porte di Hollywood; fu tra le pochissime attrici italiane a ricevere grande apprezzamento e la consacrazione a diva proprio dalla stessa Hollywood.
Recita al fianco di personaggi del calibro di John Wayne, Robert Mitchum, Richard Burton, senza mai venirne offuscata, riuscendo invece a ritagliarsi il proprio spazio. Ha avuto come registi anche Orson Welles e Mario Monicelli.
Nonostante il grande successo Elsa Martinelli negli anni '70 si allontanerà dal grande schermo per dedicarsi più alla televisione.
Riuscì anche nell'impresa di presentatrice del festival di Sanremo, al fianco di Carlo Giuffrè.
Elsa Martinelli è stata una diva fuori dagli schemi che non ha mai ceduto agli eccessi; ha saputo in modo intelligente concedersi e sottrarsi dai riflettori, senza mai rinunciare allo stile e all'eleganza che l'hanno accompagnata in ogni fase della sua vita.
Si è spenta a Roma, all’età di 82 anni, l’8 luglio del 2017.
9/7/2017
Protagonisti
Addio a Stefano Rodotà
È morto a Roma Stefano Rodotà: giurista, politico e paladino dei diritti. Dal 1997 al 2005 è stato il primo garante per la protezione dei dati personali. Aveva 84 anni.
Stefano Rodotà è nato a Cosenza il 30 maggio del 1933. Oltre che grande giurista e uomo politico Stefano Rodotà è stato anche un professore tra i più rinomati in Italia; professore emerito all'Università La Sapienza di Roma, città dove ha condotto gli studi e si è laureato. La sua carriera accademica lo ha visto insegnare anche nelle università di Macerata e Genova e in numerosi istituti esteri.
La carriera politica di Rodotà inizia con il Partito Radicale, a cui era iscritto negli anni Settanta e per il quale ha rifiutato due volte la candidatura, nel 1976 e nel 1979, anno in cui è stato invece eletto come indipendente nelle liste del PCI, ricoprendo poi il ruolo di membro della Commissione Affari Costituzionali, nella quale viene rieletto nel 1983, anno in cui diviene anche presidente della Sinistra Indipendente.
Rodotà viene ancora eletto deputato nel 1987, mentre è nell'89 che diviene Ministro della Giustizia del Governo ombra di Achille Occhetto. La sua carriera politica resta tuttavia sempre caratterizzata da una forte tendenza all'indipendenza, come confermato dall'adesione al Partito Democratico della Sinistra e, nel 1992, l'elezione alla Camera con il PDS - nello stesso anno diviene vice Presidente della Camera -. Ricopre dunque anche la Presidenza in vista dell'elezione di Scalfaro, e quindi dismette i panni di politico alla fine della legislatura. Sarà poi, dal 1997 al 2005, Presidente dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali.
Il grande giurista calabrese è stato tra i redattori della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. La biografia di Rodotà è inoltre arricchita da un gran numero di premi e di altri ruoli istituzionali ricoperti per tempo più o meno breve.
Considerato all'unanimità una figura dalla levatura di primissimo piano nel nostro Paese, Stefano Rodotà si è spento a Roma il 23 giugno del 2017, all’età di 84 anni.
24/6/2017
Giornalismo
Addio a Piero Ottone: decano del giornalismo italiano.
Lutto nel giornalismo. Si è spento Piero Ottone: giornalista e scrittore, ex direttore del Corriere della Sera ed editorialista di Repubblica. Aveva 92 anni.
Pseudonimo di Pierleone Mignanego, Piero Ottone è nato a Genova il 3 agosto del 1924.
Gli inizi al Corriere Ligure e poi alla Gazzetta del popolo, come redattore e corrispondente da Londra. Negli anni '50 passa al Corriere della Sera, come corrispondente da Mosca e inviato speciale, fino alla promozione a caporedattore. Dal 1968 al 1972 è direttore del Secolo XIX, poi torna, fino al 1977, alla guida del Corriere della Sera, voluto da Giulia Maria Crespi per imprimere una svolta a sinistra al quotidiano. Celebre la rottura con Indro Montanelli, di cui propose il licenziamento e che lasciò il Corriere, insieme ad altre firme prestigiose, per fondare Il Giornale.
Nel 1977 Ottone lascia via Solferino per entrare in Mondadori, di cui diventa direttore generale; poi è presidente del consiglio di amministrazione di Repubblica, di cui è stato in seguito editorialista.
Tra i numerosi libri pubblicati ricordiamo, Gli industriali si confessano (1965); Fanfani (1966); La nuova Russia (1967); De Gasperi (1968); Potere economico (1968); Giornale di bordo (1982); Le regole del gioco (1984); Il gioco dei potenti (1985); Il buon giornale (1987); Il tramonto della nostra civiltà (1994); Preghiera o bordello (1996); Saremo colonia? (1997); Vizi & virtù (1998); Gianni Agnelli visto da vicino (2003); Memorie di un vecchio felice (2005); Cavour (2011); Novanta. (Quasi) un secolo per chiedersi chi siamo e dove andiamo noi italiani (2014).
Piero Ottone si è spento nella sua casa di Camogli, in Liguria, il 16 aprile del 2017, all’età di 92 anni.
Con lui se ne va uno degli ultimi rappresentanti della grande scuola del giornalismo, formatisi negli anni della Seconda guerra mondiale, che hanno magistralmente informato i lettori dal dopoguerra in poi.
17/4/2017
Protagonisti
E’ morto Tullio De Mauro
Addio al linguista Tullio De Mauro. Docente universitario, autore del Grande dizionario italiano dell’uso e della Storia linguistica dell’Italia unita, aveva 84 anni. Era stato ministro della Pubblica Istruzione dal 2000 al 2001.
Nato a Torre Annunziata (Napoli) il 31 marzo del 1932, laureatosi in Lettere classiche nel 1956, Tullio De Mauro ha insegnato negli atenei di Napoli, Chieti, Palermo e Salerno. Professore ordinario di Filosofia del linguaggio presso l'università "La Sapienza" di Roma (1974-1996), dal 1996 è stato ordinario di Linguistica generale presso la stessa università. Nel 1966 è stato tra i fondatori della Società di linguistica italiana, di cui è stato anche presidente (1969-73). È stato consigliere della Regione Lazio (1975-80), membro del Consiglio di amministrazione dell'università di Roma (1981-85), delegato per la didattica del rettore (1986-88) e presidente della Istituzione biblioteche e centri culturali di Roma (1996-97). Dal 2000 al 2001 è stato ministro della Pubblica Istruzione nel governo Amato. Nel 2001 è stato nominato dal presidente della Repubblica Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana. Per l'insieme delle sue attività di ricerca, l'accademia nazionale dei Lincei gli ha attribuito nel 2006 il premio della Presidenza della Repubblica. Nel 2008 gli è stato conferito l'Honorary Doctorate dall'Università di Waseda (Tokyo).
Dopo i primi contributi nel campo dell'indoeuropeistica, il Prof. De Mauro si è dedicato alla linguistica generale con un ampio commento storico-interpretativo al Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure (1967) e con numerosi studi di semantica teorica e storica. Ha inoltre indagato gli aspetti linguistico-culturali della società italiana dopo l'unità nella sua Storia linguistica dell'Italia unita (1963). Negli anni più recenti si è dedicato maggiormente agli studi sociologici, indagando le connessioni tra lo sviluppo dei sistemi comunicativi e l'evoluzione della civiltà moderna (Guida all'uso delle parole, 1980; Minisemantica dei linguaggi non-verbali e delle lingue, 1982; Ai margini del linguaggio, 1984). Questa metodologia di studio lo ha portato in seguito a coordinare la preparazione di un nuovo dizionario dell'italiano contemporaneo. Ha proseguito l'attività di saggista negli anni Novanta con la pubblicazione di testi quali: Lessico di frequenza dell'italiano parlato (1993, in collab.), Capire le parole (1994), Idee per il governo: la scuola (1995), Linguistica elementare (1998); successivamente ha pubblicato Prima lezione sul linguaggio (2002), La fabbrica delle parole (2005), Parole di giorni lontani (2006), Lezioni di linguistica teorica (2008), In principio c'era la parola? (2009), Parole di giorni un po' meno lontani (2012), La lingua batte dove il dente duole (con Andrea Camilleri, 2013) e In Europa son già 103. Troppe lingue per una democrazia? (2014). Ha anche curato il DAIC. Dizionario avanzato dell'italiano corrente (1997), il Dizionario della lingua italiana (2000), il Dizionario etimologico (con Marco Mancini, 2000) e il Dizionario delle parole straniere nella lingua italiana (con Marco Mancini, 2001). Intensa anche la sua attività pubblicistica: ha collaborato, tra l'altro, con Il Mondo (1956-64) e L'Espresso (1981-90).
Tullio De Mauro si è spento nella sua casa di Roma il 5 gennaio del 2017, all’età di 84 anni.
6/1/2017
Solidarietà
Sisma nel Centro Italia: il Municipio ringrazia la “cittadinanza solidale”.
Grande prova di solidarietà da parte dei cittadini del III Municipio di Roma in favore dei terremotati. Centinaia gli aiuti arrivati a Piazza Sempione. Orgoglio, soddisfazione e gratitudine delle Istituzioni locali. Intanto nei territori colpiti dal sisma si continua a scavare tra le macerie.
Sono state centinaia le donazioni dei cittadini del III Municipio in favore delle popolazioni vittime del terremoto. Scatoloni e buste piene di prodotti hanno infatti letteralmente “invaso” le aule della sede istituzionale di Piazza Sempione, adibita - in queste drammatiche giornate - a principale punto di raccolta per i beni di prima necessità da destinare alle popolazioni dei territori del Centro Italia devastati dal sisma.
Una prova di generosità dunque ampiamente superata dai romani, che anche in questa occasione hanno dimostrato di avere un grande cuore e di credere profondamente nei valori propri della “comunità” e della “solidarietà”.
Intanto nei luoghi del disastro sismico il tragico bilancio delle vittime - ancora provvisorio - è salito a 290 morti, 388 feriti ospedalizzati e 2500 sfollati. Sempre più incerto il numero dei dispersi. Proseguono le attività dei soccorritori: oltre 6.000 uomini tra le forze dell’ordine e i volontari. Si continua a scavare alla ricerca di eventuali superstiti sotto le macerie.
Finora sono 238 le persone estratte vive.
Il Consiglio dei ministri nella seduta straordinaria del 25 agosto - come annunciato - ha deliberato lo stato di emergenza con lo stanziamento di 50 milioni per i primi interventi, il blocco delle tasse, e tutte le misure iniziali per i sopravvissuti nelle zone del sisma. La ricostruzione dei borghi distrutti dal terremoto - e la riapertura delle scuole - sono le priorità dell’agenda del Governo e del Paese. È stato inoltre presentato il progetto per la cultura della prevenzione “Casa Italia”.
Sabato 27 è stato il giorno del “lutto nazionale” per le vittime del sisma che ha colpito il Centro Italia, con l’esposizione di bandiere a mezz’asta sugli edifici pubblici dell’intero territorio italiano.
Il premier Matteo Renzi e il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si sono recati ai funerali di Stato a Ascoli Piceno. Una celebrazione religiosa, senza salme, si svolgerà martedì 30 agosto a Amatrice.
Su iniziativa del Ministero dei beni e delle attività culturali, tutti gli incassi dei musei statali - si sono aggiunti anche molti musei privati e locali - di domenica 28 agosto verranno destinati ai territori terremotati.
28/8/2016
Il sisma nel Centro Italia: la terra continua a tremare.
Dopo una notte di ansia e paura - mentre continua lo sciame sismico - è salito a 247 morti il bilancio delle vittime, e appare sempre più incerto il numero dei dispersi. Cresce il timore dello sciacallaggio.
Nelle aree colpite tra martedì e mercoledì dal forte sisma di magnitudo 6.0 che ha devastato l’Italia centrale si contano almeno 247 morti, tra cui molti bambini, diverse centinaia di feriti e migliaia di sfollati. Ma il bilancio delle vittime è ancora provvisorio. E lo sciame sismico continua. Nella sola giornata di ieri si sono registrate oltre 300 scosse di assestamento. Una nuova scossa di magnitudo 4.5 è intanto avvenuta alle 5:17 di oggi con epicentro tra Accumoli (Rieti) e Arquata del Tronto (Ascoli), chiaramente avvertita dalla popolazione nei territori di Marche e Lazio.
La complessa macchina dei soccorsi - e della solidarietà - si è messa immediatamente in moto. È dunque lotta contro il tempo per tutti coloro - vigili del fuoco, squadre cinofile, polizia, militari, sommozzatori, protezione civile e volontari - che continuano a lavorare e a scavare senza sosta tra le macerie.
I centri maggiormente colpiti, com’è drammaticamente noto, sono Accumoli e Amatrice, in provincia di Rieti, Arcuata, in provincia di Ascoli Piceno e la sua frazione Pescara del Tronto, praticamente rasi al suolo. Il sisma, che si è diffuso in tutto il Centro Italia, è stato avvertito in modo violento anche a Roma, dove molti palazzi hanno tremato per due volte e per circa 20 secondi, scatenando molta paura.
Il Consiglio dei ministri - convocato per oggi pomeriggio alle 18 a palazzo Chigi - dichiarerà lo stato d’emergenza per le regioni Lazio, Marche e Umbria, sbloccando automaticamente i fondi necessari a garantire la Ricostruzione.
Il Governo ha intanto confermato lo stanziamento di 50 milioni di euro per l’emergenza.
25/8/2016
Bob Dylan
In mezzo secolo di carriera vanta circa 70 milioni di copie vendute. Celebrato dalla rivista Rolling Stone come il “più grande cantautore di tutti i tempi” è lui il vincitore del Premio Nobel 2016 della Letteratura: “per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione musicale americana”.
Bob Dylan: il ritratto di un'icona culturale evergreen.
Come spesso accade nelle storie dei "grandi", il racconto comincia da una famiglia di umili origini. Quella di Robert Allen Zimmerman proveniva dalla Lituania, da dove era fuggita per scampare alla persecuzione antisemita, trovando dimora a Duluth - cittadina del Minnesota dove il futuro Bob Dylan nasce il 24 maggio del 1941-. Qui il giovane Robert scopre la sua passione per il rock, nel mito di Little Richard ed Elvis Presley. Presto la sua sete di poesia e spiritualità lo porta a cambiare genere, trovando pieno appagamento nel folk.
Come lui stesso rivelerà più tardi, le "canzoni popolari" (anche dette folk) “sono colme di disperazione, di tristezza, di trionfo, di fede nel sovrannaturale, tutti sentimenti molto più profondi”. È la musica che più si confà al suo animo inquieto e con quella sale per la prima volta su un palco, imbracciando la chitarra acustica. Tutto ciò accade a New York, dove si trasferisce nel 1961 inseguendo l'idolo Woody Guthrie.
Come tante giovani promesse subisce il fascino del Greenwich Village, quartiere simbolo della cultura bohémien americana che si ritrova nei tanti locali e pub mal frequentati della zona. In uno di questi, esattamente il Gerde’s Folk City, il 19enne Robert fa il suo debutto in pubblico. È la sera dell'11 aprile, quando il proprietario del locale, un italoamericano di nome Mike Porco, gli concede di fare da "apri concerto" per il bluesman John Lee Hooker.
Nessuno dei presenti sospetta minimamente che quel ragazzo esile e dalla voce gracchiante è destinato a diventare, di lì a qualche anno, un mito della musica. L'anno seguente segna un cambiamento decisivo nella sua vita: cambia nome al tribunale in Robert Dylan e pubblica il primo album con lo pseudonimo che lo accompagnerà per tutta la carriera: Bob Dylan. L'accoglienza del pubblico è freddina e le vendite si risolvono in un mezzo flop.
Tutt'altro copione gli riserva il secondo album, The Freewheelin’ Bob Dylan, edito nel maggio 1963. Con esso l'artista si accredita come interprete e soprattutto come autore presso famosi artisti come Joan Baez, che lo vuole accanto a sé nei concerti e per un periodo anche nella vita sentimentale. Sono gli anni del malcontento giovanile verso la politica aggressiva degli USA, che dal clima destabilizzante della guerra fredda porterà agli orrori del Vietnam.
Dylan si fa portavoce di questo sentimento e la celebre Blowin' in the Wind ne diventa il manifesto ideologico.
Dalla battaglia per i diritti civili al rifiuto della guerra, la sua musica influenza generazioni di giovani e di colleghi, sempre nel segno dell'anticonformismo. Parallelamente i suoi dischi registrano vendite da record: circa 70 milioni di copie vendute in mezzo secolo di carriera, raccontata attraverso 34 album in studio, 13 live, 14 «best of», e un mix di generi che va dal country al rock, passando per la musica popolare inglese, scozzese ed irlandese.
Dicono molto di lui i numerosi riconoscimenti: 40 dischi di platino, altrettanti d’oro e sette d’argento; 11 Grammy; un Oscar e un Golden Globe per la colonna sonora del film Wonder Boys (2000).
Stimato come un intellettuale a tutto tondo, in grado di anticipare le tendenze culturali di ogni epoca, Dylan è stato più volte tra i candidati al Nobel per la Letteratura.
Nell'aprile del 2008 i prestigiosi premi Pulitzer per il giornalismo e le arti lo hanno insignito di un riconoscimento alla carriera, quale cantautore più influente dell'ultimo mezzo secolo.
Nel 2015 la rivista Rolling Stone lo ha celebrato come il "più grande cantautore di tutti i tempi".
Nel maggio 2016 ha pubblicato l’album “Fallen Angels”, in cui rilegge 12 classici firmati da alcuni dei compositori più acclamati e influenti della storia della musica.
Il 13 ottobre del 2016, l'Accademia svedese gli ha assegnato il Premio Nobel per la Letteratura, con la seguente motivazione: "Per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione della canzone americana".
Assente alla cerimonia ufficiale del 10 dicembre a causa di altri impegni, la consegna è avvenuta sabato 1 aprile 2017 in occasione dell'arrivo della leggenda del rock a Stoccolma, dove sono stati organizzati due suoi concerti.
Inoltre, sulla scorta del lavoro di reinterpretazione iniziato nel 2016 con “Fallen Angels”, Dylan è “tornato” con il primo album triplo della sua vita, “Triplicate”, uscito il 31 marzo scorso per Columbia: 30 versioni di classici della canzone americana divise per tema. Ogni album ne contiene 10. Questi i titoli dei singoli album: “Til The Sun Goes Down”, “Devil Dolls” e “Comin' Home Late”.
Bud Spencer
È stato il “gigante buono” più amato dal pubblico di tutte le età ed insieme al grande amico Terence Hill ha formato una coppia leggendaria nella storia del cinema, premiata nel 2010 con il David di Donatello alla carriera.