EVENTI CULTURALI - MOSTRE - SPETTACOLI



Eventi culturali/ Cinema

 

Le Memorie di Giorgio Vasari: le tante “Vite” del primo storico dell’arte italiano diventano un film. Il 26 e 27 giugno al cinema.   

 

Prendete nota, cari lettori: si avvicina un evento davvero speciale. Il 26 e 27 giugno 2018 infatti arriva nelle sale cinematografiche il film “Le Memorie di Giorgio Vasari”: un viaggio nel tempo attraverso il racconto - in prima persona - dell’avventura umana e artistica del grande pittore e architetto Giorgio Vasari (1511-1574), che fu innanzitutto il primo storico dell’arte italiano. A lui è attribuita tra l’altro la paternità del termine “rinascita” - che diede nome alla più importante corrente pittorica italiana -, e la costruzione del museo d’arte italiano più visitato e più conosciuto a livello internazionale: la Galleria degli Uffizi a Firenze.

La pellicola, diretta da Luca Verdone, è distribuita da Zenit Distribution in collaborazione con Twelve Entertainment.    

 

Chi era dunque Giorgio Vasari? 

 

Nacque ad Arezzo il 30 luglio del 1511, da Antonio Vasari e Maddalena Tacci.

Fin da bambino dimostrò la sua abilità nel disegno. Quando il piccolo Vasari aveva 8 anni nella sua casa fu ospitato il pittore Luca Signorelli, il quale accorgendosi del talento del bimbo disse a suo padre di fargli studiare l’arte del disegno. Fu mandato quindi nella bottega di un pittore francese che lavorava ad Arezzo.

Nel 1523 passò da Arezzo il cardinale Silvio Passerini: Vasari, che oltre al disegno studiava anche le lettere, recitò a memoria davanti all’ospite un intero canto dell’Eneide. L’anno dopo lo stesso cardinale lo accompagnò a Firenze, dove ebbe modo di studiare il disegno con grandi artisti come Andrea del Sarto e Michelangelo.

Nel 1527 i Medici vennero cacciati da Firenze, così il giovane Giorgio, informato anche della morte del padre, decise di tornare ad Arezzo, dove rimase qualche anno senza mai smettere di applicarsi nell’esercizio dell’arte, pur essendo rimasto senza un maestro.

Fra il 1531 e il 1532 soggiornò a Roma, dove ebbe modo di ammirare l’arte antica e le opere di Raffaello e Michelangelo. Ogni giorno andava in giro per la città a copiare sul suo album le opere che vedeva, sapendo che in questo modo avrebbe imparato bene l’arte del disegno. Non si stancava mai di studiare e lavorare perché aveva capito che era l’unico modo per ottenere quello che voleva: diventare un grande artista.

Nel 1532 tornò a Firenze, dove era caduta la seconda Repubblica ed era salito al potere Alessandro de’ Medici. Furono anni di gran lavoro, durante i quali eseguì tra le molte opere anche i ritratti di Lorenzo il Magnifico e del duca Alessandro (1534). Era nel pieno della sua attività e si stava guadagnando la protezione del duca, quando questi fu assassinato: ancora una volta Vasari lasciò Firenze, iniziando un periodo di viaggi e di lavori in diverse città (Bologna, Napoli, Venezia, e Roma).

Durante il suo soggiorno a Roma del 1546 affrescò la sala del Palazzo della Cancelleria, divenuta famosa come la «Sala dei Cento Giorni» - proprio perché riuscì ad affrescarla in soli 100 giorni -. La sera, a conclusione di una giornata di lavoro, andava spesso a cena dal cardinale Alessandro Farnese insieme ad altri amici, anche loro uomini di gran cultura, fra cui Paolo Giovio. E parlando con questi due personaggi nacque l’idea di scrivere le vite degli artisti.

Nel 1550 venne pubblicata la prima edizione delle “Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori”: il libro divenne così famoso che Vasari non smise di lavorarvi, e nel 1568 lo pubblicò nuovamente con molti aggiornamenti e con i ritratti degli artisti all’inizio di ciascuna biografia.

Nel 1555 il duca Cosimo I (salito al potere nel 1537 a soli 17 anni) assunse stabilmente Vasari al suo servizio, affidandogli la direzione dei lavori di ristrutturazione e di decorazione di Palazzo Vecchio. Fu un lavoro lungo e complesso, durante il quale diede prova delle sue grandi capacità non solo di pittore ma anche di architetto, essendo in grado di ristrutturare l’antico edificio facendo molta attenzione all’assetto urbanistico esistente, e aggiungendovi, a partire dal 1560, la costruzione degli Uffizi.

Tutti i palazzi del potere mediceo furono collegati attraverso il famoso “corridoio vasariano”, che partendo da Palazzo Vecchio attraversa gli Uffizi, passa sopra Ponte Vecchio, entra nella chiesa di Santa Felicita ed arriva a Palazzo Pitti.

Il 1574 segnò la fine di un’epoca significativa per la città di Firenze: ad aprile morì Cosimo I e il 27 giugno si spense il suo artista di corte Giorgio Vasari, concludendo così la sua vita dedicata all’arte. 

24/5/2018


Eventi culturali/ Spettacoli

 

L’11 e il 12 maggio OperaCamion “parcheggia” il Don Giovanni di Mozart al Teatro Nazionale di Roma. 

 

Il camaleontico tir “OperaCamion”, un'automotrice che traina un container da cui compaiono magicamente scenografie, orchestre e cantanti - il nuovo ma ormai noto allestimento curato dal Teatro dell’Opera di Roma che porta gratuitamente le più celebri opere in giro per le strade e le piazze romane -, venerdì 11 e sabato 12 maggio 2018 farà una “sosta” al Teatro Nazionale prima dell’arrivo della stagione estiva. Questa volta l’offerta scenica consiste in una versione del Don Giovanni di Mozart ridotta per l’occasione. Una nuova avventura del progetto “Fabbrica” Young Artist del Teatro dell’Opera, che continua a diffondere l'incantevole “verbo” operistico con il meritorio intento di raggiungere un uditorio via via crescente. Sulle note dell’orchestra giovanile dell’Opera di Roma, le voci di un cast internazionale di cantanti racconteranno, tra il serio e il faceto, un Don Giovanni inquieto ed in perenne fuga che catapulterà gli spettatori nel marasma degli intrecci della sua vita fatta di peripezie, sfide, conquiste e abbandoni.

Un “Don Giovanni OperaCamion” sempre pronto dunque a stupire, ammaliare e divertire il pubblico - non solo - delle tante piazze capitoline.        

Per info e prenotazioni: dipartimento.didattica@operaroma.it

Tel: 0648160528-533-312 

 

Nato a Salisburgo, uno dei principali centri dell'allora Impero asburgico (e oggi dell'Austria centro-settentrionale), il 27 gennaio del 1756, Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart dimostrò ben presto le sue doti di genio della musica, componendo già a cinque anni brani per clavicembalo e violino.

Il padre Leopold, un uomo dal carattere austero, permeato di ideali illuministi, schivo e sprezzante, che all'epoca ricopriva l'incarico di maestro di cappella del principe arcivescovo di Salisburgo e celebre violinista compositore, fu il suo primo maestro.

E proprio dagli appunti del padre si apprende che Wolfgang prima dei quattro anni era già in grado di utilizzare una raccolta di esercizi che egli stesso aveva preparato, e che a Wolfgang occorreva solo mezz'ora per eseguirli perfettamente.

Nel 1762 Leopold portò il piccolo Wolfgang e sua sorella Nannerl di undici anni, anche lei bambina prodigio, in giro per le corti d’Europa. Durante il viaggio, Wolfgang compose sonate per violino e clavicembalo (1763), una sinfonia (1764), un oratorio (1766), e l’opera buffa "La finta semplice" (1768).

Nel 1769 Wolfgang viaggiò con il padre per l'Italia, soggiornando e perfezionando gli studi musicali a Milano, Venezia, Bologna, Roma e Napoli. A Milano, per il teatro La Scala, Mozart compone l’opera seria "Mitridate re di Ponto", rappresentata nel 1770, e si avvicina alle composizioni di Sammartini.

A Roma ascolta le polifonie ecclesiastiche, mentre a Napoli prende coscienza dello stile diffuso in Europa.

Finita l'esperienza italiana, torna a Salisburgo e precisamente al servizio dell'iroso arcivescovo Colloredo, che gli lascia la massima libertà di movimento concedendo a Wolfgang di recarsi ancora in Italia per assistere a Milano alla rappresentazione dell’opera "Lucio Silla" (1772).

Da allora fino al 1777, ad eccezione di brevi viaggi a Vienna dove prese lezioni da Haydn e si dedicò allo studio del contrappunto, Mozart restò quasi sempre a Salisburgo.

Sulla spinta del successo ottenuto, nel 1777 lascia l'incarico presso l'Arcivescovo Colloredo e inizia la carriera di musicista autonomo e si reca a Parigi insieme alla madre (che muore proprio in quella città), toccando Manheim, Strasburgo e Monaco e scontrandosi per la prima volta con insuccessi professionali e sentimentali.

Deluso, Mozart, torna a Salisburgo e si dedica alla composizione di sonate, sinfonie e concerti. Qui compone la bellissima "Messa dell'Incoronazione K 317" e l'opera rappresentata a Monaco il 29 gennaio 1781 "Idomeneo, re di Creta", molto ricca dal punto di vista del linguaggio e delle soluzioni sonore, che riscosse un inatteso successo.

L'ultimo decennio della sua breve esistenza è per Mozart il più produttivo e felice per la musica.

Si trasferisce a Vienna, si sposa con Constanze Weber contro il parere di suo padre e, nel 1782, l’imperatore Giuseppe II gli commissiona un’opera. Egli sceglie di scrivere un "singspiel", cioè un’opera in tedesco con dialoghi recitati, su libretto di Gottlob Stephanie; Mozart compone così l’opera buffa "Il ratto dal serraglio".

I contatti con gli impresari e gli agganci con l'aristocrazia, favoriti dal successo dell'opera buffa, gli permettono un'esistenza precaria ma dignitosa.

Fondamentale è il suo incontro con il librettista Da Ponte che darà vita agli immortali capolavori teatrali conosciuti anche con il nome di "trilogia italiana", ossia "Le nozze di Figaro"(1786), "Don Giovanni"(1787) e "Così fan tutte"(1790).

Le prime due opere ottennero successi senza precedenti per l’epoca e fruttarono a Mozart la carica di Kammermusicus dell’imperatore.

Ma nel 1787 la morte del padre arrecò un grave colpo al suo instabile equilibrio economico e psicologico. Il tiepido successo della terza opera - “Così fan tutte” (1790) - fu seguito dalla morte dell’imperatore Giuseppe II.

Il successore, Leopoldo II, pur non essendo interessato alla musica quanto Giuseppe II, nel 1791 per la sua incoronazione commissionò a Mozart l’opera seria "La clemenza di Tito" (su libretto di Metastasio).

Nel 1790 Mozart compose per il teatro il singspiel "Il Flauto magico" - considerato il momento di avvio del teatro tedesco - ma il 5 dicembre del 1791 si spense misteriosamente all'età di soli 35 anni, lasciando incompleto il "Requiem in Re minore", portato a termine dal suo allievo Franz Sussmayr.

La sua preziosa eredità comprende opere di musica sinfonica, sacra, da camera e di vario genere. 

10/5/2018


Eventi culturali/ Mostre

 

Il sequestro Moro, 40 anni dopo. Il MAXXI di Roma lo ricorda così. 

 

A quarant’anni dal rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro, il MAXXI di Roma lo ricorda con l’esposizione di “3,24 mq”: un’opera dell’artista Francesco Arena che riproduce la cella in cui lo statista fu tenuto prigioniero per 55 giorni.

La “cella” di Arena, esposta nelle date del rapimento e del ritrovamento del corpo di Moro, dunque dal 16 marzo al 9 maggio 2018, è in mostra nello spazio della galleria che ospita la collezione permanente, con ingresso libero dal martedì al venerdì. Durante il periodo di esposizione sono inoltre previsti incontri con storici, studiosi, giornalisti e scrittori: per non dimenticare.

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2/5/2018


Eventi culturali/ Musei

 

A Matelica un Museo dedicato a Enrico Mattei 

 

Sabato 7 aprile 2018 è stato inaugurato a Matelica, in provincia di Macerata, presso Palazzo Mattei - già abitazione del fondatore dell’ENI - il Museo dedicato a Enrico Mattei. La struttura museale raccoglie immagini, fotografie, ritagli di giornali, documenti e molti oggetti appartenuti a Mattei, amorevolmente raccolti nel corso del tempo dalla nipote Rosangela, al fine di creare un percorso storico/narrativo che possa rappresentare e appunto raccontare al pubblico l’avventura umana e imprenditoriale di Enrico Mattei. Una vita straordinaria, la sua, che è anche la storia di un giallo.       

  

La vita di Enrico Mattei dunque (Acqualagna, 29 aprile 1906 - Bascapè, 27 ottobre 1962): la storia di un’avventura senza confini. Da operaio a dirigente industriale, da partigiano bianco a commesso dello Stato. Dal rilancio dell’Agip alla sfida del metano, dalla scoperta del terzo mondo alla lotta spietata con le “Sette Sorelle” e con i loro amici italiani. Dai rapporti con la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi alla nascita dell’ENI e del quotidiano “Il Giorno”. 

 

Enrico Mattei, il corruttore incorruttibile che aveva un “debole”: quello di creare lavoro e di assicurare al lavoro italiano energia a buon mercato.

L’uomo che ha operato contro il cartello petrolifero, contro la destra economica, contro l’immobilismo centrista, donando prospettive e spirito di bandiera all’industria dello Stato.

Un uomo che capiva i tempi e che ha guadagnato all’Italia grandi simpatie sotto tanti cieli,offrendo solidarietà, cooperazione e tecnologia avanzata.

Hanno detto di lui che sia morto al momento giusto: ma giusto per chi? Probabilmente per i suoi nemici, proprio nel momento in cui erano ormai vicine e sicure le grandi prospettive dei viaggi in Algeria e in America.

 

Alle 18,50 del 27 ottobre 1962 il Morane Saulnier dell’ENI, con a bordo Enrico Mattei, si mette in contatto con Linate. È partito alle 16,57 da Catania. Riceve dalla torre di controllo i dati sulle condizioni atmosferiche - temperatura 9 gradi, visibilità 600 metri, pioggia - e alle 18,56 l’OK per l’atterraggio. Alle 18,57 comunica: “Raggiunto 2000 piedi”. Poi non parla più, non risponde più. La torre dà l’allarme: scattano i servizi di emergenza.

La prima notizia arriva per telefono, dopo una ventina di minuti, dal brigadiere dei carabinieri della stazione di Landriano, in provincia di Pavia. “Alcuni contadini ci segnalano che un aereo sarebbe precipitato presso Bascapè”. L’autista, in attesa ai cancelli di Linate, e la segretaria, in attesa nell’ufficio di Metanopoli, affermano che sull’aereo in arrivo da Catania c’è Mattei. In attesa con l’autista c’è anche Ottavio Rapetti, una delle guardie del corpo. Pochi giorni prima, durante una partita di pesca Mattei gli ha detto: “Cosa vieni giù a fare tu? Ci vediamo sabato, a Milano, quando torno da Catania”.

Dall’aeroporto partono le telefonate d’ufficio, per le autorità di Milano e per i pezzi grossi di Roma. Da Milano e da Pavia accorrono tante macchine. Cercano Bascapè, tra rogge, cascine, marcite; e dopo Bascapè, sulla destra di un viottolo, la cascina Albaredo, e infine, a duecento passi dalla cascina, l’aereo, e Mattei.

Acqua dal cielo acqua dappertutto; non si vede dove finisce il margine del viottolo e dove comincia la roggia. Si cerca senza speranza, si trova di tutto. I resti dell’apparecchio sono piantonati dai carabinieri: il recupero dei resti umani e dei rottami è difficile e meticoloso. Si sa che a bordo si trovavano Mattei, a destra, e il pilota, Irnerio Bertuzzi, a sinistra. Alle loro spalle, il giornalista americano William Mc Hale.

Disastro o attentato? C’è chi sostiene la teoria dell’incidente, chi quella dell’assassinio.

Poi i funerali di Stato, con messa solenne a Roma, nella chiesa del Gesù. Fra i primi ad arrivare, dopo l’apertura del portone, Giorgio La Pira - all’epoca sindaco di Firenze - che con Mattei aveva “trattato” alcune questioni sindacali per le fabbriche fiorentine della Nuova Pignone.

 

La Commissione d’Inchiesta, nominata il 28 ottobre dal ministro della Difesa Giulio Andreotti, e presieduta dal generale di brigata aerea Ercole Salvi, conclude i suoi lavori nel marzo del 1963.

La relazione - di ben 46 pagine - rileva “diversi elementi che contrastano l’ipotesi dello scoppio in volo”. L’incidente è attribuito “a perdita di controllo in spirale a destra”. L’ipotesi più attendibile per l’incontrollata spinta a destra è quella della “concomitanza di più fattori di natura tecnica e psicofisica”.

La magistratura di Pavia nel 1966 dichiara chiusa la fase istruttoria con pronuncia di “non luogo a procedere”. Risultano pacifici e incontrovertibili cinque punti: “i due reattori erano perfettamente funzionanti allorché l’aereo cadde in stallo; l’incidente si verificò repentinamente a seguito di una improvvisa spirale a destra del velivolo, sfuggito al controllo del pilota; l’aereo giunse a terra integro in tutte le sue strutture; non si verificò alcuno scoppio in volo; gli aerofreni e il carrello di atterraggio erano ancora retratti”. Pertanto: “mancano elementi che possano condurre ad individuare con un certo grado di probabilità la causa del disastro”.

 

Soltanto nel 2005 una nuova indagine - iniziata nel 1997 - ha dimostrato “la natura dolosa dell’incidente”, a seguito del ritrovamento di “segni di esposizione a esplosione su parti del relitto, sull’anello e sull’orologio di Enrico Mattei”.

Ma a tutt’oggi, dopo 55 anni, la sua morte è ancora avvolta nel mistero

 

26/4/2018 


Eventi culturali/ Cinema

 

Maria by Callas : un documentario per raccontare la vita della Divina. 

 

Presentato il 9 aprile in anteprima al Teatro dell’Opera di Roma, dal 16 al 18 aprile arriva nelle sale cinematografiche italiane - distribuito da Lucky Red - “Maria by Callas”, il docu-film firmato dal giovane regista Tom Volf. Un omaggio alla grande, quanto fragile, e indimenticabile soprano: un mito intramontabile dal tragico destino.

Il racconto di una vita straordinaria e del suo tempo dunque, realizzato attraverso un prezioso materiale d’archivio - registrazioni, immagini, lettere, articoli, interviste, reportages, testimonianze - in buona parte inedito, raccolto in oltre tre anni di ricerche.  

 

L’appellativo di Divina dà la misura di ciò che ha rappresentato nel panorama musicale del Novecento. Considerata la più grande cantante lirica di tutti i tempi, Maria Callas ha conquistato i teatri di tutto il mondo con la sua voce inimitabile e la forza drammatica dei personaggi portati in scena. 

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 14/4/2018


Eventi culturali/ Spettacoli 

 

“Rino Gaetano Band”: sabato 21 aprile al Riverside di Roma. 

 

Sabato 21 aprile 2018 alle ore 22, al Riverside di Viale Gottardo, nel cuore del quartiere Città Giardino di Roma - a pochi passi da Piazza Sempione - la “Rino Gaetano Band” - la cover band gestita da Anna Gaetano, sorella del cantautore - presenta “Nuntereggaepiù Tour”: i più grandi successi del cantore del “nonsense”, della canzone solo in apparenza scanzonata, in realtà con una forte valenza ironica legata alla realtà politica e sociale del tempo.

Ingresso: 12 euro inclusa consumazione. 

 

Rino Gaetano dunque (1950-1981): un outsider, un talento che si è conquistato il suo spazio senza mediazioni e concessioni, un artista che con il sorriso sulle labbra e lo sberleffo nelle parole non ha mai smesso di raccontare i vizi e i difetti degli italiani.

A lui il III Municipio della Capitale ha dedicato una via. 

 

Salvatore Antonio Gaetano, in arte Rino Gaetano, nasce il 29 ottobre del 1950 a Crotone e nel 1960 si trasferisce con la famiglia a Roma, nel quartiere Montesacro

 

Aspirante geometra, coltiva i primi interessi artistici più per il mondo del teatro che per quello musicale, recitando la parte della Volpe in una versione di Pinocchio e componendo le prime canzoni alla chitarra con stile sarcastico: un modo di fare musica popolare, poco in linea con la tendenza seriosa e ideologica di quel periodo.

Nei primi anni Sessanta suscita la curiosità di due discografici romani, Sergio Bardotti e Vincenzo Micocci, quest'ultimo proprietario dell'etichetta IT, una creatura della major RCA, per la quale incide nel 1973 un 45 giri con lo pseudonimo di Kammamuri's, personaggio salgariano e suo eroe letterario. Questo singolo conteneva la canzone “I love you Maryanna”, un brano calypso, giocato sul filo del doppio senso: Maryanna come marijuana; il lato B del disco, proponeva invece un brano dixie-charleston intitolato “Jaqueline”.

Il primo 33 giri di Rino Gaetano “Ingresso libero”, pubblicato nel 1974, viene per lo più ignorato ma nel 1975 con il singolo intitolato “Ma il cielo è sempre più blu”, una sorta di filastrocca sui vizi e le contraddizioni della società italiana - quasi una canzone-manifesto - finalmente l'artista rompe l'indifferenza della critica.

Nel 1976 esce l'album “Mio fratello è figlio unico” - che include la famosa, divertente e sarcastica “Berta filava” - imponendo Rino Gaetano come cantautore fuori dagli schemi.

Aveva inserito la satira sociale e politica nella musica pop.

Nel 1977 esce l'album “Aida”, che contiene l'omonima canzone, appassionata e dal sapore un pò amaro, dedicata al Bel Paese e alla sua storia.

L'anno successivo esce il 33 giri “Nuntereggae più” (1978) e, in un periodo nel quale il reggae è poco conosciuto in Italia, ottiene un vero e proprio successo con il singolo estratto intitolato “Gianna”, canzone portata al Festival di Sanremo del 1978, dove Rino si presenta come un classico artista da varietà, indossando frac e cappello a cilindro; ovviamente un’esibizione rara per quel tipo di platea, abituata a distinguere tra cantanti popolari, cantautori impegnati e attori televisivi da spettacolo leggero. Sul palco del Teatro Ariston “Gianna” si piazza al terzo posto, preceduta da “Un'emozione da poco” di Anna Oxa e da “E dirsi ciao” dei Matia Bazar, ma raggiunge il top nelle classifiche di vendita e vi rimane per diverse settimane.

Nel 1979 pubblica l'album intitolato “Resta vile maschio, dove vai?”, con il brano omonimo scritto da Mogol; per il periodo estivo lancia un'altra canzone estratta da questo 33 giri, la divertente ballata intitolata “Ahi Maria”.

Quest'ultimo LP segna per Rino il passaggio dall'etichetta IT alla multinazionale RCA. Seguono diversi tour di successo ma anche l'inizio di una crisi artistica, alla quale Rino Gaetano tenta di dare una svolta attraverso la tournée con Riccardo Cocciante e i New Perigeo, dalla quale sarà tratto un Q-disc live intitolato “Q-Concert”, pubblicato nel 1981.

L'ultimo album inedito di Rino, “E io ci sto”, esce nel 1980 e rimane una sorta di previsione su ciò che le indagini di “Mani pulite”, dopo oltre un decennio, avrebbero messo drammaticamente in luce.

Il 2 giugno del 1981, un incidente stradale sulla Nomentana - immediatamente paragonato a quello di Fred Buscaglione, altro sfortunato “umorista” della canzone - impedirà per sempre di sapere quanto altro ancora avrebbe potuto dire questo moderno “giullare” degli anni Settanta.

Le sue canzoni, in gran parte attuali e spesso riproposte in antologie rievocative, hanno aperto la strada a molti gruppi musicali e artisti più o meno ispirati che hanno fatto - e fanno - umorismo usando parole e musica, anche se in anni sicuramente più facili per la satira e l'ironia.

La grandezza artistica di Rino Gaetano non consiste però solo nel tradurre comicità in musica, seguendo la tradizione del varietà, nel satireggiare personaggi e politica - come i cantastorie popolari e i canzonieri di protesta facevano da tempo - o nell'ironizzare sulle mode e i costumi dell'epoca - come anni prima aveva fatto Fred Buscaglione - ma risiede anche nel fatto che lui ha seguito quella strada quando nessun altro nella musica italiana lo stava facendo, in un decennio dove le hit-parade ospitavano Mogol-Battisti, le piazze ascoltavano i cantautori impegnati e il Paese si preparava agli “Anni di piombo”.

E da allora il pubblico non ha mai smesso di ri-scoprire le sue canzoni. 

 

12/4/2018


Eventi culturali/ Concerti

 

Bob Dylan: viaggio in Italia ad aprile 2018.

 

Ormai è ufficiale: Bob Dylan farà tappa a Roma, all'Auditorium Parco della Musica, con un triplo appuntamento il 3, 4 e 5 aprile 2018.

 

“Sono molto orgoglioso e felice di ospitare un artista così prestigioso e importante a un anno e mezzo dal conferimento del Nobel” - ha dichiarato José Dosal, ad della Fondazione Musica per Roma -. “Un simbolo della musica mondiale, un poeta della song americana che il pubblico italiano sono convinto accoglierà con immenso entusiasmo” - ha poi concluso -.

Il grande artista proseguirà il suo tour sui palcoscenci italiani il 7 aprile al Mandelaforum di Firenze, l’8 al Palabam di Mantova e il 9 al teatro degli Arcimboldi a Milano.

 

In mezzo secolo di carriera vanta circa 70 milioni di copie vendute. Celebrato dalla rivista Rolling Stone come il “più grande cantautore di tutti i tempi” è stato lui il vincitore del Premio Nobel 2016 della Letteratura: “per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione musicale americana”.

Bob Dylan: il ritratto di un'icona culturale evergreen. 

 

Come spesso accade nelle storie dei "grandi", il racconto comincia da una famiglia di umili origini. Quella di Robert Allen Zimmerman proveniva dalla Lituania, da dove era fuggita per scampare alla persecuzione antisemita, trovando dimora a Duluth - cittadina del Minnesota dove il futuro Bob Dylan nasce il 24 maggio del 1941-. Qui il giovane Robert scopre la sua passione per il rock, nel mito di Little Richard ed Elvis Presley. Presto la sua sete di poesia e spiritualità lo porta a cambiare genere, trovando pieno appagamento nel folk.

 

Come lui stesso rivelerà più tardi, le "canzoni popolari" (anche dette folk) “sono colme di disperazione, di tristezza, di trionfo, di fede nel sovrannaturale, tutti sentimenti molto più profondi”. È la musica che più si confà al suo animo inquieto e con quella sale per la prima volta su un palco, imbracciando la chitarra acustica. Tutto ciò accade a New York, dove si trasferisce nel 1961 inseguendo l'idolo Woody Guthrie.

 

Come tante giovani promesse subisce il fascino del Greenwich Village, quartiere simbolo della cultura bohémien americana che si ritrova nei tanti locali e pub mal frequentati della zona. In uno di questi, esattamente il Gerde’s Folk City, il 19enne Robert fa il suo debutto in pubblico. È la sera dell'11 aprile, quando il proprietario del locale, un italoamericano di nome Mike Porco, gli concede di fare da "apri concerto" per il bluesman John Lee Hooker.

 

Nessuno dei presenti sospetta minimamente che quel ragazzo esile e dalla voce gracchiante è destinato a diventare, di lì a qualche anno, un mito della musica. L'anno seguente segna un cambiamento decisivo nella sua vita: cambia nome al tribunale in Robert Dylan e pubblica il primo album con lo pseudonimo che lo accompagnerà per tutta la carriera: Bob Dylan. L'accoglienza del pubblico è freddina e le vendite si risolvono in un mezzo flop.

 

Tutt'altro copione gli riserva il secondo album, The Freewheelin’ Bob Dylan, edito nel maggio 1963. Con esso l'artista si accredita come interprete e soprattutto come autore presso famosi artisti come Joan Baez, che lo vuole accanto a sé nei concerti e per un periodo anche nella vita sentimentale. Sono gli anni del malcontento giovanile verso la politica aggressiva degli USA, che dal clima destabilizzante della guerra fredda porterà agli orrori del Vietnam.

Dylan si fa portavoce di questo sentimento e la celebre Blowin' in the Wind ne diventa il manifesto ideologico.

 

Dalla battaglia per i diritti civili al rifiuto della guerra, la sua musica influenza generazioni di giovani e di colleghi, sempre nel segno dell'anticonformismo. Parallelamente i suoi dischi registrano vendite da record: circa 70 milioni di copie vendute in mezzo secolo di carriera, raccontata attraverso 34 album in studio, 13 live, 14 «best of», e un mix di generi che va dal country al rock, passando per la musica popolare inglese, scozzese ed irlandese.

 

Dicono molto di lui i numerosi riconoscimenti: 40 dischi di platino, altrettanti d’oro e sette d’argento; 11 Grammy; un Oscar e un Golden Globe per la colonna sonora del film Wonder Boys (2000).

 

Stimato come un intellettuale a tutto tondo, in grado di anticipare le tendenze culturali di ogni epoca, Dylan è stato più volte tra i candidati al Nobel per la Letteratura.

 

Nell'aprile del 2008 i prestigiosi premi Pulitzer per il giornalismo e le arti lo hanno insignito di un riconoscimento alla carriera, quale cantautore più influente dell'ultimo mezzo secolo.

Nel 2015 la rivista Rolling Stone lo ha celebrato come il "più grande cantautore di tutti i tempi".  

Nel maggio 2016 ha pubblicato l’album “Fallen Angels”, in cui rilegge 12 classici firmati da alcuni dei compositori più acclamati e influenti della storia della musica.

Il 13 ottobre del 2016, l'Accademia svedese gli ha assegnato il Premio Nobel per la Letteratura, con la seguente motivazione: "Per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione della canzone americana".

Assente alla cerimonia ufficiale del 10 dicembre a causa di altri impegni, la consegna è avvenuta sabato 1 aprile 2017 in occasione dell'arrivo della leggenda del rock a Stoccolma, dove sono stati organizzati due suoi concerti.

Inoltre, sulla scorta del lavoro di reinterpretazione iniziato nel 2016 con “Fallen Angels”, Dylan è “tornato” con il primo album triplo della sua vita, “Triplicate”, uscito il 31 marzo 2017 per Columbia: 30 versioni di classici della canzone americana divise per tema. Ogni album ne contiene 10. Questi i titoli dei singoli album: “Til The Sun Goes Down”, “Devil Dolls” e “Comin' Home Late”.  

 

25/3/2018


Eventi culturali/ Mostre

 

Cinecittà omaggia Monica Vitti: la "diva ironica". Dall'8 marzo al 10 giugno al Quirinale.

 

Cinecittà dedica una grande mostra fotografica e multimediale a Monica Vitti - dal titolo "La Dolce Vitti" - come annunciato alcune settimane fa dal presidente e ad di Istituto Luce Cinecittà, Roberto Cicutto, nel corso della presentazione dei progetti del prossimo triennio. La mostra-omaggio alla musa-icona del cinema italiano, che lo scorso novembre ha compiuto 86 anni - ma che da molto tempo non appare in pubblico - è stata inaugurata l'8 marzo, presso il Teatro dei Dioscuri al Quirinale, ed è visitabile fino al 10 giugno 2018. 

 

Maria Luisa Ceciarelli, in arte Monica Vitti, nasce a Roma il 3 novembre del 1931.

Studentessa presso l’Accademia d’Arte Drammatica esordisce in teatro nel 1953, dando prova delle sue brillanti capacità affrontando Shakespeare e Moliére: poi la televisione.

Commediante versatile, a partire dal 1955 passa dai ruoli comico-brillanti (“Ridere, ridere, Ridere”) a quelli drammatici o, comunque, meno estemporanei e più complessi. Anche sulle scene viene diretta prima da Mario Amendola in “Le dritte” (1958) e poi da Michelangelo Antonioni, di cui è stata dal 1959 musa ispiratrice oltre che interprete e compagna per alcuni anni, ( “Io sono una macchina fotografica di J. Van Druten, “Ricorda con rabbia” di J. Osborne). Nel 1958 si cimenta in  “I capricci di Marianna” di Alfred De Musset, e nel 1964 interpreta “Dopo la caduta” di Arthur Miller.

Tra le performances televisive è da ricordare, su tutte, quella nelle “Notti bianche” di Dostoevskij (di Vittorio Cottafavi, 1962). Ma è il cinema a darle notorietà internazionale con la trilogia di Antonioni, “L’avventura” (1959), “La notte” (1960), “L’eclisse” (1962), conclusa da “Deserto rosso” (1964), in cui trasmette quattro diverse immagini dell’inquietudine e della nevrosi al femminile, in un’analisi di isolamento e decadenza morale della società borghese dell’epoca priva di qualsiasi speranza.

Attrice intensa, sensuale, realmente problematica, scontrosamente eclettica, interprete eccezionale dell’angoscia e del vuoto esistenziale, Monica Vitti preferisce poi la commedia all’italiana, fino ad allora genere monopolizzato dagli uomini, insistendo però nella recitazione con una sfumatura di grottesco, ottenendo grande successo di pubblico. Da “La ragazza con la pistola”, 1968, di Mario Monicelli, nomination all’Oscar come miglior film straniero, a “Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca”, 1970, di Ettore Scola; da “Polvere di stelle”, 1974, con Alberto Sordi, toccante rievocazione del mondo dell’avanspettacolo, a “L’anatra all’arancia”, 1975, di Luciano Salce, con Ugo Tognazzi, adattamento della commedia omonima di Home e Sauvajon, a “Io so che tu sai che io so”, 1982, diretto e interpretato da Alberto Sordi.

Fanno eccezione le parentesi con Jancsó in Italia ( “La pacifista”, 1971), con Buñuel in Francia ( “Il fantasma della libertà”, 1974) e anche la “Tosca” (1973) di Luigi Magni, senza contare il ritorno con Antonioni ne “Il mistero di Oberwald” (1980).

Nel 1984 si aggiudica il premio per la miglior interpretazione femminile al Festival di Berlino con “Flirt”, opera prima di Roberto Russo, da lei anche sceneggiata: dello stesso regista è anche “Francesca è mia” (1986).

In seguito la Vitti varia ed amplia la propria attività, lavorando in teatro ( “La strana coppia”, 1987; “Prima pagina”, 1988) e in televisione.

Nel 1990 scrive, dirige e interpreta il film “Scandalo segreto”, Globo d’oro come regista e come interprete.

 

Nel 1995, alla Mostra del Cinema di Venezia, le è stato assegnato il “Leone d’oro” alla carriera. Dal 2000 non è più apparsa pubblicamente. Affetta da una patologia simile all’Alzheimer, la grande attrice infatti si è ritirata a vita privata da oltre 15 anni.

Il ricordo di questa intramontabile icona del cinema italiano, tuttavia, non sembra essersi per nulla affievolito. 

 

9/3/2018  


Eventi culturali/ Cinema

 

“Pertini - Il combattente”, un documentario sulla vita del Presidente più amato dagli italiani. Dal 15 marzo al cinema. 

 

Tratto dal libro di Giancarlo De Cataldo 'Il combattente - Come si diventa Pertini' (Rizzoli, 2014), diretto a quattro mani dallo stesso De Cataldo con Graziano Diana, prodotto da Anele, in collaborazione con Altre Storie, Sky Cinema e Rai Cinema, il documentario-tributo  al Presidente più amato dagli italiani, dal titolo “Pertini - Il combattente”, arriverà nelle sale il prossimo 15 marzo, distribuito da Altre Storie. Successivamente dovrebbe essere diffuso negli Istituti scolastici di tutto il Paese.  

Sandro Pertini dunque Continua a leggere  

 

8/3/2018


Eventi culturali/ Spettacoli

 

“Se questo è un uomo”: dal 20 al 25 febbraio al Teatro Ghione di Roma. 

 

Dal 20 al 25 febbraio 2018 presso il Teatro Ghione di Roma andrà in scena lo spettacolo “Se questo è un uomo”, tratto dall’omonima opera letteraria di Primo Levi. Reading a cura di Daniele Salvo.

Info: info@teatroghione.it

In un tempo come quello che stiamo vivendo, cieco e sordo alle urla dell’umanità ferita dalle innumerevoli e drammatiche vicende che la caratterizzano, per certi aspetti al limite della conservazione della stessa specie umana, si impone necessariamente una riflessione partendo dai feroci quanto reali racconti dei campi di sterminio da parte di Primo Levi, per non dimenticare. Per ricordare il passato e capire il presente, immaginando un futuro consapevole e grato a chi ha lottato per la dignità dell’uomo su questa terra. Per imparare, in quattro parole: il senso della vita.  

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20/2/2018


Eventi culturali/ Mostre

 

Ultimi giorni per la mostra "Totò Genio": al Museo di Roma in Trastevere fino al 18 febbraio.

 

Realizzata in occasione del cinquantesimo anniversario della sua scomparsa, dopo il grande successo di pubblico e di critica ottenuto a Napoli, la mostra Totò Genio è arrivata nella Capitale, ospitata fino al 18 febbraio 2018 presso il Museo di Roma in Trastevere. Voluta dall'Associazione Antonio de Curtis in arte Totò e dal Comune di Napoli, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, in collaborazione con Istituto Luce, RAI Teche, SIAE e Archivio Centrale dello Stato, l’esposizione ripercorre la grandezza di Totò attraverso documenti personali, cimeli, lettere, disegni, costumi, fotografie, installazioni e testimonianze. Un imperdibile viaggio dunque nel tempo e nell’universo del “principe della risata”.

Info: 060608 - museodiroma.trastevere@comune.roma.it   

 

Antonio De Curtis nasce a Napoli il 15 febbraio del 1898, e fin da piccolo viene chiamato affettuosamente Totò. La mamma, Anna Clemente, è una ragazza madre e per questo viene registrato all’anagrafe come Antonio Clemente, figlio di N.N.

La condizione di “figlio di nessuno” gli ha sempre creato dei complessi, ragion per cui si è delineato in lui un desiderio di “ascendenze chiare e nobili”. Questo desiderio si è concretizzato successivamente con una sorta di acquisizione di titoli nobiliari tramite una sua adozione in età adulta, dietro compenso. Solo nel 1921 Antonio verrà riconosciuto come un De Curtis, dopo il matrimonio della madre con Giuseppe De Curtis.

Durante la difficile giovinezza un pugno gli provoca una notevole deviazione del setto nasale, determinando anche la parziale atrofia che si manifesterà nella sua tipica asimmetria facciale.

Sin da bambino in Totò è viva la passione per il teatro e per i personaggi comici in particolare. Dalle recite familiari al palcoscenico il passo è breve: già a 15 anni debutta in uno dei tanti teatrini napoletani con lo pseudonimo di Clerment.

Durante la Prima guerra mondiale egli conosce le durezze e la stupidità della vita in caserma, ed è da allora che nasce in Totò l’avversione per i cosiddetti “caporali”, persone senza arte né parte che con la forza della propria posizione cercano di imporsi meschinamente sugli altri.

Nel 1918 torna a Napoli e comincia a recitare in piccoli teatri con un repertorio di imitazioni. Dopo quattro anni un clamoroso fiasco lo porta a lasciare la sua città natale per trasferirsi a Roma, dove diventa famoso interpretando la marionetta disarticolata che in seguito riproporrà in alcuni film. Qui nasce il personaggio Totò, con la tipica bombetta logora e il tight troppo largo, sempre alle prese con la povertà e il suo aspetto peggiore: la fame.

Con il successo arrivano anche le donne: molte. Il legame con Liliana Castagnola si risolve addirittura tragicamente, con lei che si toglie la vita dopo un litigio, lasciando Totò molto scosso e addolorato.

Poi, nel 1932 sposa la giovane Diana Rogliani, dalla quale ha la figlia che chiamerà proprio Liliana. Il matrimonio viene annullato già nel 1940, ma la coppia rimane insieme nell’apparenza fino al 1950, per il bene della figlia. Quando l’ex moglie lo lascia definitivamente per un altro uomo Totò scriverà di getto il suo capolavoro, “Malafemmina”.

Intanto cresce il successo, con rappresentazioni teatrali e produzioni cinematografiche. Negli anni Cinquanta scoppia una vera e propria “Totò-mania”.

Nel 1952 conosce Franca Faldini, la compagna di 33 anni più giovane con la quale vivrà fino alla morte.

Di successo in successo Totò lavora con gli attori più grandi del periodo: Eduardo De Filippo, Peppino, Aldo Fabrizi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Walter Chiari, Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Vianello, Fernandel, Macario, Mastroianni, Manfredi e molti altri. Infine, l’importante incontro con il regista Pier Paolo Pasolini gli permette di farsi scoprire dal pubblico come attore di grande sensibilità e intelligenza, in ruoli che incarnano una straordinaria capacità di sarcasmo intersecati a momenti di profonda commozione.

Problemi con il fisco lo costringono a lavorare di continuo e senza sosta, anche quasi cieco a causa di una malattia virale. Il superlavoro e una vita tutt’altro che salutare, caratterizzata da un centinaio di sigarette al giorno inframmezzate da decine di caffè, gli danno il colpo di grazia.

Totò si spegne a Roma il 15 aprile del 1967, in seguito a tre infarti consecutivi.

Il funerale a Napoli vede una intera città in ginocchio. Oltre duecentomila persone daranno il loro saluto a questo artista che è stato, senza dubbio, il più grande comico italiano di tutti i tempi

 

14/2/2018


Eventi culturali/ Spettacolo

 

"Sanremo Special Guest": James Taylor. 

 

Come ampiamente annunciato dalla stampa, questa sera salirà sul palco dell’Ariston.

È proprio lui: James Taylor.

Riconosciuto unanimemente come uno dei “fari” insostituibili della canzone d’autore, Taylor ha contribuito a elevare ad altissimi livelli la grande tradizione della canzone americana.

Considerato il cantautore intimista per eccellenza, la sua scrittura rappresenta una vera e propria esternazione dei problemi propri e generazionali, sociali e urbani.

La sua è una delle voci più profonde, serie e particolari che il mondo della musica pop abbia mai ascoltato.

Ripercorriamo dunque le tappe fondamentali della sua vita e della sua discografia, per celebrare insieme le sue migliori produzioni artistiche, non prima però di aver segnalato le date dei tre concerti di James Taylor in Italia per il 2018: 

il 20 luglio a Lucca in Piazza Napoleone, in occasione del Lucca Summer Festival; il 22 luglio all’Anfiteatro Scavi di Pompei, e il 23 luglio sul prestigioso palco delle Terme di Caracalla, a Roma.

 

I biglietti saranno disponibili in prevendita su Ticketone a partire dalle ore 10 di sabato 10 febbraio.

 

James Taylor nasce a Boston il 12 marzo del 1948 da una famiglia agiata del New England.

La sua è una adolescenza tormentata. Obbligato dai suoi a frequentare il prestigioso college del Milton Accademy, è spesso preda di forti disturbi dell’umore, e per questo viene ricoverato in un ospedale per malattie mentali, a soli 17 anni. Nel marzo del ’67 James lascia l’America e si trasferisce a Londra, nel quartiere di Notting Hill Gate e lì viene scoperto dallo scaltro produttore Peter Asher, che lo porta alla corte dei Beatles.

Paul Mc Cartney intuisce subito il talento del giovane americano e nel 1968 gli produce il primo album, intitolato semplicemente “James Taylor”. Il disco non va bene, anzi passa inosservato dai giovani inglesi, forse troppo distratti a seguire i miti di casa propria. Ma il disco è un buon lavoro, che contiene tra l’altro la splendida canzone autobiografica “Carolina in my mind”.

Dopo il deludente esordio discografico in terra inglese, James ritorna in America e inizia per lui un’era fatta di droga e problemi psicologici con la conseguente risoluzione del contratto con la Apple (la celeberrima etichetta discografica dei Beatles). Ma il suo produttore Peter Asher crede smisuratamente nel suo talento e lo segue fino a New York, dove si stabilisce.

Intanto James passa da un ricovero all’altro, ma finalmente nel natale del ’69 Ascher strappa un contratto con la Warner Bros e Taylor firma il suo secondo album “Sweet baby James”, che contiene il singolo “Fire & rain”, brano di immediato successo che descrive il suo vizio per l’eroina e le esperienze dei vari manicomi.

Nel 1971 esce ”Mud Slide & the Blue Horizon”, nel quale canta la sua più famosa canzone: You've got a friend,  scritta per lui dalla cantautrice Country Carol King. Il suo successo è planetario e da lì in poi saranno solo successi, e ogni disco una perla.

Nel ’72 sposa la bellissima cantante Carly Simon: ben presto diventeranno la coppia più altamente retribuita del mondo dello spettacolo, dopo Richard Burton e Liz Taylor.

Nel 1974 esce uno dei suoi più bei singoli, “Don’t let me be lonely tonight”, dove c’è uno splendido assolo di sax tenore di un “certo” Michael Brecker, scoperta straordinaria di James Taylor che poi rimarrà suo buon amico. E infatti Brecker nel 2001, ormai jazzista affermatissimo, lo chiamerà a cantare questo brano, nel suo disco “Nearness of you”, prodotto da Pat Metheny.

Negli anni ’70 e ’80 James Taylor sarà protagonista assoluto nelle classifiche discografiche mondiali, riuscendo sempre a distinguersi e rinnovarsi con la sua inimitabile eleganza compositiva e interpretativa.

È amato da tanti grandi suoi colleghi. Lo hanno voluto nei loro dischi, Sting, Stevie Wonder, Art Garfunkel, David Crosby, Mark Knopfler, Paul Simon e il grande “Genius” Ray Charles.

Nel 2002 ha pubblicato “October road”, semplicemente splendido: esecuzione perfetta, nei suoni e nel canto.

Nel 2004 è uscito A Christmas Album.

Tra il 2008 e il 2009 ha pubblicato due album di cover dal titolo Covers e Other Covers. 

 

8/2/2018


Eventi culturali/ Mostre 

 

"La vera storia di Anne Frank". Una mostra la racconta alla Biblioteca Ennio Flaiano di Roma.  

 

“Io voglio vivere. La vera storia di Anne Frank” è il titolo della mostra - visitabile fino al 7 febbraio 2018 presso la Biblioteca Ennio Flaiano di Roma - che attraverso 32 pannelli espositivi, realizzati grazie al lavoro della scrittrice Mirjam Pressler, intende guidarci in un viaggio della memoria alla ri-scoperta di un mondo reale che non dobbiamo dimenticare.

Il progetto fa parte di MEMORIA genera FUTURO: un programma di appuntamenti coordinato da Roma Capitale in occasione del Giorno della Memoria 2018.

L'ingresso è libero. 

 

Annelies Marie Frank detta Anne (italianizzata in Anna Frank), nacque a Francoforte sul Meno il 12 giugno del 1929, da una famiglia di patrioti tedeschi di religione ebraica. La sua famiglia era composta dal padre, Otto Heinrich Frank, la madre, Edith Hollander, e la sorella maggiore, Margot Betti Frank.

Il 30 gennaio 1933 Adolf Hitler prestò giuramento come Cancelliere nella camera del Reichstag, meglio noto come Führer und Reichskanzler, e iniziò così la sua ascesa verso la dittatura e le persecuzioni razziali.

Nell’estate dello stesso anno, per effetto delle politiche persecutorie naziste, la famiglia Frank si spostò in Olanda. Il padre, Otto Frank, aprì un’azienda ad Amsterdam e, trovata la giusta abitazione con la moglie, fu raggiunto, prima dalla primogenita Margot, e in seguito, nel febbraio del 1934, da Anna; entrambe erano state ospiti dalla nonna ad Aquisgrana (al confine tra Germania e Olanda).

In breve tempo la famiglia Frank si ambienta e per Anna inizia un periodo felice, anche se destinato a finire presto.

Il 10 maggio 1940 i tedeschi invadono l’Olanda e comincia a girare nell’aria la paura che la persecuzione stia dilagando oltre i confini della Germania.

Nel 1942 le persecuzioni razziali si fanno sempre più forti; Anna Frank e la sua famiglia decidono allora di entrare nella clandestinità per sfuggire ai rastrellamenti nazisti. Si nascondono quindi insieme ad un’altra famiglia di amici, la famiglia Van Peels, e un dentista ebreo di nome Rritz Pfeffer, nell’Achterhuis, uno spazio a due piani posto sopra l’azienda di Otto Frank. La porta d’ingresso all’Achterhuis era nascosta da una libreria e per quanto riguardava il cibo c’erano dei gruppi di amici che, ostili al regime nazista, si preoccupavano di portare cibo e beni di prima necessità ai clandestini ebrei.

Anna Frank e gli altri vissero nascosti per più di due anni, dal 6 luglio 1942 al 4 agosto 1944, e fu durante quel periodo che Anna Frank scrisse il noto diario, che in seguito l’avrebbe resa celebre al mondo come simbolo della Shoah. Raccontò le sue paure, l’ambizione di diventare scrittrice e il passaggio dall’infanzia all’adolescenza con la scoperta di sentimenti verso Peter, il figlio dell’altra famiglia, e i primi conflitti con i propri genitori.

Il 4 agosto del 1944 si concludeva dunque il periodo di costrizione nel nascondiglio e iniziava il viaggio verso l’inferno.

Una donna, di cui non si conosce l’identità, denunciò alla Gestapo la presenza di ebrei in uno stabile al 263 di Prinsengracht: Anna Frank, la sua famiglia e il resto degli inquilini furono arrestati.

Il 2 settembre del 1944 Anna Frank e l’intero gruppo furono caricati su un treno merci con destinazione Auschwitz.

Anna Frank, insieme a sua sorella Margot, trascorse un mese ad Auschwitz-Birkenau e poi fu trasferita nel campo di Bergen-Belsen, dove morì di tifo nel marzo del 1945, un mese prima della liberazione.

L’unico sopravvissuto del gruppo di partenza fu Otto Frank che, dopo essersi ristabilito tornò ad Amsterdam, e lì, Miep, uno degli amici che aveva supportato la clandestinità della famiglia Frank, gli consegnò il diario che Anna aveva scritto durante il periodo nel nascondiglio.

Il padre di Anna Frank, utilizzando il materiale composto dalla figlia e apportando alcune modifiche e cancellazioni, nel 1947 pubblicò l’opera letteraria con il titolo di Het Achterhuis (Il retrocasa).

Solo dopo la morte di Otto Frank (1980), la fondazione Anne Frank di Basilea commissionò alla scrittrice Mirjam Pressler il compito di creare una versione fedele agli scritti di Anna Frank, recuperando le parti che il padre aveva modificato e cancellato; fu così che uscì la versione ufficiale de “Il Diario di Anna Frank”, tradotto in 55 lingue.

Il nascondiglio in cui visse Anna Frank, al 263 di Prinsengracht ad Amsterdam, è stato trasformato in un museo.  

 

26/1/2018


Eventi culturali/ Cinema 

 

“Benedetta follia”: il nuovo film di Carlo Verdone. Un tuffo nel cuore delle donne…e della Capitale. Dall'11 gennaio al cinema!

 

 

Arriverà nelle sale dopo le feste di Natale. Si intitola “Benedetta follia”. 

Stiamo parlando del nuovo lungometraggio di Carlo Verdone, prodotto e distribuito dalla Filmauro di Luigi e Aurelio De Laurentiis, scritto con Nicola Guaglianone e girato nel cuore di Roma, a pochi passi dal Pantheon. Al suo fianco Ilenia Pastorelli - già co-protagonista di Lo chiamavano Jeeg Robot -. A prima vista una “strana coppia”: lui è il proprietario di un negozio di arredi sacri, sempre in camicia bianca e cravatta, dall’aria seria e composta; lei è la nuova aspirante commessa, in pantaloncini e top, destinata a sconvolgere la vita del “principale”, appena mollato dalla moglie. Ma sono tante - Lucrezia Lante della Rovere (la moglie), Maria Pia Calzone, Paola Minaccioni - le straordinarie interpreti femminili che comporranno il puzzle di questa nuova avventura cinematografica a tinte rosa del grande e amatissimo regista romano.

A gennaio 2018 sul grande schermo ci attende dunque...una "Benedetta follia"!

 

 

Nato a Roma il 17 novembre del 1950, Carlo Verdone raggiunge il successo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, con il passaggio dal cabaret alla Tv e poi al grande schermo. Da allora, film dopo film, è diventato quello che è oggi: una stella assoluta del cinema italiano.

Originario del centralissimo rione Regola (tra Ponte Sisto e Campo de’ fiori), in una delle zone più colorate della Capitale, Verdone cresce circondato da un campionario di romanità tra il popolano e il borghese, che saprà poi trasferire nei suoi film. È dal teatro, però, che tutto comincia. In particolare dall’Alberichino, la sala in cui - giovanissimo - Verdone interpreta il suo spettacolo “Tali e Quali”, per una platea praticamente inesistente, ma in cui una sera c’è anche un critico che scriverà grandi cose di lui.

Poi arriva il cabaret in Tv, con “Non Stop”, un programma della Rai che sarà una fucina di talenti della comicità (basti citare il nome di Massimo Troisi). Qui Verdone interpreta alcuni dei suoi irresistibili personaggi (tra cui il bullo di periferia, il bamboccione dallo sguardo attonito, il fricchettone figlio de’ fiori, il forbito nevrotico). E qui lo vede, e ride, anche Sergio Leone.

Il grande regista lo chiama al telefono e chiede di incontrarlo. Tra il burbero e l’affettuoso lo convince a rompere gli indugi e scrivere un film, e mentre ne diventa il produttore gli insegna i trucchi del mestiere di regista. Nasce così “Un sacco bello”, il primo film di Verdone, del 1980, che ottiene un buon successo. Segue “Bianco, rosso e verdone”, un altro classico, dove compaiono altri personaggi che resteranno “mitici”.

Ma è il terzo film, “Borotalco”, del 1982, che si rivela il più importante, quello che Verdone stesso oggi definisce “fondamentale”. In “Borotalco” infatti Verdone decide di rischiare: abbandona le macchiette e interpreta un personaggio unico, non caratterizzato, che regge tutto il film.

Poi seguono le commedie sofisticate, come “Maledetto il giorno che t’ho incontrato”, “Al lupo, al lupo”, senza disdegnare occasionali ritorni alle macchiette delle origini (“Viaggi di nozze”, “Gallo cedrone” e “Grande, grosso e Verdone”).

Il resto della sua filmografia è…Storia del cinema!

Di Verdone attore colpisce l’istinto camaleontico, l’osservazione del quotidiano, lo sguardo attento ai particolari che poi sfocia nella creazione di irresistibili macchiette, surreali, sebbene costruite partendo da situazioni rubate dalla strada.

Di Verdone regista sorprende invece l’attenzione alla scrittura delle sceneggiature, la passione per la musica (fondamentale in tutti i suoi film), l’occhio in grado di catturare tic e nevrosi comuni, l’inventiva che gli permette di creare battute velocemente entrate nel gergo dei ragazzi, l’individuazione di straordinari “caratteristi” (basti pensare alla Sora Lella o a Mario Brega), la capacità dirigere al meglio attori e attrici valorizzandone appieno le qualità.

Dal suo ritratto emergono infine anche alcune caratteristiche personali oltre che professionali, quali l’ammirazione per l’attore Alberto Sordi (con cui ha collaborato e di cui è considerato per certi versi l’erede), fino alla romanità e all’ormai famosa ipocondria, che ne ha fatto una sorta di esperto in diagnosi e conoscenza di ogni posologia medica. 

 

3/1/2018


Eventi culturali/ Spettacoli 

 

Capodanno con Gigi Proietti - e i suoi “Cavalli di battaglia” - all'Auditorium Parco della Musica di Roma. 

 

A grande richiesta, il 31 dicembre Gigi Proietti torna con i suoi “Cavalli di battaglia” nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica di Roma per festeggiare il 2018 insieme al suo affezionatissimo pubblico.

Una contaminazione continua fra generi, uno show brillante e incisivo in cui la comicità abbraccia la drammaturgia e la parodia incontra la canzone. Uno spettacolo accattivante in cui il mimo dà la mano al poeta, mentre sul palco prendono forma e si colorano tipologie umane che è impossibile non riconoscere e nelle quali è impossibile non riconoscersi. Un successo straordinario, uno spettacolo-fiume con all’attivo un numero infinito di repliche teatrali - e televisive - sempre sold out.    

 

Info: auditorium.com 

 

Gigi Proietti è nato a Roma il 2 novembre del 1940. Conseguito il diploma di maturità classica presso il Liceo Ginnasio Augusto si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università La Sapienza di Roma, che abbandona però a 6 esami dalla laurea rivolgendo la sua attenzione alla musica, imparando a suonare il pianoforte, la fisarmonica e il contrabbasso. Nel frattempo inizia a frequentare al Centro Universitario Teatrale un corso di mimica di Giancarlo Cobelli, che apprezza le qualità di questo ragazzo tanto che lo scrittura per uno spettacolo d'avanguardia, "Can Can degli italiani". Come tutti i grandi artisti, la sua carriera inizia con la gavetta nei bar all'aperto, nei piccoli teatri e nei night-club.

Nel 1964 ricopre un ruolo secondario sul palcoscenico con il Gruppo Sperimentale 101 sotto la direzione di Antonio Calenda, dello stesso Cobelli e dello scrittore e sceneggiatore, ancora poco conosciuto, Andrea Camilleri. Il suo primo ruolo lo recita all'aperto, travestito da upupa, nella rappresentazione de "Gli uccelli di Aristofane" (1964) diretto da Giuseppe Di Martino. Nel 1968 ottiene ruoli da protagonista in diversi spettacoli messi in scena dal Teatro Stabile de L'Aquila, tra cui "Il Dio Kurt" di Alberto Moravia e "Operetta" di Witold Gombrovicz.

Il primo, inaspettato successo arriva nel 1970, quando viene improvvisamente chiamato a sostituire Domenico Modugno nella parte di Ademar nella commedia musicale di Garinei e Giovannini, "Alleluja brava gente".

Al cinema ottiene il primo ruolo da protagonista nel film di Tinto Brass "L'Urlo" del 1968, anche se, a causa della censura, il film venne proiettato nelle sale italiane soltanto nel 1974.

L'occasione per lasciare il segno nel mondo della cinematografia arriva nel 1976 con il film "Febbre da cavallo", per la regia di Steno, dove Gigi veste i panni dello sfortunato indossatore Bruno Fioretti, detto Mandrake, appassionato di ippica e di scommesse, che inventa qualsiasi stratagemma per poter giocare, e perdere regolarmente, insieme ai suoi amici Pomata (Enrico Montesano) e Felice (Francesco De Rosa). Nello stesso anno stringe un proficuo sodalizio con lo scrittore Roberto Lerici, insieme al quale scrive e dirige i suoi spettacoli più rinomati e di successo, come "A me gli occhi, please!", riportato in scena nel 1993, 1996 e nel 2000, "Come mi piace" (1983) e "Leggero leggero" (1991). È sicuramente in questo tipo di spettacoli che Gigi ha la possibilità di dimostrare tutta la sua arte esibendosi come monologhista, cantante, imitatore e ballerino. Il successo di pubblico fu inatteso quanto strabiliante, superando agevolmente le 6 serate inizialmente previste per arrivare a quota 300, con oltre 2.000 spettatori di media a riempire i teatri di tutta Italia, ammirato e stimato anche da importanti personalità come Federico Fellini e Eduardo De Filippo.

Nel 1978 istituisce al Brancaccino, una sala prove del Teatro Brancaccio, il Laboratorio di Esercitazioni Sceniche per i giovani attori, una scuola nata come associazione culturale, presieduta da Flavia Tolnai e guidata da un gruppo docente formato da Gigi, Annabella Cerliani, Ugo Gregoretti e Sandro Merli. Il Laboratorio divenne la migliore scuola di recitazione sfornando più attori di successo di qualunque altra, perfino della mitica Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico. Da lì usciranno, per fare qualche nome, Massimo Wertmüller, Pino Quartullo, Rodolfo Laganà, Gianfranco Iannuzzo, Chiara Noschese, Francesca Reggiani, Giorgio Tirabassi, Gabriele Cirilli, Enrico Brignano, Flavio Insinna. Nel frattempo Gigi cerca di trasferire le sue idee anche in televisione, senza incontrare il grande successo che invece ha in teatro, nonostante presenti pregevoli spettacoli quali "Fregoli", "Attore amore mio", "Cyrano a Varadero," con la complicità di Gianni Minà, e soprattutto uno dei migliori spettacoli della storia della televisione, "Fatti e Fattacci" (1975), di Roberto Lerici, per la regia di Antonello Falqui e con Ornella Vanoni, poi vincitore della Rosa d'Oro al Festival di Montreux. In questo spettacolo Gigi interpreta il cantastorie di una scalcinata compagnia di saltimbanchi in un viaggio a puntate attraverso il folklore di quattro città italiane, Roma, Milano, Napoli e Palermo. Alla Sicilia dedica un omaggio in quello stesso anno, cantando in dialetto siciliano la celeberrima "Ballata di Carini", musicata da Romolo Grano e utilizzata come sigla iniziale del film "L'amaro caso della baronessa di Carini", diretto da Daniele D'Anza, con Ugo Pagliai e Janet Agren.

Con le premesse di "Un figlio a metà" e di "Italian Restaurant," in cui lavora con Nancy Brilli, entrambi per la regia di Giorgio Capitani, nel 1996 arriva il grande trionfo della serie televisiva "Il Maresciallo Rocca", creato dalla coppia di scrittori Laura Toscano e Franco Marotta e ancora diretto da Capitani, nella quale l'attore interpreta il ruolo di Giovanni Rocca, vedovo e con tre figli a carico, maresciallo comandante della stazione dei Carabinieri di Viterbo, che tra un caso e l'altro si innamora di una deliziosa farmacista, interpretata da Stefania Sandrelli. La serie, partita in sordina, conquista i favori del pubblico fino a superare agevolmente i dieci milioni di spettatori: il successo è talmente grande che il 30 settembre 2013 Gigi ha ricevuto la cittadinanza onoraria della città di Viterbo. Il colossale successo impone ai due autori, ai registi e al protagonista ben 5 sequel realizzati tra il 1998 ed il 2005.

Gigi interpreta un altro personaggio creato da Toscano e Marotta, "l'Avvocato Porta", in due serie dirette da Franco Giraldi, ma con minor successo. Nel 2005, dopo essere apparso come veterinario in un film diretto da José Maria Sànchez, è uno degli ospiti d'onore nella fortunata trasmissione di Renzo Arbore "Speciale per me - meno siamo meglio stiamo", dove canta 3 sue canzoni, tra le quali la celeberrima "Chi me l'ha fatto fa'", e si produce nella divertente recitazione de "Il lonfo", probabilmente la più nota delle poesie meta-semantiche di Fosco Maraini, recitata successivamente (2007) anche in una puntata della trasmissione "Parla con me", condotta su Raitre da Serena Dandini.

Non si può dimenticare che all'inizio della sua carriera Gigi si era dedicato anche al doppiaggio, dando la sua voce a Gatto Silvestro (in compagnia di Tweety - Loretta Goggi), a Richard Burton, a Richard Harris, a Marlon Brando, passando per Robert de Niro, Dustin Hoffman e Sylvester Stallone nel primo film della celeberrima serie "Rocky". Nel 1992 doppiò anche il famoso personaggio del Genio della Lampada nel film "Aladdin", prodotto dalla Walt Disney Pictures, che ripeterà anche nei due sequel distribuiti soltanto in home video. Si dedica anche alla regia, sia teatrale che televisiva ("Villa Arzilla", 1990, e "Un nero per casa", 1998).

Dal 2001 al 2007 ottiene la direzione artistica del Teatro Brancaccio, finché gli viene improvvisamente "scippata", come commentò lo stesso Gigi, in favore di Maurizio Costanzo. Dopo aver riconsegnato le chiavi del Brancaccio, Gigi si trasferisce al "Gran Teatro" di Tor di Quinto (oggi a Saxa Rubra). Nel 2006 ha portato in tour lo spettacolo "Serata d'Onore", premiato all'Arena di Catanzaro con il "Riccio d'Argento" come migliore spettacolo dell'anno, nella rassegna "Fatti di Musica" ideata e diretta da Ruggero Pegna. 

Dal 2003 è direttore artistico del Silvano Toti Globe Theatre - l’unico palcoscenico elisabettiano d’Italia - situato nel cuore di Villa Borghese.

Della sua vita privata ha sempre mantenuto il massimo riserbo. È sposato con la ex guida turistica svedese Sagitta Alter, dalla quale ha avuto due figlie, Susanna e Carlotta, entrambe avviate nel mondo dello spettacolo: scenografa la prima, cantante la seconda. 

 

Il “mattatore” sta portando in scena - lo ha fatto anche in tv - lo straordinario show d’autore “Cavalli di battaglia”, riscuotendo il consueto successo di pubblico e critica.   

 

30/12/2017


Eventi culturali/ Concerti

 

Riccardo Muti torna a dirigere il Concerto di Capodanno a Vienna. 

 

Per il 2018 dunque non ci sono dubbi: sarà lui a condurre il tradizionale Concerto di Capodanno di Vienna con l'orchestra dei Wiener Philharmoniker: l’evento di classica universalmente più seguito.

Per il grande Maestro Muti si tratta della quinta edizione (1993, 1997, 2000, 2004).

Il concerto verrà trasmesso in oltre 90 paesi del mondo, fra cui l'Italia, in diretta radiofonica, con 50 milioni di spettatori tv. 

 

Appassionato interprete di Mozart e Verdi, Muti ha guidato il Maggio Musicale fiorentino e La Scala di Milano: è apprezzato dalle più grandi orchestre italiane e straniere. Dal maggio 2008 è Direttore Musicale della Chicago Symphony Orchestra. 

 

Nato a Napoli il 28 luglio del 1941, Riccardo Muti studia pianoforte con Vincenzo Vitale diplomandosi con lode presso il Conservatorio di San Pietro a Majella. In seguito, al "Giuseppe Verdi" di Milano consegue il diploma in Composizione e Direzione d'orchestra sotto la guida di Bruno Bettinelli e Antonino Votto. Nel 1967 la prestigiosa giuria del Concorso "Cantelli" di Milano gli assegna all'unanimità il primo posto, portandolo all'attenzione di critica e pubblico. L'anno seguente viene nominato Direttore Principale del Maggio Musicale Fiorentino, incarico che mantiene fino al 1980. Già nel 1971 però Muti viene invitato da Herbert von Karajan sul podio del Festival di Salisburgo, inaugurando una felice consuetudine che lo porterà, nel 2001, a festeggiare i trent'anni di sodalizio con la manifestazione austriaca.

Gli anni Settanta lo vedono alla testa della Philharmonia Orchestra di Londra (1972-1982), dove succede a Otto Klemperer; quindi, tra il 1980 e il 1992, eredita da Eugène Ormandy l'incarico di Direttore Musicale della Philadelphia Orchestra.

Dal 1986 al 2005 è Direttore Musicale del Teatro alla Scala: prendono così forma progetti di respiro internazionale, come la proposta della trilogia Mozart-Da Ponte e la tetralogia wagneriana. Accanto ai titoli del grande repertorio trovano spazio e visibilità anche altri autori meno frequentati: pagine preziose del Settecento napoletano e opere di Gluck, Cherubini, Spontini, fino a Poulenc, che gli valgono il Premio "Abbiati" della critica.

Il lungo periodo trascorso come direttore musicale dei complessi scaligeri culmina il 7 dicembre 2004 nella trionfale riapertura della Scala restaurata, dove dirige l'Europa riconosciuta di Antonio Salieri.

Nel corso della sua straordinaria carriera Riccardo Muti dirige molte tra le più prestigiose orchestre del mondo: dai Berliner Philharmoniker alla Bayerischen Rundfunk, dalla New York Philharmonic all'Orchestre National de France alla Philharmonia di Londra e, naturalmente, i Wiener Philharmoniker, ai quali lo lega un rapporto assiduo e particolarmente significativo, e con i quali si esibisce al Festival di Salisburgo dal 1971.

Invitato sul podio in occasione del concerto celebrativo dei 150 anni della grande orchestra viennese, Muti riceve l'Anello d'Oro, onorificenza concessa dai Wiener in segno di speciale ammirazione e affetto.

Nell'aprile del 2003 viene eccezionalmente promossa in Francia una "Journée Riccardo Muti", attraverso l'emittente nazionale France Musique che per 14 ore ininterrotte trasmette musiche da lui dirette con tutte le orchestre che lo hanno avuto e lo hanno sul podio, mentre il 14 dicembre dello stesso anno dirige l'atteso concerto di riapertura del Teatro “La Fenice” di Venezia.  

Nel 2004 fonda l'Orchestra Giovanile "Luigi Cherubini" formata da giovani musicisti selezionati da una commissione internazionale fra oltre 600 strumentisti provenienti da tutte le regioni italiane. Invitato con l'Orchestra Cherubini dal Festival di Salisburgo, Riccardo Muti presenta per Pentecoste una selezione di opere rare della scuola napoletana del Settecento. Il progetto, iniziato dal 2007 con Il Ritorno di Don Calandrino di Cimarosa, prosegue per cinque anni.

La vasta produzione discografica, già rilevante negli anni Settanta e oggi impreziosita dai molti premi ricevuti dalla critica specializzata, spazia dal repertorio sinfonico e operistico classico al Novecento. Il suo impegno civile di artista è testimoniato dai concerti proposti nell'ambito del progetto "Le vie dell'Amicizia" di Ravenna Festival in alcuni luoghi “simbolo” della Storia, sia antica che contemporanea: Sarajevo (1997 e 2009), Beirut (1998), Gerusalemme (1999), Mosca (2000), Erevan e Istanbul (2001), New York (2002), Il Cairo (2003), Damasco (2004), El Djem (2005), Meknès (2006), Roma (2007), Otranto (2015), Teheran (2017) - solo per citarne alcuni -, con il Coro e l'Orchestra Filarmonica della Scala, l'Orchestra e il Coro del Maggio Musicale Fiorentino e i "Musicians of Europe United", formazione costituita dalle prime parti delle più importanti orchestre europee. 

 

Secondo il giudizio del Maestro Maurizio Balzola: "Il grande contributo dato alla direzione d'orchestra da Muti è l'aver fornito all'ascoltatore esecuzioni di eccezionale pregio filologico: in questo senso risultano insuperabili le sue interpretazioni delle opere di Giuseppe Verdi".  

 

18/12/2017


Eventi culturali/ Spettacoli

 

Massimo Ranieri in “Malìa Napoletana”: dal 18 al 31 dicembre al Teatro Quirino di Roma. 

 

Dal 18 dicembre fino a Capodanno l’instancabile Massimo Ranieri torna sul palcoscenico del Teatro Quirino di Roma con “Malìa Napoletana”: uno spettacolo che ripercorre la storia della canzone napoletana degli anni Cinquanta e Sessanta. Classici della tradizione partenopea che però non mancano di fondersi con melodie d’oltreoceano, generando magici toni jazz.

Insieme a lui sul palco cinque straordinari musicisti: Enrico Rava (tromba e flicorno), Stefano Di Battista (sax alto e sax soprano), Rita Marcotulli (pianoforte), Riccardo Fioravanti (contrabbasso) e Stefano Bagnoli (batteria). È con loro che il grande artista napoletano intraprende questo affascinante viaggio tra modernità e tradizione. Un’entusiasmante avventura musicale da non perdere!

 

Info e prenotazioni: 06.6794585 - biglietteria@teatroquirino.it      

 

Giovanni Calone nasce a Napoli il 3 maggio del 1951. Debutta a soli 13 anni con lo pseudonimo di Gianni Rock, e dopo solo due anni, nel 1966, con il nome d’arte di Massimo Ranieri partecipa alla gara televisiva “Canzonissima”, che quell'anno si intitola Scala Reale. Nel 1967 vince il girone B del "Cantagiro" con "Pietà per chi ti ama”, il suo primo grande successo. Nel 1968 è al Festival di Sanremo con “Da bambino”, in doppia esecuzione con I Giganti. L’anno dopo, 1969, è ancora a Sanremo, in doppia esecuzione con Orietta Berti, con “Quando l’amore diventa poesia”; nell’estate dello stesso anno vince il Cantagiro con “Rose rosse”.

Debutta nel cinema per la regia di Mauro Bolognini in “Metello”, con Ottavia Piccolo e Lucia Bosé, e vince il David di Donatello. Partecipa all’edizione 1969-1970 di “Canzonissima” classificandosi secondo con “Se bruciasse la città”.

Mentre continuano le partecipazioni cinematografiche e televisive esce il suo primo album, Massimo Ranieri. Nel gennaio del 1971 vince “Canzonissima” con “Vent’anni”. Nel 1972 esce l’album ‘O surdato nammurato, registrato dal vivo al Teatro Sistina di Roma con la regia teatrale di Vittorio De Sica, contenente canzoni del repertorio classico partenopeo.

Durante il servizio militare ottiene una licenza per partecipare a “Canzonissima”, bissando con “Erba di casa mia” la vittoria dell’anno precedente. Nel 1974 tiene un recital al Teatro Valle di Roma dal quale viene tratto l’album dal vivo Napolammore. Nel 1975 lavora come attore al cinema e in televisione; l’anno dopo incide un album arrangiato da Eumir Deodato, in cui canta brani del repertorio classico che poi fanno parte della colonna sonora della commedia musicale “Dal primo momento che ti ho visto”, interpretata con Loretta Goggi.

Massimo Ranieri debutta in teatro con "Napoli chi resta e chi parte", due atti unici di Raffaele Viviani, per la regia di Peppino Patroni Griffi. Con lo stesso regista Massimo realizza nello stesso anno la pièce teatrale "In memoria di una signora amica".

Dopo altre due partecipazioni cinematografiche, Ranieri si dedica interamente al teatro. Dapprima unisce le sue forze alla "Nuova Compagnia dei Giovani" di Romolo Valli e Giorgio De Lullo: con loro porta in scena "La dodicesima notte" di Shakespeare e "Il malato immaginario" di Molière. Nel 1980, con "L'anima buona di Sezuan" di Bertold Brecht, per la regia di Giorgio Strehler, è in tour in Europa.

Negli anni Ottanta, dopo il successo del recital “Barnum”, realizza con Maurizio Scaparro del Teatro di Roma lo spettacolo teatrale "Varietà", in cui rievoca i fasti dell'avanspettacolo.

Nei concerti si dedica a un attento recupero del patrimonio musicale napoletano. Le sporadiche esperienze discografiche di quel periodo sono limitate ad un album dedicato all'Odissea.

Il rientro alla canzone coincide con il Festival di Sanremo del 1988, dove stravince con “Perdere l’amore”. Quell’anno inizia anche il serial televisivo “Il ricatto”, che proseguirà fino al 1991. Nel 1989 Ranieri alterna cinema, teatro e musica.

Inizia con un’esperienza teatrale di grande soddisfazione, “Rinaldo in campo”, la commedia musicale scritta da Garinei e Giovannini e interpretata originariamente da Domenico Modugno.

Dal 1990 al 1992 Ranieri si concentra nuovamente sul teatro. Ripropone nella stagione teatrale ‘90-‘91 "Pulcinella", mentre in quella del ‘91-‘92 porta in scena "Liolà" con la regia di Scaparro. Nella stagione successiva, `93-'94, tiene banco con "Teatro Excelsior", un varietà sull'avanspettacolo sempre per la regia di Scaparro, e recita in teatro "L'isola degli schiavi" di Mariveau.

Nel 2001 interpreta il musical, "Il grande campione", che racconta la storia d'amore tra il pugile Marcel Cerdan e la cantante Edith Piaf. Nel settembre del 2001 conduce in televisione lo show “Citofonare Calone”, cui si affianca un nuovo album di classici napoletani rivisitati con l’assistenza di Mauro Pagani e Mauro Di Domenico, “Oggi o dimane”. Lo stesso team pubblica nel 2003 “Nun è acqua”.

Mentre continua l’attività di interprete di fiction televisive, nel 2005 pubblica “Accussì grande”, terzo volume della trilogia napoletana. Nel 2007 esce la doppia antologia con duetti e cover inediti “Canto perché non so nuotare...da 40 anni”. Viene seguito da uno spettacolo teatrale con lo stesso titolo, che diventa un doppio dvd nel 2008. Nel  2009 riceve il premio De Sica per il teatro.

Più recentemente, domenica 6 settembre 2015, Massimo Ranieri è stato ospite d’onore a Modena, in occasione dell’anniversario della morte di Luciano Pavarotti (avvenuta il 6 settembre 2007), nell’ambito del tradizionale concerto gratuito in piazza Grande, intitolato “Col sole in fronte. Modena per Pavarotti 2015”.

Da segnalare inoltre la terza edizione del suo brillante spettacolo musicale televisivo “Sogno o son desto” - a cui è seguito un tour teatrale “Sogno o son desto, in viaggio”, ancora in corso - tornato in onda il sabato sera su Rai Uno a partire dal 16 gennaio 2016, per ben quattro puntate. Uno show, come sempre, denso di sonorità napoletana, ricco di teatro, varietà e di tutta la migliore musica italiana.  

Infine, degna di nota, la sua interpretazione per il grande schermo degli ultimi mesi di vita di Pier Paolo Pasolini, nel film diretto da David Grieco “La macchinazione”, uscito nelle sale il 24 marzo 2016.    

 

Massimo Ranieri dunque: una vita al massimo!

 

19/12/2017


Eventi culturali/ Mostre

 

Cinecittà: 80 anni di storia - italiana - raccontati in una mostra. 

 

Il 28 aprile del 1937 a Roma veniva inaugurato lo stabilimento di Cinecittà: la cittadella italiana della produzione cinematografica.

Per festeggiarne i primi “80 anni”, una grande mostra dal titolo “Cinecittà - Fatti e personaggi tra il cinema e la cronaca” ripercorre le tappe principali della sua emozionante storia, attraverso oltre 150 immagini e filmati forniti dagli Archivi fotografici dell’Istituto Luce e dell’Ansa.

Dal 20 dicembre al 7 maggio 2018 presso il Teatro 1 dei mitici stabilimenti di Via Tuscolana. 

 

Da strumento di propaganda e di "distrazione di massa" nato negli anni bui del regime, Cinecittà diventa in poco tempo la grande fabbrica di sogni made in Italy, capace di tenere testa ai mitici studios hollywoodiani. Oggi, oltre ad essere la più grande città del cinema in Europa, è la memoria storica di ottant'anni di "settima arte".

Dall'inizio degli anni Trenta, il regime fascista intuisce le potenzialità del cinema come strumento di propaganda e adotta una serie di provvedimenti, che hanno l'effetto da un lato di scoraggiare le importazioni di film stranieri, dall'altro di alimentare una produzione locale. Il prodotto finale di questa strategia è la cosiddetta Legge Alfieri del 1939, che istituisce l'Ente Nazionale Industrie Cinematografiche (ENIC).

Nel frattempo, la fine dei vecchi studi Cines nel 1935 - distrutti da un incendio - crea le condizioni per la costruzione di un nuovo e più vasto complesso, rispondente alle ambizioni "imperiali" dell'Italia mussoliniana. La zona in questione viene individuata in un terreno di 500 mila metri quadrati, lungo la via Tuscolana, a 9 chilometri dal centro di Roma. Del progetto vengono incaricati l'architetto Gino Peressutti e l'ingegnere Carlo Roncoroni.

Partiti a gennaio del 1936, i lavori vengono ultimati in appena 15 mesi. Il 28 aprile del 1937 è il giorno dell'inaugurazione e a presiederla è Benito Mussolini. Il complesso che il Duce si trova davanti è qualcosa di completamente inedito in Europa e potrebbe fare invidia agli Americani: 73 edifici (tra cui 16 teatri di posa, dotati delle strumentazioni più all'avanguardia), 40 mila mq di strade e piazze, tre piscine per le riprese sott'acqua, 35mila mq di giardini, 900 dipendenti fissi.

Una vera "città del cinema", di nome e di fatto, dove trovano spazio l'Istituto Luce (memoria storica degli albori del cinema italiano) e il Centro Sperimentale di Cinematografia (ancora oggi la più antica fucina italiana di attori e registi).

Prima pellicola ad uscire dai nuovi studios è Scipione l'Africano (1937) di Carmine Gallone. La censura fascista non consente grande libertà di generi, per cui prevale in questa prima fase un cinema d'evasione, fatto di sentimenti passionali e di uomini forti e risoluti come Amedeo Nazzari e Massimo Girotti.

Il periodo d'oro per Cinecittà arriva negli anni Cinquanta con il filone peplum (termine che nell'antica Grecia indicava la tipica tunica femminile), ossia dei "film storici in costume" (legati al contesto biblico o all'Impero romano), che trovano qui la location ideale: da Quo vadis? a Ben Hur, passando per Gli ultimi giorni di Pompei. Negli stessi anni escono i primi capolavori firmati da Luchino Visconti, Vittorio De Sica e Federico Fellini, destinati a fare scuola nei decenni a venire.

In 80 anni di vita vengono girati oltre tremila film, di cui 47 ricevono l'ambito Premio Oscar.

In questo arco di tempo il complesso di via Tuscolana ha conservato il suo primato europeo, tenendosi al passo con il progresso tecnologico; dal 2001, ad esempio, è stato aperto uno spazio interamente dedicato al digitale, con attrezzature tra le più sofisticate in campo mondiale.

Il ruolo di memoria storica del cinema italiano e internazionale si è confermato negli ultimi anni, soprattutto attraverso il prezioso lavoro del centro per il restauro e recupero di pellicole, sia in bianco e nero che a colori. 

18/12/2017


Eventi culturali/ Spettacoli 

 

Miseria e Nobiltà 2.0: fino al 7 gennaio al Teatro Ghione di Roma. 

 

Al Teatro Ghione di Roma va in scena, fino al 7 gennaio 2018, una rilettura versione 2.0 - riscrittura e regia di Giuseppe Miale De Mauro - di Miseria e Nobiltà: un grande classico del teatro italiano di Eduardo Scarpetta che si può tranquillamente definire ancora contemporaneo, essendo una "macchina comica" in grado di raccontare diacronicamente - attraversando dunque il tempo - questioni e ambiti che fanno parte del nostro attuale vissuto.

Perché, oggi più che mai, la miseria è vera ma la nobiltà è sempre più una farsa. 

 

Info e prenotazioni: 06 6372294 - 06 39670340 - info@teatroghione.it

 

Eduardo Scarpetta nacque a Napoli il 13 marzo del 1853; il padre Domenico Scarpetta era un impiegato statale, la madre Emilia Rendina era casalinga. Aveva tre fratelli: Enrico, Giulia e Gilda. Gilda fu l’unica a seguire l’esempio del fratello e fu attrice nelle compagnie dirette da lui dirette.

 

Eduardo Scarpetta, in conseguenza di sopraggiunte cattive condizioni economiche della famiglia, a soli 15 anni entrò nella compagnia teatrale di Antonio Petito, il famoso “Pulcinella”; fu nel ruolo di “Felice Sciosciammocca”, compagno di disavventure di “Pulcinella”.

 

Dopo la morte di Petito, Scarpetta lasciò la compagnia, essendo in disaccordo con il nuovo capocomico. Per qualche anno si esibì al Teatro Metastasio, sul molo di Napoli, dove rappresentò sue commedie.

 

Nel 1880 rilevò il teatro S. Carlino, che stava per chiudere, lo rinnovò completamente per riaprirlo nel settembre dello stesso anno. Il S. Carlino era situato a piazza Castello nei pressi del Maschio Angioino, dove una volta vi erano alcuni edifici; a inizio Novecento furono demoliti insieme al teatro, per fare posto alla nuova piazza Municipio.

 

Scarpetta, con la sua compagnia, rappresentò commedie sue e di Petito, trasformando il tradizionale teatro comico partenopeo in “vaudevilles” in salsa napoletana; ebbe un travolgente successo facendo ogni sera il pieno di spettatori. Rappresentava uno spettacolo che si rifaceva alla commedia brillante parigina, ma con canovacci completamente originali e nella tradizione locale.

 

Tra le numerosissime commedie scritte da Scarpetta ricordiamo per la loro notorietà e perché da alcune di esse sono stati tratti famosi film con protagonista Totò: “Na santarella”, “Miseria e Nobiltà”, “Lo scarfalietto”, “Nu turco napulitano”, “O miereco de’ pazzi”.

 

Nel 1876 Eduardo sposa Rosa De Filippo, dopo sette mesi nacque un bambino, Domenico; la voce popolare, che lui non smentiva, diceva che Domenico era in realtà figlio di Vittorio Emanuele II, con cui Rosa aveva avuto una relazione.

Un giorno, durante una rappresentazione, a un “tiene e’ corne!” proveniente dalla galleria del teatro, rispose: “Si, è o’ vero; ma o’ contrarie e te, e’ mie so’ corne reale”. Domenico fu l’unico figlio di Scarpetta a non fare l’attore; questa fu una condizione imposta dalla casa reale che in cambio assegnò una pensione al piccolo.

 

Nello stesso anno nacque Ernesto Murolo, figlio di Vincenzo Murolo e della moglie Maria Palumbo ma, secondo voci non accertate, figlio naturale di Eduardo Scarpetta. Ernesto, che nel frattempo era diventato un famoso poeta, alla morte del padre Vincenzo Murolo fu costretto ad una causa civile nei confronti dei parenti a causa di contrasti sull’assegnazione dell’ingente eredità lasciata dal defunto. Ernesto Murolo vinse la causa e, divenuto ricchissimo, poté coltivare la sua passione per la poesia e mantenere la moglie Lia Cavalli, figlia di un pittore toscano, e i suoi sette figli nella casa di via Cimarosa 25 al Vomero, senza preoccupazioni economiche. Fu padre di Roberto Murolo, poeta e cantante.

 

Nel 1878 Scarpetta ebbe dalla moglie un altro figlio, Vincenzo, che seguì le orme del padre calcando le scene. Ebbe anche una bambina, Maria, nata da una relazione extraconiugale con Francesca Giannetti, maestra di musica; dopo qualche anno lui e la moglie la adottarono poiché nel frattempo era stata abbandonata dalla madre.

 

Con il travolgente successo delle sue rappresentazioni al S. Carlino, e la conseguente agiatezza raggiunta, poté farsi costruire un palazzo a Via Vittorio Colonna 4 (Palazzo Scarpetta), dove andò ad abitare con tutta la famiglia che continuava ad allargarsi. Si fece anche costruire una villa sulla collina del Vomero, in via Luigia Sanfelice 16, che chiamò “La Santarella” dal nome di una delle sua commedie di maggior successo “na santarella”; sulla facciata fece incidere il motto “qui rido io”.

 

Ogni anno, nella sua villa “La Santarella”, organizzava una grande festa in occasione del compleanno della figlia a cui partecipavano attori, registi, giornalisti, poeti; queste feste erano diventate famose a Napoli perché si concludevano con un superbo spettacolo di fuochi artificiali che, data la posizione della villa sul bordo della collina, era visibile da tutta la città.

 

Da una relazione con la nipote della moglie, Luisa De Filippo, figlia di un fratello della stessa, Scarpetta ebbe tre figli: Titina, Eduardo e Peppino, tutti e tre famosi attori che calcarono le scene dei maggiori teatri italiani e parteciparono a un gran numero di film. Eduardo e Peppino, in particolare, scrissero numerose commedie, e parteciparono anche a diversi lavori trasmessi dalla televisione. Eduardo fu nominato senatore della Repubblica.

 

Scarpetta ebbe anche una relazione con Anna De Filippo, sorellastra della moglie Rosa, dalla quale nacquero Eduardo De Filippo, in arte Eduardo Passarelli, e Pasquale De Filippo.

 

Dal 1904 il suo successo incominciò a scemare a seguito dell’accusa di aver copiato la sua commedia “La Figlia di Jorio” dall’omonimo lavoro di Gabriele D’Annunzio. Scarpetta non negò le somiglianze, affermando che lo scopo del suo lavoro era quello di essere una parodia comica della tragedia del vate. Subì una causa a questo riguardo che vinse, anche a seguito di una perizia a lui favorevole fatta, su incarico del tribunale, da Benedetto Croce.

 

Nel 1909, dopo aver interpretato la commedia “La regina del mare” scritta dal figlio Vincenzo, si ritirò dalle scene.

Si spense a Napoli il 29 novembre del 1925, all’età di 72 anni. 

 

13/12/2017


Eventi culturali/ Spettacoli

 

“Antonio De Curtis…in arte Totò”. Tributo a 50 anni dalla scomparsa. Dal 7 al 10 dicembre al Teatro degli Audaci di Roma. 

 

Nel cinquantesimo anniversario della morte dell’immenso Totò, Enzo Decaro - un altro napoletano doc - rende omaggio all’indimenticabile “Principe della risata” mettendo in scena, con la figlia Liliana De Curtis, lo spettacolo “Antonio De Curtis…in arte Totò”: un amorevole tributo alla memoria di un grande artista, genio del teatro. Uno straordinario viaggio nel mondo poetico e musicale di Totò.

Dal 7 al 10 dicembre al Teatro degli Audaci (Roma). 

 

Info e biglietti: 06 9437 6057  

 

Antonio De Curtis nasce a Napoli il 15 febbraio del 1898, e fin da piccolo viene chiamato affettuosamente Totò. La mamma, Anna Clemente, è una ragazza madre e per questo viene registrato all’anagrafe come Antonio Clemente, figlio di N.N.

La condizione di “figlio di nessuno” gli ha sempre creato dei complessi, ragion per cui si è delineato in lui un desiderio di “ascendenze chiare e nobili”. Questo desiderio si è concretizzato successivamente con una sorta di acquisizione di titoli nobiliari tramite una sua adozione in età adulta, dietro compenso. Solo nel 1921 Antonio verrà riconosciuto come un De Curtis, dopo il matrimonio della madre con Giuseppe De Curtis.

Durante la difficile giovinezza un pugno gli provoca una notevole deviazione del setto nasale, determinando anche la parziale atrofia che si manifesterà nella sua tipica asimmetria facciale.

Sin da bambino in Totò è viva la passione per il teatro e per i personaggi comici in particolare. Dalle recite familiari al palcoscenico il passo è breve: già a 15 anni debutta in uno dei tanti teatrini napoletani con lo pseudonimo di Clerment.

Durante la Prima guerra mondiale egli conosce le durezze e la stupidità della vita in caserma, ed è da allora che nasce in Totò l’avversione per i cosiddetti “caporali”, persone senza arte né parte che con la forza della propria posizione cercano di imporsi meschinamente sugli altri.

Nel 1918 torna a Napoli e comincia a recitare in piccoli teatri con un repertorio di imitazioni. Dopo quattro anni un clamoroso fiasco lo porta a lasciare la sua città natale per trasferirsi a Roma, dove diventa famoso interpretando la marionetta disarticolata che in seguito riproporrà in alcuni film. Qui nasce il personaggio Totò, con la tipica bombetta logora e il tight troppo largo, sempre alle prese con la povertà e il suo aspetto peggiore: la fame.

Con il successo arrivano anche le donne: molte. Il legame con Liliana Castagnola si risolve addirittura tragicamente, con lei che si toglie la vita dopo un litigio, lasciando Totò molto scosso e addolorato.

Poi, nel 1932 sposa la giovane Diana Rogliani, dalla quale ha la figlia che chiamerà proprio Liliana. Il matrimonio viene annullato già nel 1940, ma la coppia rimane insieme nell’apparenza fino al 1950, per il bene della figlia. Quando l’ex moglie lo lascia definitivamente per un altro uomo Totò scriverà di getto il suo capolavoro, “Malafemmina”.

Intanto cresce il successo, con rappresentazioni teatrali e produzioni cinematografiche. Negli anni Cinquanta scoppia una vera e propria “Totò-mania”.

Nel 1952 conosce Franca Faldini, la compagna di 33 anni più giovane con la quale vivrà fino alla morte.

Di successo in successo Totò lavora con gli attori più grandi del periodo: Eduardo De Filippo,PeppinoAldo FabriziVittorio GassmanUgo TognazziWalter ChiariAlberto Sordi,Vittorio De SicaVianello, Fernandel, Macario, MastroianniManfredi e molti altri. Infine, l’importante incontro con il regista Pier Paolo Pasolini gli permette di farsi scoprire dal pubblico come attore di grande sensibilità e intelligenza, in ruoli che incarnano una straordinaria capacità di sarcasmo intersecati a momenti di profonda commozione.

Problemi con il fisco lo costringono a lavorare di continuo e senza sosta, anche quasi cieco a causa di una malattia virale. Il superlavoro e una vita tutt’altro che salutare, caratterizzata da un centinaio di sigarette al giorno inframmezzate da decine di caffè, gli danno il colpo di grazia.

Totò si spegne a Roma il 15 aprile del 1967, in seguito a tre infarti consecutivi.

 

Il funerale a Napoli vede una intera città in ginocchio. Oltre duecentomila persone daranno il loro saluto a questo artista che è stato, senza dubbio, il più grande comico italiano di tutti i tempi

 

5/12/2017


Eventi culturali/ Spettacoli 

 

“Croce e delizia, signora mia…”: Simona Marchini racconta la "trilogia popolare" di Giuseppe Verdi. Dal 7 al 10 dicembre al Teatro Parioli di Roma. 

 

“Croce e delizia, signora mia…”: il racconto di tre storie appassionanti, “Traviata”, “Rigoletto” e “Trovatore”, la cosiddetta "trilogia popolare" del grande musicista e compositore Giuseppe Verdi, che ha saputo interpretare con le sue opere lo spirito del Risorgimento italiano.

Simona Marchini, con la sua verve ironica ed elegante - coinvolgendo l’arte raffinatissima di Paolo Restani che descrive al pianoforte temi verdiani attraverso la parafrasi di Liszt - corre dunque con coraggio e rara maestria lungo il filo che lega la Storia all’identità culturale del nostro Paese, facendo avvicinare il pubblico, con leggerezza entusiasmo e partecipazione ad un genere troppo spesso erroneamente ritenuto ostico come la lirica.

Dal 7 al 10 dicembre al Teatro Parioli (Roma).

 

Info e prenotazioni: tel. 06 8073040 - www.parioliteatro.it 

 

 

Giuseppe Fortunino Francesco Verdi, uno dei maestri più celebri della storia della musica, nasce a Roncole di Busseto, in provincia di Parma, il 10 ottobre del 1813 da una famiglia di umili origini. Dotato fin da bambino di un vivo interesse per la musica, Giuseppe si esercita su una piccola “spinetta” e inizia gli studi musicali con il maestro della banda di Busseto mentre aiuta i genitori nella loro osteria. Successivamente compone i primi brani per la Società Filarmonica. Nel gennaio del 1831 vince una borsa di studio e con un sussidio studia privatamente a Milano; tenta quindi di entrare nel Conservatorio milanese ma viene respinto. Ritornato a Busseto, diventa maestro di musica del comune e direttore della banda.

Il 4 maggio 1835 sposa Margherita Barezzi, dalla quale ha due figli: Virginia e Icilio. Ma per Verdi gli anni che seguono sono caratterizzati da una serie di sciagure: nel giugno del 1840 muore la moglie e nell’arco di poco tempo perde anche i figli. Intanto esordisce con l’opera “Oberto, Conte di San Bonifacio”, che viene rappresentata con discreto successo al Teatro alla Scala di Milano il 17 novembre 1839, mentre la sua seconda opera, “Un giorno di regno”, fallisce miseramente alla Scala il 5 settembre del 1840. Il 9 marzo 1842 però “Nabucco”, simbolo dell’autentico spirito patriottico ed eroico del Risorgimento italiano, riscuote, sempre alla Scala, un successo strepitoso. Tra il 1844 e il 1850 il grande maestro compone ben undici opere, tra cui “Ernani”, “I due Foscari”, “Macbeth” e “I Masnadieri” - prima opera scritta per i teatri stranieri, rappresentata a Londra dove incontra Giuseppe Mazzini -.

A Parigi frequenta i circoli rivoluzionari e inizia a convivere con Giuseppina Strepponi, noto soprano e interprete delle sue opere. Tornato ancora a Busseto compone la sua “trilogia popolare”, i tre capolavori più famosi: “Il Rigoletto” nel 1851; “Il Trovatore” e “La Traviata” nel 1853. Seguono “I Vespri siciliani” nel 1855, “Simon Boccanegra” nel 1857 e “Un ballo in maschera” nel 1858. Il 29 agosto dello stesso anno il grande compositore, raggiunta l’agiatezza, sposa la sua compagna Giuseppina Strepponi e si stabilisce a S. Agata, vicino Roncole. Verdi è inoltre molto attivo politicamente: infatti di li a breve si reca con una delegazione a Torino, dove incontra Vittorio Emanuele II. Nel 1861 viene eletto deputato al primo Parlamento italiano e, incoraggiato da Cavour, torna nel capoluogo piemontese per la proclamazione del Regno d’Italia.

I suoi successi musicali proseguono con “La forza del destino”, nel 1862, con “Aida”, al Cairo nel 1871 - che segna l’apertura ufficiale del canale di Suez - e con “Messa da requiem” nel 1874 - che dedica alla memoria di Alessandro Manzoni -. Verdi si ripresenterà al grande pubblico dopo un lungo silenzio, quasi “ottuagenario”, con “Otello” nel 1887. Il 9 febbraio del 1893 va in scena alla Scala l’ultima opera del grande artista: “Falstaff”. Il 14 novembre 1897 muore Giuseppina Strepponi.

Giuseppe Verdi si spegne a Milano il 27 gennaio del 1901: il giorno dopo i giornali annunciano la sua morte. L’ “Avanti!” scrive che Verdi: “era l’ultima reliquia del patrimonio morale tramandatoci dalla rivoluzione eroica”, mentre la “Tribuna” di Roma sottolinea che: “l’arte di Verdi, violenta e colorita come la rivoluzione, calda ed acuta come la battaglia, era stata la ragione stessa del nostro Risorgimento”. È sepolto nella Casa di Riposo dei Musicisti, da lui stesso fondata.

 

Simbolo per eccellenza del Risorgimento italiano, Verdi ha lasciato il suo “marchio” risonante nel mondo della musica classica, avendo offerto ricchezza e profondità all’arte musicale italiana non solo del XIX secolo, ma di tutti i tempi. Oggi, la riscoperta di quei valori di libertà che hanno animato l’Ottocento italiano e di cui Verdi è stato protagonista, costituisce la lezione più alta della musica verdiana. È il caso quindi di ripetere ancora, come i patrioti del Risorgimento: Viva Verdi. 

 

5/12/2017


Eventi culturali/ Presentazioni 

 

Audrey Hepburn: “Immagini di un'attrice”.

Il 6 dicembre al Bibliocaffè Letterario di Roma. 

 

Mercoledì 6 dicembre, alle ore 19, presso il Bibliocaffè Letterario, in Via Ostiense 95 (Roma), si terrà l'incontro con la giornalista e scrittrice Margherita Lamesta Krebel, esperta di cinema e teatro, per la presentazione del libro “Audrey Hepburn - Immagini di un'attrice", pubblicato da Tabula Fati nella collana Maschera e volto.

Un lavoro assolutamente inedito che racconta un'interprete dal fascino e dal talento singolari e ineguagliabili, icona di stile e generosità, tanto da essere stata proclamata nel 1999, dall'American Film Institute, "la terza più grande attrice di sempre" dopo Bette Davis e l'omonima Katherine. Il suo sorriso e l'innata eleganza ancora oggi continuano ad affascinare il pubblico di ogni età.

Il saggio biografico sulla indimenticabile “diva” - tra le più leggendarie di Hollywood - è arricchito da dieci tavole disegno esclusive di Valerio Piccioni, disegnatore ufficiale di Bonelli editore per i fumetti Julia e Dylan Dog. 

 

Nata a Bruxelles il 4 maggio del 1929, ma con la cittadinanza britannica, Audrey Kathleen Ruston - Hepburn, cognome della nonna materna, fu aggiunto in seguito - trascorse l’infanzia tra il Belgio, il Regno Unito e i Paesi Bassi, spostamenti dovuti al lavoro paterno.

In Olanda, dopo aver vissuto gli anni duri dell’occupazione nazista, patendo la fame e vivendo stentatamente - esperienza che le fece maturare più tardi il desiderio di impegnarsi per l'UNICEF - si trasferì prima ad Amsterdam, poi a Londra, dove continuò a prendere lezioni di danza.

Il primo film arrivò nel 1951, “One Wild Oat”, dopo aver avuto piccole esperienze in musical teatrali. Durante le riprese di “Monte Carlo Baby”, dove Audrey interpretava un piccolo ruolo di attrice, fu notata dalla scrittrice Colette, che la scelse come protagonista per la versione teatrale del suo romanzo “Gigi”. La commedia riscosse un discreto successo di critica, ma ciò che più colpì fu l'interpretazione della Hepburn, per la quale vinse il premio Theatre World Award per il suo debutto.

Nel 1952 arrivò la grande occasione: fu scelta per affiancare Gregory Peck nel film Vacanze romane di William Wyler. Interpretazione che le valse, nel 1954, l'Oscar come "migliore attrice protagonista".

A proiettarla nel firmamento di Hollywood fu il successivo ruolo da protagonista in Sabrina di Billy Wilder - accanto a Humphrey Bogart e William Holden - con cui sfiorò di nuovo l'ambita statuetta.

Fu candidata all’Oscar per il film “La storia di una monaca” del 1959 e Colazione da Tiffany del 1961 e, nel 1964, interpretò Eliza Doolittle, uno dei suoi ruoli più famosi, nel film musicale “My Fair Lady”.

Impegnata a lungo come ambasciatrice dell'UNICEF, per aiutare i bambini vittime della guerra, si spense il 20 gennaio del 1993 a Tolochenaz, in Svizzera, all’età di 64 anni, dopo una lunga battaglia contro il cancro. Nello stesso anno, il figlio Sean fondò l'Audrey Hepburn Children's Fund per favorire la scolarizzazione nei Paesi africani.

Tra i numerosi riconoscimenti, oltre alla stella sulla celebre Hollywood Walk of Fame, poco prima che morisse le fu assegnato l'Oscar umanitario "Jean Hersholt". 

 

4/12/2017


Eventi culturali/ Cinema 

 

“La ruota delle meraviglie”: il nuovo film di Woody Allen. Dal 13 dicembre al cinema. 

 

Un cast di tutto rispetto composto da Kate Winslet, Jim Belushi, Juno Temple e Justin Timberlake. Una storia ambientata negli anni ‘50, a Coney Island (Brooklyn), che racconta le vite di quattro personaggi che si intrecciano sullo sfondo del frenetico mondo di un parco divertimenti. Il titolo? “La ruota delle meraviglie”.

È il nuovo film scritto e diretto dall’instancabile e amatissimo regista americano Woody Allen.

Il lungometraggio - prodotto da Amazon Studios - debutterà negli Stati Uniti il 1° dicembre 2017 - in coincidenza dunque con l’82° compleanno del grande Woody - e arriverà nelle sale italiane alle porte del Natale,  mercoledì 13 dicembre, distribuito da Lucky Red.  

 

Nato a New York il 1° dicembre del 1935, Woody Allen, nome d’arte di Heywood Allen, proviene da una famiglia ebraica. A 15 anni è già autore di strisce per la cronaca rosa e, dato il successo dei suoi scritti, decide di abbandonare gli studi per tentare la strada del cabaret. Comincia quindi a esibirsi nei nightclub con un discreto seguito di fan.

Nel 1961 inizia a lavorare come stand-up comedian al Greenwich Village, continuando a scrivere testi per la televisione (“Tonight” nel 1964) e per riviste come “New Yorker”, “Playboy” ed “Esquire”. Fino a quando scrive la sceneggiatura di “Ciao, Pussycat” (1965), film poi diretto da Clive Donner che lo scritturerà anche come attore, decretando il suo debutto nel mondo del grande schermo. La farsa erotica del film è brillante e Woody decide di continuare per questa strada: sua è la sceneggiatura di “Provaci ancora, Sam” (portato sul grande schermo da Herbert Ross nel 1972) che lo vede protagonista di una delle interpretazioni più memorabili della sua carriera.

Nel 1969 esordisce alla regia con “Prendi i soldi e scappa” (1969), parodia del genere gangsteristico e di un certo stile narrativo proveniente dal cinema di Jean-Luc Godard, in cui interpreta un impacciato imbroglione che prende spunto, da un lato, dallo stereotipo dello “schlemiel” della tradizione ebraica e, dall’altro, dalle battute “no-sense” di Groucho Marx. Il risultato è un surrogato di gag pensate e colte (moltissimi i riferimenti psicoanalitici e letterari) che colpirà positivamente il pubblico americano. Seguono alcuni film di carattere più esplicitamente comico: il fantapolitico “Il dittatore dello stato libero di Bananas” (1971) e “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere” (1972), oltre alla parodia fantascientifica de “Il dormiglione” (1973) con una bravissima Diane Keaton. 

La comicità di Woody non è mai fine a se stessa, è ricca di citazioni ed evocazioni intellettuali. Con “Amore e guerra” (1975) il piacere dei rimandi esplode nell’omaggio a “Guerra e pace” di Tolstoj, pretesto per riproporre la maschera yiddish dello “schlemiel”, che riutilizzerà anche l'anno dopo ne “Il prestanome” (1976), firmato Martin Ritt. 

La consacrazione autorale arriva con “Io e Annie” (1977), intelligente commedia stile anni ‘40 dall’evidente marchio autobiografico, che polemizza con Hollywood alla quale contrappone una nevrotica e insicura New York. Per le strade della Grande Mela nasce, tentenna, sbanda e si conclude l’amore tra due intellettuali, interpretati da Woody e Diane Keaton che, proprio in quel periodo, stava mettendo fine alla loro vera storia d’amore. Con 5 Oscar portati a casa, Woody riceve consensi anche da quella fetta di pubblico americano che lo aveva snobbato fino a quel momento.

Appassionato di musica jazz fin da ragazzino, il regista inserisce in “Manhattan” (film che viene considerato il sequel di “Io e Annie” soprattutto per l’omaggio alle atmosfere malinconiche di New York), la musica di Gershwin per raccontare un’altra storia di nevrosi e amori inconcludenti.

 

Nel 1978 realizza come regista “Interiors”, film dalle atmosfere crepuscolari che, come i successivi “Settembre” (1987), “Un'altra donna” con una intensa Gena Rowlands (1988) e, in parte, “Alice” (1990), rende esplicito omaggio a Ingmar Bergman, uno dei suoi registi preferiti, insieme a Federico Fellini al quale guarda per la costruzione di “Stardust Memories” (1980), opera dichiaratamente autobiografica narrata in flusso di coscienza come “8 e mezzo”.

Dopo il magico riferimento shakespeariano di “Una commedia sexy in una notte di mezza estate” (1982), gira il mockumentary “Zelig” (1983), finto reportage su un uomo camaleontico che trasforma anima e corpo secondo chi si ritrova vicino, mostrando un conformismo che ha molto a che vedere con la società contemporanea.

Qualche anno più tardi riceve il secondo Oscar per il campione d’incassi “Hannah e le sue sorelle” (1986), successivo al divertente “Broadway Danny Rose” (1984) e a “La rosa purpurea del Cairo” (1985), omaggio a “La palla n. 13” di Buster Keaton.

Successivo all’ennesimo omaggio alla musica jazz di “Radio Days” (1987) è il sorprendente “Crimini e misfatti”, riflessione divertente ma non banale sulle colpe che non vengono punite, facendo riferimento ai romanzi di Dostoevskij, scrittore che riprenderà anche più avanti in “Match Point” (2005). Nonostante la crisi personale con la compagna Mia Farrow, lasciata da Woody per la figlia adottiva Soo-Yi Previn (che ha all'incirca trentacinque anni in meno del regista), la vena creativa sembra inesauribile.

Al ritmo costante di almeno un film all’anno, dopo “Ombre e nebbia” (1992) ritorna ad atmosfere più serene con “Mariti e mogli” (1992), “Misterioso omicidio a Manhattan” (1993), per il quale richiama Diane Keaton, e l’esilarante “Pallottole su Broadway” (1994).

Cambia tono nei successivi “La dea dell'amore” (1995, per il quale Mira Sorvino vince l’Oscar come miglior protagonista femminile), omaggio commosso al teatro greco, e nel musical “Tutti dicono I love you” (1996) in cui tratta il tema delle famiglie allargate con un cast d’eccezione che coinvolge Drew Barrymore, Julia Roberts, Goldie Hawn ed Edward Norton. Affezionato però ai ritratti di personaggi in crisi, realizza “Harry a pezzi” (1997) e sberleffa il patinato mondo dei vip con “Celebrity” (1998), girato in bianco e nero. Il suo amore per il jazz invece trionfa con “Accordi e disaccordi” (1999) con Sean Penn.

Con gli ultimi lavori, il successo in patria si era un pò affievolito ma, dopo un accordo con la Dreamworks di Spielberg che gli dà maggiore visibilità, ritorna ai lustri di un tempo con “Criminali da strapazzo” (2000), che prende spunto da “I soliti ignoti” di Monicelli.

Dopo “La maledizione dello scorpione di Giada” (2001) che omaggia il cinema degli anni ‘40, è la volta di “Hollywood Ending” (2002), film non del tutto riuscito in cui tenta di costruire una metafora di un regista in declino che, malgrado una cecità psicosomatica, riesce a concludere il proprio film. 

L’anno successivo Woody chiama Jason Biggs (direttamente dall’America giovanilistica di “American Pie”) per affiancare Christina Ricci in “Anything Else”, storia d’amore impossibile tra un aspirante scrittore e una giovane dallo spirito libertino e indecisa su tutto. Con “Melinda e Melinda” (2004) ritorna ad affrontare il binomio tragedia/commedia delineando due storie che non annoiano ma fanno affiorare qualche cedimento di sceneggiatura. 

 

Con gli ultimi lavori Woody sembra entrare in crisi creativa ma il capolavoro è dietro l’angolo. Secondo le dichiarazioni dell’autore, “Match Point” è il film del quale va più orgoglioso: l’intrigo è una storia di delitto e castigo ambientata nell’alta società di Londra che si confronta con la casualità della vita in una visione realistica (che sfiora il pessimismo) dei rapporti sentimentali. Il film è il primo che vede protagonista la sensuale Scarlett Johansson, vera e propria musa del regista che la richiama per “Scoop” (2006), intricata commedia sullo sfondo di una Londra avvolta nel mistero delle arti magiche e in “Vicky Cristina Barcelona” (2008) al fianco di Penelope Cruz e Javier Bardem, in un gioco di gelosie per le strade della vivace città catalana.

Nel 2007 “Sogni e delitti”, thriller con Ewan McGregor e Colin Farrell, segna il ritorno a un cinema più drammatico che indaga nelle perversioni umane più inconfessabili.

Con “Whatever Works - Basta che funzioni” (2009) ritorna ad ambientare un film a Manhattan offrendoci con il suo stile ironico, colto e leggero, un’altra puntuale riflessione sul mondo e l’uomo. Solo un anno più tardi, tuttavia, Allen fa ritorno in Gran Bretagna dove gira “Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni” (2010), un’altra profonda riflessione su quella grande illusione che il mondo continua a chiamare “amore”. E nel 2011 cambia ancora location ambientando “Midnight in Paris” a Parigi e “To Rome with Love” a Roma, dove torna a recitare insieme a Alec Baldwin, Penelope Cruz, Ellen Page e Jesse Eisenberg.

Torna sugli schermi nel 2013 dirigendo “Blue Jasmine”, che vede come protagonisti Cate Blanchett e Alec Baldwin. Il film è un successo e si aggiudica il Golden Globe 2014 per la migliore attrice in un film drammatico (Cate Blanchett) ed è in corsa per gli Oscar 2014 nelle categorie miglior attrice protagonista, non protagonista (Sally Hawkins) e miglior sceneggiatura originale.

 

Dopo la commedia “Magic in the Moonlight” (2014), torna a lavorare con Emma Stone per “Irrational Man” (fuori concorso al Festival di Cannes 2015), uscito in Italia il 16 dicembre 2016, che racconta la storia di un professore universitario (Joaquin Phoenix) che si lascia travolgere da una pericolosa storia d’amore con una studentessa (Emma Stone). È poi la volta di “Café Society”, presentato al Festival di Cannes 2016 (anch’esso come film d’apertura fuori concorso), che ha riscosso un ottimo successo di pubblico nelle sale italiane.  

 

29/11/2017


Eventi culturali/ Cinema 

 

“Il premio”, il nuovo film di Alessandro Gassmann: una storia di famiglia. Dal 6 dicembre al cinema. 

 

Di nuovo dietro la macchina da presa - ma nello stesso tempo interprete - Alessandro Gassmann firma la regia de “Il premio”, lungometraggio in arrivo nelle sale il prossimo 6 dicembre. Il film racconta le disavventure di una famiglia molto particolare che si aggira per l’Europa: “Un viaggio con una famiglia strana, come la mia” - ha chiosato ironicamente Gassmann. Una famiglia capeggiata da un illustre scrittore - interpretato dal grandissimo Gigi Proietti - che a fronte di una vita sregolata, piena di mogli, figli e nipoti, si aggiudica il massimo riconoscimento letterario, il Premio Nobel. Ma, terrorizzato dal viaggio in aereo, si vede costretto a raggiungere Stoccolma, per ritirare l’ambito premio, in macchina, accompagnato, gioco forza, da alcuni pezzi della sua "anomala famiglia" (lo stesso Alessandro Gassmann e un’altra figlia, blogger di professione, interpretata da Anna Foglietta) e dallo storico assistente - Rocco Papaleo -.

Ne scaturisce una miscela esplosiva: uno strano viaggio, pieno di imprevisti, alla ri-scoperta delle intramontabili dinamiche della famiglia - italiana - che riavvicineranno i protagonisti alla solida realtà dei valori veri e allo spirito di comunità. All’insegna del vecchio ma sempre attuale adagio: “E' l’unione che fa la forza”.

“Il premio” dunque: una storia italiana. Dal 6 dicembre al cinema!        

 

A teatro e al cinema, nella recitazione o come nella regia sul palco, Alessandro Gassmann ha saputo costruire l'immagine coerente di un attore italiano contemporaneo, uno dei più interessanti, certamente, della sua generazione.

Figlio di cotanto padre, dall'illustre genitore ha ereditato soprattutto l'ecletticità nell'alternare ruoli drammatici e brillanti, sia sul set che sul palcoscenico.

Nato a Roma il 24 febbraio del 1965 - Alessandro è il terzogenito dell'indimenticabile "mattatore" Vittorio Gassman, unico nato dal matrimonio con l'attrice francese Juliette Mayniel - studia due anni alla Bottega Teatrale di Firenze e vince il Biglietto d'oro per "Affabulazione" di Pier Paolo Pasolini. L'esordio sul grande schermo arriva nel 1982: solo diciassettenne Alessandro dirige e interpreta insieme al papà Vittorio  Di padre in figlio, sorta di storia autobiografica della famiglia Gassmann. Appare nel seguito de I soliti ignoti ma è nel 1987 che ottiene finalmente un ruolo principale in La monaca di Monza - Eccessi, misfatti, delitti di Luciano Odorisio, dove interpreta il nobile dissoluto Gianpaolo Osio.

Da allora Gassmann alterna senza sosta ruoli sul grande schermo, sul palcoscenico e in televisione. Sarà in Un bambino di nome Gesù (1987), Comprarsi la vita (1991), Quando eravamo repressi (1992), Ostinato destino (1992) e anche in Uova d'oro (1993) di Bigas Luna. Nel 1995 il salto in una produzione americana (pur ambientata sul lago di Como) con Un mese al lago di John Irvin, dove interpreta un giovane seduttore italiano. Appare poi in altre, innumerevoli, commedie come Uomini senza donne (1996) e Mi fai un favore (1997). Con Lovest e Facciamo fiesta (1997) si diverte accanto a un altro noto e simpatico figlio d'arte: Gianmarco Tognazzi. Il duo è convincente al di là della riuscita dei film.

Sarà invece il regista Ferzan Ozpetek, con Il bagno turco (1997) a lanciarlo sulla scena nazionale come attore di qualità, dandogli l'opportunità di interpretare un architetto romano che riscopre a Istanbul i valori dell'eros. Appare dunque in altre commedie: per Benvenuti ne I miei più cari amici (1998), per Giulio Base ne La bomba (1999), e poi in Teste di cocco (2000). Tra i vari ruoli in serie televisive lo si ricorda in armatura medievale in Crociati (2001). Ne I banchieri di Dio - Il caso Calvi (2002) è in un ruolo di impegno civile, in un film che ricostruisce le vicende legate alla morte di Roberto Calvi. Altra parte storica in La guerra è finita (2002) mentre nel 2005 appare nel film d'azione franco-americano, prodotto da Luc Besson, Transporter: Extreme, dove tra inseguimenti e esplosioni interpreta il cattivo mafioso che dà filo da torcere all'eroe Jason Statham. Dopo aver ritrovato Luciano Odorisio in Guardiani nelle nuvole (2005) appare in Non prendere impegni stasera (2006) di Gianluca Maria Tavarelli.

In Caos Calmo (2007) di Antonello Grimaldi, recita invece in un cast di star italiane, accanto a Nanni Moretti, Valeria Golino e Silvio Orlando. Nel 2008 prende parte al film di Pappi Corsicato Il seme della discordia, dove interpreta il marito sterile di Caterina Murino.

Lo ritroviamo anche nella commedia corale di Fausto Brizzi Ex (2008), per poi approdare nel dramma borghese Il compleanno e, per la prima volta, nel cast del cinepanettone delle festività natalizie del 2009 Natale a Beverly Hills, dove ritrova l'amico-collega Gianmarco Tognazzi. Nel 2010 gira in lungo e in largo le terre lucane insieme a Giovanna Mezzogiorno nel film Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo, appare nel cast del film di Luca Lucini, La donna della mia vita, con Luca Argentero e Valentina Lodovini, ed è protagonista in Il padre e lo straniero, dramma diretto da Ricky Tognazzi. Nel 2011 è protagonista di due commedie sul grande schermo: Baciato dalla fortuna, diretto da Paolo Costella e Ex: amici come prima!, di Carlo Vanzina; mentre l'anno successivo è protagonista della commedia di Massimiliano Bruno Viva l'Italia. Lavora più volte con Marco Giallini (Tutta colpa di Freud, Se Dio vuole) ed è protagonista del film di Francesca Archibugi, Il nome del figlio, e di quello di Massimiliano Bruno, Gli ultimi saranno ultimi.

Nel 2016 è Ruggero, un cuoco solitario, nella commedia diretta da Rocco Papaleo Onda su onda, e in seguito affiancherà Claudio Bisio e Angela Finocchiaro in Non c'è più religione di Luca Miniero.

Nel 2017 veste i panni dell'ispettore Lojacono nella serie TV I bastardi di Pizzofalcone - tra pochi giorni inizieranno le riprese della seconda stagione - ed è nelle sale, insieme a Marco Giallini, nella commedia Beata ignoranza, in cui è diretto ancora una volta da Massimiliano Bruno.  

 

27/11/2017


Eventi culturali/ Manifestazioni

 

Il "Mercatino di Natale": domenica 26 novembre in via Ugo Ojetti, passeggiando nella Storia.  

 

Il Natale si avvicina a grandi passi, e con esso - come ogni anno - scatta inevitabilmente la corsa al regalo.

Tra le strade del III Municipio della Capitale maggiormente percorse, alla frenetica ricerca di un’idea originale, vi è sicuramente la centralissima Via Ojetti, nel cuore del quartiere Talenti, che domenica prossima ospiterà l’ormai consueto “Mercatino di Natale”.  Un appuntamento a cui seguiranno altre due "domeniche di shopping Natalizio" lungo le vie del territorio municipale: nell'ordine il 10 dicembre in Via Conca D' Oro, e il 17 dicembre in Via Franco Sacchetti.

Ma chi era Ugo Ojetti?

Scopriamolo insieme, ripercorrendo la vita e le opere di questo grande scrittore, giornalista e critico d’arte che ha cambiato il modo di vedere la cultura nella prima metà del Novecento. 

 

 

Nato a Roma il 15 luglio del 1871, figlio di un architetto e restauratore, e quindi educato all'arte, Ugo Ojetti si laureò in legge all’età di ventun’anni, dopodiché si dedicò prevalentemente al giornalismo e alla critica d'arte.

Personalità di vastissima cultura scrisse per diversi giornali, dall'Illustrazione italiana, alla Tribuna al Corriere della Sera. Organizzò numerose mostre d'arte, come esperto in particolare del Rinascimento e del Secentismo, ma con interessi che spaziavano fino alla pittura e scultura contemporanea.  Diede vita ad importanti iniziative editoriali, come "Le più belle pagine degli scrittori italiani" per l'editrice Treves e la collana de "I Classici italiani" per Rizzoli. Per il teatro scrisse, assieme a Renato Simoni, la commedia in quattro atti Il matrimonio di Casanova. Fece parte fino al 1933 del consiglio di amministrazione della Enciclopedia Italiana.

Nei sette volumi che costituiscono la raccolta Cose viste, sono contenuti articoli da lui scritti per il "Corriere della Sera" dal 1921 al 1943. Quelli scritti fra il 1904 e il 1908 per l'"Illustrazione italiana" vennero invece pubblicati nei due volumi de I capricci del conte Ottavio, usciti rispettivamente nel 1908 e nel 1910. Scritto con uno stile che si pone fra la critica e il reportage, Alla scoperta dei letterati, pubblicato ancora in giovane età nel 1895, fu considerato, e come tale fece discutere, un momento di analisi profonda del movimento letterario dell'epoca, ricavato attraverso interviste a scrittori celebri come Antonio Fogazzaro, Giosuè Carducci, Matilde Serao e Gabriele D'Annunzio.

Profondo conoscitore ed appassionato studioso di arte, Ugo Ojetti ha pubblicato sull'argomento diversi importanti libri: Ritratti di artisti italiani (in due volumi, 1911 e 1923), I nani tra le colonne (1920), Raffaello e altre leggi (del 1921), La pittura italiana del Seicento e del Settecento (1924), l' Atlante di storia dell'arte italiana (due volumi, 1925 e 1934) e La pittura italiana dell'Ottocento (1929) e Ottocento, Novecento e via dicendo (1936).

Come scrittore di narrativa, Ojetti è ricordato per i romanzi Senza Dio (scritto quand'era poco più che ventenne, nel 1894), Mimì e la gloria (del 1908) e Mio figlio ferroviere (1922).

Fondatore della rivista d'arte "Dedalo" (uscita dal 1920 al 1933), Ojetti diresse a Milano dal '33 al '35 "Pan", rivista fondata sulle ceneri della precedente esperienza fiorentina della Rassegna di lettere ed Arti "Pègaso".

Nominato Accademico d'Italia nel 1930, Ojetti è celebre anche per i suoi aforismi, massime e pensieri, molti dei quali sono raccolti nel volumetto Sessanta, uscito nel 1937, ma scritto dall'autore per i suoi sessant'anni, cioè nel 1931.

 

Ne citiamo a titolo di esempio tre che sono rimasti famosi: "Dì bene del tuo nemico soltanto se sei certo che glielo andranno a riferire", "Se vuoi offendere un avversario, lodalo a gran voce per le qualità che gli mancano" "Amare col buio, dormire col sole, mangiare in silenzio: tre sciocchezze", dove il cinismo romanesco si unisce efficacemente ad una saggezza senza tempo.

Troppo rapidamente dimenticato dopo la morte, avvenuta a Firenze il 1 gennaio del 1946, Ojetti sta ritrovando una certa visibilità e viene più frequentemente citato, specie nella storia e critica d'arte, negli ultimissimi anni.

La sua ricca biblioteca (circa 100mila volumi) venne donata nel 1977 da sua figlia Paola (1911-1978), anche lei giornalista e dedicataria delle Cose viste, al Gabinetto Viesseux di Firenze, dove si trova tutt'oggi, come fondo Ugo e Paola Ojetti. 

 

24/11/2017


Eventi culturali/ Presentazioni 

 

“Rino Gaetano: Essenzialmente tu". Giovedì 23 novembre alla Biblioteca Aldo Fabrizi.   

 

 

Oggi, giovedì 23 novembre, alle ore 18, presso la Biblioteca Aldo Fabrizi di Roma, in via Treia 14, alla presenza dell'autore verrà presentato il libro di Matteo Persica - fresco di stampa, è uscito il 2 novembre - "Rino Gaetano, Essenzialmente tu.", Odoya Edizioni.

360 pagine con foto e testimonianze inedite per raccontare la storia del grande cantautore. Attraverso le voci degli amici, dei colleghi e - non ultime - delle fidanzate, Persica fa rivivere la voce narrante del protagonista in un auto-racconto a tutto tondo. 

Insieme all'autore, Daniele Savelli (voce e chitarra), che interpreterà le canzoni di Rino Gaetano.

Un autentico atto d'amore, dunque, nei confronti dell'indimenticabile e indimenticato cantore del “nonsense”, della canzone solo in apparenza scanzonata, in realtà con una forte valenza ironica legata alla realtà politica e sociale del tempo. Un outsider, un talento che si è conquistato il suo spazio senza mediazioni e concessioni; un artista che con il sorriso sulle labbra e lo sberleffo nelle parole non ha mai smesso di raccontare i vizi e i difetti degli italiani. 

A lui il III Municipio della Capitale ha intitolato una strada. 

 

 

Salvatore Antonio Gaetano, in arte Rino Gaetano, nasce il 29 ottobre del 1950 a Crotone e nel 1960 si trasferisce con la famiglia a Roma, nel quartiere Montesacro

Aspirante geometra, coltiva i primi interessi artistici più per il mondo del teatro che per quello musicale, recitando la parte della Volpe in una versione di Pinocchio e componendo le prime canzoni alla chitarra con stile sarcastico: un modo di fare musica popolare, poco in linea con la tendenza seriosa e ideologica di quel periodo.

 

Nei primi anni Sessanta suscita la curiosità di due discografici romani, Sergio Bardotti e Vincenzo Micocci, quest'ultimo proprietario dell'etichetta IT, una creatura della major RCA, per la quale incide nel 1973 un 45 giri con lo pseudonimo di Kammamuri's, personaggio salgariano e suo eroe letterario. Questo singolo conteneva la canzone “I love you Maryanna”, un brano calypso, giocato sul filo del doppio senso: Maryanna come marijuana; il lato B del disco, proponeva invece un brano dixie-charleston intitolato “Jaqueline”.

 

Il primo 33 giri di Rino Gaetano “Ingresso libero”, pubblicato nel 1974, viene per lo più ignorato ma nel 1975 con il singolo intitolato “Ma il cielo è sempre più blu”, una sorta di filastrocca sui vizi e le contraddizioni della società italiana - quasi una canzone-manifesto - finalmente l'artista rompe l'indifferenza della critica.

 

Nel 1976 esce l'album “Mio fratello è figlio unico” - che include la famosa, divertente e sarcastica “Berta filava” - imponendo Rino Gaetano come cantautore fuori dagli schemi.

 

Aveva inserito la satira sociale e politica nella musica pop.

 

Nel 1977 esce l'album “Aida”, che contiene l'omonima canzone, appassionata e dal sapore un pò amaro, dedicata al Bel Paese e alla sua storia.

 

L'anno successivo esce il 33 giri “Nuntereggae più” (1978) e, in un periodo nel quale il reggae è poco conosciuto in Italia, ottiene un vero e proprio successo con il singolo estratto intitolato “Gianna”, canzone portata al Festival di Sanremo del 1978, dove Rino si presenta come un classico artista da varietà, indossando frac e cappello a cilindro; ovviamente un’esibizione rara per quel tipo di platea, abituata a distinguere tra cantanti popolari, cantautori impegnati e attori televisivi da spettacolo leggero. Sul palco del Teatro Ariston “Gianna” si piazza al terzo posto, preceduta da “Un'emozione da poco” di Anna Oxa e da “E dirsi ciao” dei Matia Bazar, ma raggiunge il top nelle classifiche di vendita e vi rimane per diverse settimane.

 

Nel 1979 pubblica l'album intitolato “Resta vile maschio, dove vai?”, con il brano omonimo scritto da Mogol; per il periodo estivo lancia un'altra canzone estratta da questo 33 giri, la divertente ballata intitolata “Ahi Maria”.

 

Quest'ultimo LP segna per Rino il passaggio dall'etichetta IT alla multinazionale RCA. Seguono diversi tour di successo ma anche l'inizio di una crisi artistica, alla quale Rino Gaetano tenta di dare una svolta attraverso la tournée con Riccardo Cocciante e i New Perigeo, dalla quale sarà tratto un Q-disc live intitolato “Q-Concert”, pubblicato nel 1981.

 

L'ultimo album inedito di Rino, “E io ci sto”, esce nel 1980 e rimane una sorta di previsione su ciò che le indagini di “Mani pulite”, dopo oltre un decennio, avrebbero messo drammaticamente in luce.

 

Il 2 giugno del 1981, un incidente stradale sulla Nomentana - immediatamente paragonato a quello di Fred Buscaglione, altro sfortunato “umorista” della canzone - impedirà per sempre di sapere quanto altro ancora avrebbe potuto dire questo moderno “giullare” degli anni Settanta.

 

Le sue canzoni, in gran parte attuali e spesso riproposte in antologie rievocative, hanno aperto la strada a molti gruppi musicali e artisti più o meno ispirati che hanno fatto - e fanno - umorismo usando parole e musica, anche se in anni sicuramente più facili per la satira e l'ironia.

 

La grandezza artistica di Rino Gaetano non consiste però solo nel tradurre comicità in musica, seguendo la tradizione del varietà, nel satireggiare personaggi e politica - come i cantastorie popolari e i canzonieri di protesta facevano da tempo - o nell'ironizzare sulle mode e i costumi dell'epoca - come anni prima aveva fatto Fred Buscaglione - ma risiede anche nel fatto che lui ha seguito quella strada quando nessun altro nella musica italiana lo stava facendo, in un decennio dove le hit-parade ospitavano Mogol-Battisti, le piazze ascoltavano i cantautori impegnati e il Paese si preparava agli “Anni di piombo”.

E da allora il pubblico non ha mai smesso di ri-scoprire le sue canzoni

 

23/11/2017


Processi alla Storia: Enrico Mattei.

Lunedì 20 novembre al Teatro Parioli Peppino De Filippo di Roma.  

 

Lunedì  20 novembre 2017 alle ore 21, presso il Teatro Parioli Peppino De Filippo di Roma torna l’appuntamento teatrale nell’ambito del format “Personaggi e Protagonisti: incontri con la Storia ® Colpevole o Innocente?”, ideato e curato da Elisa Greco, autrice di format televisivi e teatrali.

 

Sulla scorta del successo della scorsa edizione - in cui venne indagata la figura di Adriano Olivetti - quest’anno verrà rivisitata, sotto la forma di un Processo alla Storia, la personalità di Enrico Mattei (interpretato dal Presidente del Gruppo Giovani Imprenditori di Unindustria, Fausto Bianchi).

Magistrati, avvocati, personalità della società civile animeranno, all’impronta, un confronto di tesi contrapposte tra accusa e difesa, dando vita ad un dibattimento processuale con il pubblico che, al termine della serata, sarà chiamato ad emettere il proprio giudizio. L’appuntamento teatrale si inserisce nel calendario delle iniziative promosse da Unindustria nel Lazio in occasione della XVI Settimana della Cultura d'Impresa (10/24 novembre 2017). Info e prenotazioni: 06.8073040 - promozione@teatroparioli.it - botteghino@teatroparioli.it

 

 

Il 27 ottobre del 1962 l’aereo partito da Catania e diretto a Linate su cui si è imbarcato il presidente dell’Eni, Enrico Mattei, precipita nelle campagne pavesi di Bascapè. Con lui perdono la vita il pilota Irnerio Bertuzzi e il giornalista americano William Mc Hale. 

 

La vita di Enrico Mattei (Acqualagna, 29 aprile 1906 - Bascapè, 27 ottobre 1962): la storia di un’avventura senza confini. Da operaio a dirigente industriale, da partigiano bianco a commesso dello Stato. Dal rilancio dell’Agip alla sfida del metano, dalla scoperta del terzo mondo alla lotta spietata con le “Sette Sorelle” e con i loro amici italiani. Dai rapporti con la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi alla nascita dell’ENI e del quotidiano “Il Giorno”. 

Enrico Mattei, il corruttore incorruttibile che aveva un “debole”: quello di creare lavoro e di assicurare al lavoro italiano energia a buon mercato.

L’uomo che ha operato contro il cartello petrolifero, contro la destra economica, contro l’immobilismo centrista, donando prospettive e spirito di bandiera all’industria dello Stato.

Un uomo che capiva i tempi e che ha guadagnato all’Italia grandi simpatie sotto tanti cieli, offrendo solidarietà, cooperazione e tecnologia avanzata.

Hanno detto di lui che sia morto al momento giusto: ma giusto per chi? Probabilmente per i suoi nemici, proprio nel momento in cui erano ormai vicine e sicure le grandi prospettive dei viaggi in Algeria e in America.

 

Alle 18,50 del 27 ottobre 1962 dunque il Morane Saulnier dell’ENI, con a bordo Enrico Mattei, si mette in contatto con Linate. È partito alle 16,57 da Catania. Riceve dalla torre di controllo i dati sulle condizioni atmosferiche - temperatura 9 gradi, visibilità 600 metri, pioggia - e alle 18,56 l’OK per l’atterraggio. Alle 18,57 comunica: “Raggiunto 2000 piedi”. Poi non parla più, non risponde più. La torre dà l’allarme: scattano i servizi di emergenza.

La prima notizia arriva per telefono, dopo una ventina di minuti, dal brigadiere dei carabinieri della stazione di Landriano, in provincia di Pavia. “Alcuni contadini ci segnalano che un aereo sarebbe precipitato presso Bascapè”. L’autista, in attesa ai cancelli di Linate, e la segretaria, in attesa nell’ufficio di Metanopoli, affermano che sull’aereo in arrivo da Catania c’è Mattei. In attesa con l’autista c’è anche Ottavio Rapetti, una delle guardie del corpo. Pochi giorni prima, durante una partita di pesca Mattei gli ha detto: “Cosa vieni giù a fare tu? Ci vediamo sabato, a Milano, quando torno da Catania”.

Dall’aeroporto partono le telefonate d’ufficio, per le autorità di Milano e per i pezzi grossi di Roma. Da Milano e da Pavia accorrono tante macchine. Cercano Bascapè, tra rogge, cascine, marcite; e dopo Bascapè, sulla destra di un viottolo, la cascina Albaredo, e infine, a duecento passi dalla cascina, l’aereo, e Mattei.

Acqua dal cielo acqua dappertutto; non si vede dove finisce il margine del viottolo e dove comincia la roggia. Si cerca senza speranza, si trova di tutto. I resti dell’apparecchio sono piantonati dai carabinieri: il recupero dei resti umani e dei rottami è difficile e meticoloso. Si sa che a bordo si trovavano Mattei, a destra, e il pilota, Irnerio Bertuzzi, a sinistra. Alle loro spalle, il giornalista americano William Mc Hale.

Disastro o attentato? C’è chi sostiene la teoria dell’incidente, chi quella dell’assassinio.

Poi i funerali di Stato, con messa solenne a Roma, nella chiesa del Gesù. Fra i primi ad arrivare, dopo l’apertura del portone, Giorgio La Pira - all’epoca sindaco di Firenze - che con Mattei aveva “trattato” alcune questioni sindacali per le fabbriche fiorentine della Nuova Pignone.

 

La Commissione d’Inchiesta, nominata il 28 ottobre dal ministro della Difesa Giulio Andreotti, e presieduta dal generale di brigata aerea Ercole Salvi, conclude i suoi lavori nel marzo del 1963.

La relazione - di ben 46 pagine - rileva “diversi elementi che contrastano l’ipotesi dello scoppio in volo”. L’incidente è attribuito “a perdita di controllo in spirale a destra”. L’ipotesi più attendibile per l’incontrollata spinta a destra è quella della “concomitanza di più fattori di natura tecnica e psicofisica”.

La magistratura di Pavia nel 1966 dichiara chiusa la fase istruttoria con pronuncia di “non luogo a procedere”. Risultano pacifici e incontrovertibili cinque punti: “i due reattori erano perfettamente funzionanti allorché l’aereo cadde in stallo; l’incidente si verificò repentinamente a seguito di una improvvisa spirale a destra del velivolo, sfuggito al controllo del pilota; l’aereo giunse a terra integro in tutte le sue strutture; non si verificò alcuno scoppio in volo; gli aerofreni e il carrello di atterraggio erano ancora retratti”. Pertanto: “mancano elementi che possano condurre ad individuare con un certo grado di probabilità la causa del disastro”.

 

Soltanto nel 2005 una nuova indagine - iniziata nel 1997 - ha dimostrato “la natura dolosa dell’incidente”, a seguito del ritrovamento di “segni di esposizione a esplosione su parti del relitto, sull’anello e sull’orologio di Enrico Mattei”.

Ma a tutt’oggi, dopo 55 anni, la sua morte è ancora avvolta nel mistero.   

 

19/11/2017  


Eventi culturali/ Concerti

 

Omaggio a Ennio Morricone: sabato 11 novembre al Teatro Sacco di Savona. 

 

Sabato 11 novembre alle ore 21 il Teatro Sacco di Savona celebra il Maestro Ennio Morricone - recente premio Oscar per la miglior colonna sonora del film di Quentin Tarantino “The Hateful 8” - con un concerto dell’Ensemble Le Muse - Ensemble strumentale interamente al femminile di recente formazione, composto da strumentiste cresciute artisticamente all’interno dello storico gruppo Rondò Veneziano - dal titolo “Omaggio a Ennio Morricone”. Il programma prevede l’esecuzione di temi tratti dalle colonne sonore composte da Morricone per il “Grande Cinema”: dagli esordi con Sergio Leone fino alle più recenti collaborazioni con Tornatore, Joffè e Tarantino,  con proiezioni simultanee delle famose sequenze filmiche ritagliate ad hoc sui brani musicali eseguiti.

 

Da parte sua, dopo aver registrato il tutto esaurito per le due date fissate a dicembre - il 1° a Bologna e il 2 a Milano - il celebre compositore continuerà a celebrare il suo sessantesimo anniversario di carriera - The 60 Years of Music Tour - nel 2018: il 2 marzo al Mandela Forum di Firenze, il 4 marzo al Palalpitour di Torino e il 6 marzo al Mediolanum Forum di Milano.

 

Biglietti in vendita da venerdì 27 ottobre su TicketOne.it e Dalessandroegalli.com 

 

 

Ennio Morricone, uno dei più premiati compositori italiani, è nato il 10 novembre del 1928 a Roma, nel quartiere Trastevere.

Ha studiato composizione con Goffredo Petrassi al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, dove si era già diplomato in Tromba nel 1946 e in Strumentazione per banda nel 1952.

All'inizio della sua lunga carriera artistica si è dedicato alla musica moderna, prima come orchestratore e direttore d'orchestra in campo discografico, poi come compositore per il teatro, per la radio e la televisione e infine per il cinema, dove ha firmato una lunga serie di applauditissime colonne sonore.

Ennio Morricone è infatti tra i nomi leggendari della musica da film: ha scritto oltre 500 colonne sonore, ottenendo i più prestigiosi riconoscimenti internazionali.

Dopo gli inizi come arrangiatore e autore di musica leggera, ha cominciato a scrivere per il grande schermo. Esordisce nel 1961 con "Il federale" di Luciano Salce, per poi seguire il filone dei western all'italiana di Sergio Leone, iniziato con "Per un pugno di dollari" (1964), diventando così famoso in tutto il mondo, fino a "C'era una volta in America".

I successi per Ennio Morricone continuano con la musica scritta per i film di Elio Petri "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto", "La classe operaia va in paradiso", "Todo Modo", "Buone notizie".

La musica di Morricone, diventata garanzia di successo per i film di cui compone la colonna sonora, ha enfatizzato la regia di Gillo Pontecorvo ne "La battaglia di Algeri", "Queimada" e "Ogro".

Pier Paolo Pasolini lo ha voluto per "Uccellacci e uccellini" e "Teorema"; Luciano Salce, dopo il primo "Il Federale", ha sfruttato la verve musicale di Morricone in "La cuccagna", "La voglia matta", "Le monachine".

Elencando nomi di grandi registi e dei loro film di successo, troveremo centinaia di volte la firma del maestro Ennio Morricone sulle musiche che hanno animato poeticamente le storie cinematografiche, ma che in seguito hanno vissuto di vita propria.

Ricordiamo "Metti una sera a cena" di Giuseppe Patroni Griffi, "Allosanfan", "Il prato" di Paolo e Vittorio Taviani, "Novecento", "La luna", "La tragedia di un uomo ridicolo" di Bernardo Bertolucci, "L'assoluto naturale", "Metello", "Fatti di gente perbene" di Mauro Bolognini, "Sacco e Vanzetti", "Giordano Bruno", "Got mit uns", "L'Agnese va a morire", "Marco Polo" di Giuliano Montaldo, "Nuovo Cinema Paradiso", "Stanno tutti bene", "Una pura formalità", "L'uomo delle stelle", "La leggenda del pianista sull'oceano", "Malena" di Giuseppe Tornatore, "L'uccello dalle piume di cristallo", "Il gatto a nove code", "Quattro mosche di velluto grigio", "La sindrome di Stendhal", "Il fantasma dell'opera" di Dario Argento e "La scorta", "Canone inverso" di Ricky Tognazzi.

Ennio Morricone è apprezzato da molti registi stranieri, che lo hanno scelto per le musiche originali dei loro film, ma anche la televisione italiana gli ha offerto l'occasione per musicare fiction di elevata caratura. Portano la sua firma "Mosè", "Marco Polo", "I Promessi Sposi", "Il cielo sotto il deserto", "Nostromo", "Ultimo", "Ultimo la sfida", "Il quarto re", "Padre Pio", "Nanà", "Perlasca un eroe italiano", "Un difetto di famiglia".

Anche la musica da camera e per orchestra ha avuto l'attenzione di Morricone, che ha realizzato oltre cinquanta composizioni fra pezzi cameristici per strumento solista o per trii, quintetti, sestetti, pianoforte e strumenti, canto e pianoforte, voce e strumenti, coro di voci bianche; tre Concerti, di cui il primo (1957) per orchestra, il secondo (1985) per flauto e violoncello, il terzo (1991) per chitarra classica amplificata e marimba; musiche per i balletti "Requiem per un destino" (1966) e per "Gestazione" (1980); musiche vocali e strumentali su temi religiosi o d’intonazione spirituale.

Come riconoscimento e a coronamento di una vita dedicata alla musica, Ennio Morricone ha ricevuto l'Oscar alla carriera, consegnatogli il 25 febbraio del 2007 a Hollywood.

L’inesauribile compositore ha recentemente vinto il Golden Globe, il premio della stampa estera a Hollywood, (il terzo in carriera), come “Miglior colonna sonora originale” per le musiche dell’ultimo film western di Quentin Tarantino “The Hateful Eight”, che ha ritirato il premio al posto del compositore italiano.

“Ennio Morricone è il mio compositore preferito! E non intendo un compositore qualunque, solo di film, intendo uno come Mozart, come Beethoven, come Schubert” - ha detto Tarantino, che ha poi proseguito - “Ennio Morricone non ha mai vinto un premio singolo per uno dei film che ha fatto. Ha vinto in Italia, ha vinto alla carriera, ma mai qui in America e voglio ringraziarlo: all’età di 87 anni ha realizzato una fantastica colonna sonora e finalmente vinto un premio prestigioso”.

L’assegnazione dei premi è avvenuta il 10 gennaio 2016 al Beverly Hills Hotel di Beverly Hills, in California.   

Ma non è tutto! La corsa all’Oscar di Ennio Morricone infatti è proseguita sotto i migliori auspici. Il grande Maestro ha vinto anche il Critics Choice Award, la cui cerimonia di premiazione - avvenuta a Los Angeles la notte del 17 gennaio - ha visto trionfare i favoriti per il gran premio finale - Il Premio Oscar -, cui tutti nel mondo del cinema ambiscono e che Morricone ha infine conquistato domenica 28 febbraio 2016, rappresentando il “genio” italiano tra le “stelle” della notte degli Oscar

 

Auguri Maestro! 

 

9/11/2017


Eventi culturali/ Spettacoli

 

Un “Don Giovanni” dalla parte delle donne: dal 9 novembre al Teatro Olimpico di Roma. 

 

Dal 9 al 26 novembre va in scena al Teatro Olimpico di Roma la prima rappresentazione italiana del “Don Giovanni” secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio: una nuova interpretazione del capolavoro operistico mozartiano affidata alla voce femminile della straordinaria Petra Magoni, indimenticabile Regina della notte del Flauto magico nella prima produzione dell’Orchestra più multietnica d’Italia. Una visione “altra” del protagonista, dunque, che prelude ad una lettura "assai rivisitata" dei rapporti tra i personaggi.

Info e prenotazioni: Telefono: 06.32.65.99.27

E-mail: ufficiopromozione@teatroolimpico.it 

 

 

Nato a Salisburgo, uno dei principali centri dell'allora Impero asburgico (e oggi dell'Austria centro-settentrionale), il 27 gennaio del 1756, Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart dimostrò ben presto le sue doti di genio della musica, componendo già a cinque anni brani per clavicembalo e violino.

Il padre Leopold, un uomo dal carattere austero, permeato di ideali illuministi, schivo e sprezzante, che all'epoca ricopriva l'incarico di maestro di cappella del principe arcivescovo di Salisburgo e celebre violinista compositore, fu il suo primo maestro.

E proprio dagli appunti del padre si apprende che Wolfgang prima dei quattro anni era già in grado di utilizzare una raccolta di esercizi che egli stesso aveva preparato, e che a Wolfgang occorreva solo mezz'ora per eseguirli perfettamente.

Nel 1762 Leopold portò il piccolo Wolfgang e sua sorella Nannerl di undici anni, anche lei bambina prodigio, in giro per le corti d’Europa. Durante il viaggio, Wolfgang compose sonate per violino e clavicembalo (1763), una sinfonia (1764), un oratorio (1766), e l’opera buffa "La finta semplice" (1768).

Nel 1769 Wolfgang viaggiò con il padre per l'Italia, soggiornando e perfezionando gli studi musicali a Milano, Venezia, Bologna, Roma e Napoli. A Milano, per il teatro La Scala, Mozart compone l’opera seria "Mitridate re di Ponto", rappresentata nel 1770, e si avvicina alle composizioni di Sammartini.

A Roma ascolta le polifonie ecclesiastiche, mentre a Napoli prende coscienza dello stile diffuso in Europa.

Finita l'esperienza italiana, torna a Salisburgo e precisamente al servizio dell'iroso arcivescovo Colloredo, che gli lascia la massima libertà di movimento concedendo a Wolfgang di recarsi ancora in Italia per assistere a Milano alla rappresentazione dell’opera "Lucio Silla" (1772).

Da allora fino al 1777, ad eccezione di brevi viaggi a Vienna dove prese lezioni da Haydn e si dedicò allo studio del contrappunto, Mozart restò quasi sempre a Salisburgo.

Sulla spinta del successo ottenuto, nel 1777 lascia l'incarico presso l'Arcivescovo Colloredo e inizia la carriera di musicista autonomo e si reca a Parigi insieme alla madre (che muore proprio in quella città), toccando Manheim, Strasburgo e Monaco e scontrandosi per la prima volta con insuccessi professionali e sentimentali.

Deluso, Mozart, torna a Salisburgo e si dedica alla composizione di sonate, sinfonie e concerti. Qui compone la bellissima "Messa dell'Incoronazione K 317" e l'opera rappresentata a Monaco il 29 gennaio 1781 "Idomeneo, re di Creta", molto ricca dal punto di vista del linguaggio e delle soluzioni sonore, che riscosse un inatteso successo.

L'ultimo decennio della sua breve esistenza è per Mozart il più produttivo e felice per la musica.

Si trasferisce a Vienna, si sposa con Constanze Weber contro il parere di suo padre e, nel 1782, l’imperatore Giuseppe II gli commissiona un’opera. Egli sceglie di scrivere un "singspiel", cioè un’opera in tedesco con dialoghi recitati, su libretto di Gottlob Stephanie; Mozart compone così l’opera buffa "Il ratto dal serraglio".

I contatti con gli impresari e gli agganci con l'aristocrazia, favoriti dal successo dell'opera buffa, gli permettono un'esistenza precaria ma dignitosa.

Fondamentale è il suo incontro con il librettista Da Ponte che darà vita agli immortali capolavori teatrali conosciuti anche con il nome di "trilogia italiana", ossia "Le nozze di Figaro"(1786), "Don Giovanni"(1787) e "Così fan tutte"(1790).

Le prime due opere ottennero successi senza precedenti per l’epoca e fruttarono a Mozart la carica di Kammermusicus dell’imperatore.

Ma nel 1787 la morte del padre arrecò un grave colpo al suo instabile equilibrio economico e psicologico. Il tiepido successo della terza opera - “Così fan tutte” (1790) - fu seguito dalla morte dell’imperatore Giuseppe II.

Il successore, Leopoldo II, pur non essendo interessato alla musica quanto Giuseppe II, nel 1791 per la sua incoronazione commissionò a Mozart l’opera seria "La clemenza di Tito" (su libretto di Metastasio).

Nel 1790 Mozart compose per il teatro il singspiel "Il Flauto magico" - considerato il momento di avvio del teatro tedesco - ma il 5 dicembre del 1791 si spense misteriosamente all'età di soli 35 anni, lasciando incompleto il "Requiem in Re minore", portato a termine dal suo allievo Franz Sussmayr.

La sua preziosa eredità comprende opere di musica sinfonica, sacra, da camera e di vario genere. 

 

7/11/2017


Eventi culturali/ Cinema

 

Un “Belvedere” per Virna Lisi.

 

Sabato 28 e domenica 29 ottobre 2017 la città di Ancona ha reso omaggio ad una delle interpreti più note ed apprezzate del cinema italiano e internazionale, Virna Pieralisi (1936-2014), nata nel capoluogo marchigiano l’8 novembre del 1936 nel quartiere di Capodimonte. Un weekend di eventi, incontri e proiezioni cinematografiche che si è concluso con l’intitolazione all’artista del “Belvedere Virna Lisi”: la scalinata del Passetto che scende dal Monumento ai Caduti fino al mare. Una location prestigiosa dunque: lo spazio più adatto da dedicare a quella che è stata a ragione definita la “signora” del cinema italiano. 

 

Nata ad Ancona l’8 novembre del 1936, Virna Lisi - nome d’arte di Virna Pieralisi - muove i suoi primi passi nel mondo dello spettacolo all’età di quattordici anni, scoperta dal cantante e attore  Giacomo Rondinella, che le fa conoscere il produttore cinematografico Antonio Ferrigno. Nonostante l’iniziale opposizione del padre riesce ad intraprendere la strada del cinema, recitando già negli anni Cinquanta ruoli di rilievo. Viene scritturata in commedie di successo come “Le diciottenni” (di cui è protagonista), e scelta per interpretare degli sketch all’interno della rubrica televisiva “Carosello”, che le dà una immediata notorietà.

Nel 1960 Virna Lisi sposa l’architetto romano Franco Pesci, con il quale nel 1962 ha un figlio: Corrado. Dopo le nozze l’attrice annuncia il suo ritiro dalle scene per potersi dedicare esclusivamente alla famiglia, ma un anno dopo torna in televisione prendendo parte a diversi sceneggiati Rai. Intanto recita in tanti spettacoli teatrali, diretta da registi del calibro di Giorgio Strehler e Luigi Squarzina.

Viene poi richiesta a Hollywood, dove firma un contratto in esclusiva per sette anni con la Paramount. Si trasferisce quindi insieme alla sua famiglia e recita, per la regia di Richard Quine, in “Come uccidere vostra moglie”. Nei successivi film ha modo di lavorare al fianco di grandi attori quali Frank Sinatra e Tony Curtis. Nel 1968 le viene assegnato il ruolo di protagonista in “Barbarella” ma rifiuta e decide di tornare in Italia, rescindendo il contratto con la Paramount.

Durante gli anni Ottanta Virna Lisi è molto attiva in televisione, prendendo parte a numerosi telefilm e sceneggiati Rai di grande successo.

Nel 1996 riceve il ruolo da protagonista in “Va’ dove ti porta il cuore” - film tratto dall’omonimo libro di Susanna Tamaro - che le fa guadagnare la nomination come “miglior attrice protagonista”, con la quale ottiene il Nastro d’argento e il David di Donatello.

Nel 2013 perde il marito.                                                               

Nell’aprile del 2014, dodici anni dopo la sua ultima apparizione, Virna Lisi torna sul set, recitando in “Latin Lover”, di Cristina Comencini - uscito a marzo del 2015 -.

Poco prima di morire stava inoltre lavorando ad alcuni progetti Mediaset, come la fiction “È la mia famiglia”, le cui riprese erano iniziate in autunno, e la quarta stagione della serie “Il bello delle donne”.

La grande attrice si è spenta a Roma il 18 dicembre del 2014, all’età di 78 anni, segnando indelebilmente la storia del cinema e della televisione italiana. 

 

5/11/2017


Eventi culturali/ Musica

 

Tributo a Leonard Cohen: Montreal ricorda il suo "poeta della musica" a un anno dalla scomparsa. 

 

In occasione del primo anniversario della scomparsa dell'indimenticabile Leonard Cohen (1934-2016), una delle voci più celebri della storia della musica, Montreal, la città canadese che gli ha dato i natali - la più popolosa del Québec - lo ricorda con una serie di eventi che ripercorrono, attraverso i suoi brani, i principali luoghi dell'esistenza del grande artista, e con una mostra dal titolo "Leonard Cohen - Une brèche en toute chose / A Crack in Everything", ospitata dal 9 novembre al 9 aprile 2018 nelle sale del prestigioso Muséè d'Art Contemporain: 18 opere d’arte di 40 artisti provenienti da tutto il mondo. 

 

 

Leonard Norman Cohen era nato il 21 settembre del 1934 a Montreal, in Canada.

Aveva imparato a suonare la chitarra da ragazzo e aveva formato un gruppo folk, i Buckskin Boys. Presto ispirato da Federico Garcia Lorca si era rivolto alla poesia. Dopo la laurea alla McGill University, si era trasferito nell'isola greca di Hydra dove aveva pubblicato le sue prime raccolte di poesie, Flowers for Hitler nel 1964, i racconti The Favourite Game nel 1963 e Beautiful Losers nel 1966.

Frustrato dalle scarse vendite e poi dal lavoro in una fabbrica di vestiti a Montreal, visitò New York nel 1966 e si immerse nell'ambiente del folk-rock della città. Conobbe quindi la cantante folk Judy Collins, che in quello stesso anno inserì due canzoni di Cohen nel suo album In my life. Una delle due era il primo celeberrimo successo di Cohen “Suzanne”.

 

Tuttavia il primo disco da cantautore, Songs of Leonard Cohen, del 1967, non ottiene un gran successo, per via dei temi trattati: erano gli anni della spensieratezza hippy e un disco su suicidio e morte andava controcorrente. Per questo motivo molte recensioni dell’epoca stroncarono l’album, ritenendolo troppo triste e depresso.

 

Il secondo disco Songs from a Room esce nel 1969 e ne decreta il successo in hit-parade: in Canada arriva decimo, mentre in Inghilterra al secondo posto. Questo album propone canzoni che sono divenute pietre miliari, come la bellissima “Seems so long ago, Nancy” o la celeberrima “Bird on the Wire”.

 

Con il terzo disco, Cohen entra nell’olimpo dei cantautori. Songs of Love and Hate viene definito uno dei migliori dischi dell’anno. Seguirà una raccolta di canzoni live, Live Songs e nel 1974, il quarto disco in studio, New Skin for the Old Ceremony. Con il disco del 1977, Death of a Ladies’ Man, arrangiato con la collaborazione di Phil Spector, Cohen inizia a utilizzare un suono più pieno e meno acustico, prediligendo molti strumenti piuttosto che la sola chitarra classica. Al disco parteciperanno altri musicisti, tra i quali compare anche Bob Dylan.

 

Segue Recent Songs nel 1979, dove l’artista ritorna a un sound folk più simile agli esordi e nel 1984, Various Positions, un album folk rock, dal sound sperimentale, tra l’altro non gradito ai fan e alla critica che lo bollarono come non pienamente riuscito, seppur contenente la sua hit più celebre, Halleluja, canzone manifesto, una delle ballate più famose al mondo. Nel 1988 è la volta di I’m Your Man, disco nel quale Leonard abbandona la chitarra per passare alla tastiera.

 

Nel 1992 esce The Future, che si aggiudica il doppio disco di platino in Canada e il disco d’argento in UK. Nel 1994 esce il secondo disco dal vivo, Cohen Live, e nel 1997 la seconda raccolta di successi More Best of Leonard Cohen. Nel 2001 esce il live registrato durante il tour del 1979 (Field Commander Cohen: Tour of 1979) e un nuovo disco di inediti, Ten New Songs. Il 2002 è l’anno di uscita di The Essential Leonard Cohen altra raccolta di successi, dopo quella del 1989.

 

In seguito ad altri due anni di attesa Cohen pubblica un disco di inediti da studio Dear Heather, scritto con la sua corista storica Sharon Robinson. Il disco ottenne ottimo successo di pubblico, ma altalenanti risultati per quanto concerne la critica. Seguono ben tre album live, tra cui Live at the Isle of Wight che riprende il vecchio concerto del 1970 all’Isola di Wight e Live in London.

Il 30 gennaio 2012 è stato pubblicato Old Ideas, che ha seguito Songs from the Road (dal vivo) del 2010.

 

Il 22 settembre 2014 esce Popular Problems, tredicesimo album in studio contenente nove brani inediti. Dal 19 agosto dello stesso anno, viene pubblicato sulle maggiori piattaforme di streaming il brano Almost Like the Blues.

 

Leonard Cohen ha avuto due figli, Adam (anch’egli cantautore) e Lorca, entrambi nati da una relazione con l’artista Suzanne Elrod. Ha avuto inoltre una lunga relazione sentimentale con l’attrice Rebecca De Mornay.

 

“Il poeta della musica” si è spento nella sua casa di Los Angeles il 10 novembre del 2016, all’età di 82 anni. 

Il suo ultimo album, You Want It Darker, è stato pubblicato ad ottobre dello stesso anno.   

 

6/11/2017


Grandi Mostre

 

Monet in mostra al Complesso del Vittoriano 

 

 

Dal 19/10/2017 al 28/01/2018 l’Ala Brasini del Complesso del Vittoriano ospiterà una mostra dedicata a Claude Monet, il grande maestro dell’Impressionismo.

Oltre 60 opere, tra cui le splendide ninfee, custodite nella casa di Giverny fino alla sua morte e oggi conservate presso il Musée Marmottan Monet di Parigi.

L’esposizione spazia dai primissimi lavori - le celebri caricature della fine degli anni ‘50 dell’Ottocento - ai ritratti dei figli, alle tele dedicate agli amatissimi fiori del suo giardino fino alla inquietante modernità dei salici piangenti, del viale delle rose o del ponticello giapponese, per arrivare alle monumentali Ninfee e Glicini.

La mostra dunque renderà conto delle molteplici sfaccettature del suo lavoro, restituendo la ricchezza artistica di Monet. 

 

Info e prenotazioni al numero 06 8715111 

 

 

“Sono costretto a continue trasformazioni, perché tutto cresce e rinverdisce. A forza di trasformazioni, io seguo la natura senza poterla afferrare, e poi questo fiume che scende, risale, un giorno verde, poi giallo, oggi pomeriggio asciutto e domani sarà un torrente”.

                                                                                                                                Claude Monet

 

 

Nato il 14 novembre del 1840 a Parigi, la sua infanzia scorre nel porto di Le Havre dove il padre gestisce un negozio di forniture marittime.

Fin da bambino Claude Monet mostra un particolare talento artistico e a quindici anni comincia a realizzare, usando la tecnica della matita e del carboncino, alcune caricature di personaggi noti che vende nel negozio del padre e gli procurano già una discreta fama.

Continuerà a lavorare su quelle caricature arricchendone la tecnica con l’introduzione di effetti di luce e l’uso di colori a pastello.

Successivamente i disegni caricaturali lasceranno il posto a ritratti che si arricchiscono di un’indagine psicologica penetrante.

Negli anni trascorsi a Le Havre incontra il pittore Eugène Boudin, che segna notevolmente la formazione artistica di Monet incitandolo a cogliere la vitalità dinamica della natura da poter essere ritratta solamente sul posto, e consigliandogli dunque la pittura “en plein air” il cui tocco spontaneo non potrà essere mai riprodotto dentro un atelier. Gli insegna che deve sempre tenere bene in mente la prima impressione che sorge in lui nella visione del soggetto da dipingere e, solo successivamente, considerare gli altri dettagli, senza però mai cadere nell’errore di inserire altri oggetti. L’artista deve osservare con attenzione la natura ed afferrarne tutta la mutabilità degli istanti. Alla fine può scaraventare tutte le sensazioni sorte dal profondo del suo animo, derivate da tale osservazione minuziosa, sulla tela. Solo così il soggetto dipinto può trasmettere la vitalità delle emozioni racchiuse nell’animo dell’artista.

Lo stesso maestro di Monet si può considerare un anticipatore dell’impressionismo nel suo dipinto “Sulla spiaggia a Trouville” in cui si nota l’immediatezza visiva, la luminosità ed i giochi di colore che contraddistinguono quel movimento artistico.

Quando Boudin, colpito dalla vena espressiva del ragazzo, si rende conto che il giovane allievo ha superato di gran lunga il maestro, lo esorta a lasciare Le Havre e a trasferirsi a Parigi per poter così confrontarsi con altri giovani artisti alla ricerca di nuove forme tecniche.

Monet comprende già, l’anno prima di recarsi a Parigi, di aver iniziato a “vedere” e a “dipingere”: “In quel momento mi si aprirono gli occhi e cominciai a capire veramente la natura”.

Segue così il consiglio del suo maestro e nel 1859 si stabilisce a Parigi  con un bagaglio artistico che caratterizzerà tutta la sua produzione, incentrata su una crescita incessante che prende vita nella prima impressione visiva, ne elabora gli impulsi attraverso un filtro spirituale, per poter poi rimandare sulla tela delle immagini nuove.

E nella capitale della cultura, dove risiede a casa di una zia, frequenta la “Brasserie des Martyrs” (La “Birreria dei Martiri”) dove si incontrano gli artisti più rilevanti dell’epoca. Rifiuta gli insegnamenti accademici; il suo temperamento scevro da schemi prestabiliti e volto a catturare l’attimo fuggente lo induce a rigettare ogni studio del chiaro-scuro, che a parer suo sottrae l’immediatezza dell’emozione visiva. Il padre si oppone però a tale scelta e lo costringe a frequentare i corsi tenuti presso l’Accademie Suisse e dal pittore Gleyre. Non trarrà alcun vantaggio da tali lezioni, determinato a seguire ciò che il suo istinto gli suggerisce, ma stringerà amicizia con Pissarro, Renoir e Sisley.

Girovaga anche tra i sobborghi parigini e incontra quegli artisti rifiutati dal Salon con cui instaurerà un intenso legame umano e artistico, che li condurrà in seguito a creare insieme in un reciproco arricchimento di stili pittorici e di idee.

Conosce anche i pittori Corot, Manet, Delacroix, Coubert e il poeta Baudelaire.

Nel 1860 è costretto a interrompere la sua attività artistica a causa della guerra in Algeria, in cui resta ammaliato dai colori del luogo. L’anno seguente viene esonerato dal servizio e rientra a Parigi.

Realizza in poco tempo il dipinto “Nello studio”, ritenuto l’emblema del periodo conclusivo della sua formazione.

Dopo questo quadro si apre quel percorso di ricerca espressiva che accompagnerà tutta la vita dell’artista.

Il chiaro-scuro andrà a scomparire del tutto insieme al disegno prospettico; il cammino verso la rivoluzione impressionista è già intrapreso.

La sua tavolozza comincerà a schiarirsi e l’attenzione dell’artista si focalizzerà sullo studio della luce e del contrasto tra colori complementari. Colori che, quando vengono accostati, si rafforzano a vicenda e riescono a creare le ombre, giungendo così a un risultato di enorme luminosità.

Senza mai abbandonare l’en plein air, Monet incita gli altri pittori a sperimentare il linguaggio pittorico impressionista per poter così ottenere paesaggi che da statici diventano dinamici attraverso il coinvolgimento interiore dell’artista ai cambiamenti incessanti della luce, del continuo fluire della vita quotidiana cadenzata da una moltitudine di momenti irripetibili.

Estremamente incisivi gli anni che vanno dal 1865 al 1866; l’artista realizza delle opere interessanti che vengono accolte positivamente dal pubblico e da quasi tutti i critici.

“Camille in abito verde” è una delle opere più rappresentative di quel biennio, ma ancora per quella vera e propria rivoluzione artistica di Monet, che con i suoi fremiti cromatici scuote gli accademici del tempo, si deve attendere qualche anno.

La donna ritratta diventerà sua moglie nel 1870, cinque anni dopo aver avuto il primo figlio.

Gli anni che mostreranno la svolta decisiva impressionista di Monet cominciano proprio dopo il matrimonio con Camille, e nei dipinti che il pittore realizzerà dal 1870 in poi si potrà cogliere quello stile inconfondibile di un pittore estremamente volitivo pronto a sfidare la giuria del Salon.

Oltre al già citato “Impressione. Sorgere del sole”, simbolo del nuovo movimento e che induce un giornalista a coniare il termine “Impressionismo” per denigrare un’arte che si scompone in piccoli e straordinari frammenti di luce, nel 1873 Monet realizza un altro dipinto rivoluzionario: “I papaveri“. Un’opera sublime che cattura la luce di una giornata estiva ad Argenteuil, dove si è trasferito con la famiglia in una casetta in cui si dedica a un’altra delle sue passioni: il giardinaggio. Il dipinto in questione viene edificato senza indugiare sui dettagli e con una tecnica molto singolare: inizialmente il pittore ha creato la base per i papaveri con una spruzzata di colore e successivamente ha ritoccato le forme dei fiori usando delle macchie di colore per mettere in rilievo quella moltitudine floreale, facendo sì che l’effetto finale, percepito emotivamente da quella visione, mostri la diversità di ogni papavero.

Soggetto ad aspre critiche e a notevoli ristrettezze economiche, grazie all’aiuto economico di Manet, il pittore prosegue il suo cammino artistico donandoci delle opere in cui, con il passare del tempo, l’utilizzo rivoluzionario dei colori complementari diventa sempre più evidente. Viaggia molto anche a causa dello scoppio della guerra franco-prussiana, e al suo rientro realizza altri capolavori, tuttavia ancora poco apprezzati.

Dopo la morte della moglie, avvenuta nel 1879, si stabilisce a Giverny, in Normandia, dove allestisce la sua prima mostra personale insieme a Renoir. I suoi dipinti cominciano ad essere ammirati e compresi da un pubblico sempre più folto.

Con le mostre a Londra, seguite da quelle a Bruxelles, a New York e a Stoccolma, Monet diventa finalmente famoso e le sue opere gli recano notorietà in tutto il mondo.

Dopo il 1890 comincerà a dedicarsi al suo sogno, già preannunciato, di produrre dei dipinti seriali tra cui bisogna ricordare la serie dei “Pioppi” (1891), quella della “Cattedrale di Rouen” (1892-1894) e la realizzazione della serie dedicata alle  “Ninfee”, a cui si dedicherà fino alla morte.

Nell’opera “La Cattedrale di Rouen, primo sole” bisogna osservare con attenzione le parti illuminate e quelle in ombra.

La facciata della cattedrale, illuminata dalla luce dorata del mattino, viene dipinta di un giallo che apparentemente sembra contrastare con le ombre di color azzurro violaceo. In realtà quel colore si armonizza perfettamente con il giallo perché qualsiasi oggetto investito da una luce gialla rimanda delle ombre violette. Monet, attento osservatore dei fenomeni naturali, usa proprio quei colori complementari per creare le ombre che fino a quel momento erano state realizzate con l’utilizzo del grigio.

Gli ultimi anni della sua vita trascorrono dolorosamente; perde il primo figlio e si spegne la sua seconda moglie, Alice. I suoi problemi alla vista si acutizzano ogni giorno di più, ma non smette di dipingere le sue ninfee, nonostante sia ormai quasi cieco. Enormi dipinti di ninfee riempiono la sua casa, e chi si reca a fargli visita racconta di aver avuto un impatto visivo suggestivo e irreale, che trasmetteva un desiderio di infinito in quel pittore ormai malato di tumore ai polmoni e destinato a spegnersi il 5 dicembre del 1926, all’età di 86 anni.

In quegli stagni di ninfee di cui aveva riempito il suo giardino si riflette quel fascino esercitato dalla natura in questo grande pittore.

Se ci fermassimo più a lungo ad osservare la natura con occhi diversi, forse riusciremmo a coglierne quella mutabilità magica e sfuggente che Claude Monet ha cercato di fissare nelle sue opere. 

 

3/9/2017


Eventi culturali/ Mostre

 

“I mondi di Primo Levi” in mostra al Quirinale 

 

Nel trentennale della scomparsa di Primo Levi, dal 4 al 27 ottobre 2017 il Quirinale ospita, nella Palazzina Gregoriana, la mostra “I mondi di Primo Levi. Una strenua chiarezza”.

La mostra - a cura di Fabio Levi e Peppino Ortoleva - realizzata dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi di Torino, percorre la pluralità di esperienze e di interessi che hanno caratterizzato la vita e l’opera dello scrittore torinese: dalla formazione scientifica alla deportazione, dalla chimica come mestiere al mestiere di scrivere, al fine di dare al visitatore una nitida rappresentazione dei molti mondi, appunto, che Primo Levi ha attraversato o che ha saputo creare grazie al suo talento di scrittore.

Testi, audiovisivi e videoinstallazioni articolano le 6 sezioni del percorso espositivo. L'ingresso è gratuito. Info e prenotazioni: on line sul sito http://palazzo.quirinale.it, tramite Call Center, tel. 06 39.96.75.57, o presso l'Infopoint, salita di Montecavallo 15.

 

 

Primo Levi dunque (1919-1987): il ritratto di un uomo che ha consegnato alla letteratura, ma soprattutto alla storia, un’alta lezione di dignità e l’indicazione netta del percorso necessario per mantenere l’integrità della coscienza morale. 

 

5/10/2017


Grandi Mostre

 

Roma celebra Picasso alle Scuderie del Quirinale 

 

La mostra dal titolo “Picasso. Tra Cubismo e Classicismo 1915-1925” - aperta al pubblico fino al 21 gennaio 2018 presso le Scuderie del Quirinale - raccoglie un centinaio di capolavori esposti e scelti dal curatore Olivier Berggruen, in collaborazione con Anunciata von Liechtenstein, con prestiti di musei e collezioni eccellenti: dal Musée Picasso e dal Centre Pompidou di Parigi alla Tate di Londra, dal MoMa e dal Metropolitan Museum di New York al Museum Berggruen di Berlino, dalla Fundació Museu Picasso di Barcellona al Guggenheim di New York.   

La mostra si sofferma in particolare sul metodo del pastiche, analizzando le modalità e le procedure tramite le quali Picasso lo utilizzò come strumento al servizio del modernismo, in un percorso dal realismo all’astrazione tra i più originali e straordinari della storia dell’arte moderna. L’esposizione illustra gli esperimenti condotti da Picasso con diversi stili e generi: dal gioco delle superfici decorative nei collage, eseguiti durante la prima guerra mondiale, al realismo stilizzato degli “anni Diaghilev”, dalla natura morta al ritratto.

Info: 06 8110 0256 - info@scuderiequirinale.it - www.scuderiequirinale.it

 

A Palazzo Barberini inoltre, nel grandioso salone affrescato da Pietro da Cortona, è esposto - per la prima volta a Roma - il sipario dipinto per Parade, una immensa tela lunga 17 metri e alta 11.

 

Annoverato tra i protagonisti assoluti dell'arte del Novecento, Picasso ha rappresentato uno snodo cruciale tra la tradizione ottocentesca e l'arte contemporanea.

Ripercorriamone dunque la vita e le opere.

 

Pablo Picasso (1881-1973): il ritratto di un genio dell’arte. 

 

Nato a Malaga, in Spagna, il 25 ottobre del 1881, figlio di José Ruiz, professore di disegno e conservatore del museo di Malaga, Pablo Picasso - dal 1901 firmerà con il cognome della madre - inizia giovanissimo a disegnare.

Quando la famiglia si trasferisce a Barcellona (1895), partecipa alla vita intellettuale della città, aperta a tutte le correnti d'avanguardia: lavora con frenesia sperimentando varie tecniche.

Nell'ottobre del 1900 si reca per la prima volta a Parigi e si interessa prevalentemente all'arte di Steinlen, Toulouse-Lautrec e Vuillard. Negli anni seguenti torna a Parigi e infine nel 1904 vi si stabilisce: la lascerà soltanto per brevi periodi.

Tra il 1901 e il 1904 le sue opere - che ripropongono nei temi espressioni dolenti di tragiche condizioni umane e sociali - sono caratterizzate da un disegno stilizzato e pungente, da una intonazione monocroma blu che definisce duramente i volumi (periodo blu).

Dal 1904 acrobati, suonatori ambulanti, arlecchini popolano le sue tele e i suoi disegni, con note di tenera malinconia, mentre il blu è sostituito da tonalità grigio-rosa (periodo rosa).

Il Ritratto di Gertrude Stein (1906, New York, Metropolitan Museum) prelude nella semplificazione e nella saldezza delle forme ai dipinti più direttamente influenzati dall'arte negra, di cui Picasso sente acutamente il fascino. Le Demoiselles d'Avignon (1907, New York, Museum of modern art) nella redazione definitiva - dopo tre versioni e numerosi studî - sono al centro di una ricerca ossessiva di tutte le possibilità espressive della figura umana nella scomposizione dei volumi e nel trattamento schematico dei piani; l'opera, mostrata solo a pochi amici, verrà riprodotta nel 1925 ne La révolution surréaliste e presentata nell'Esposizione universale di Parigi del 1937.

Da queste premesse e da una nuova e approfondita conoscenza dell'opera di Cézanne nasce il cubismo. In una ricerca, che si svolge parallela a quella di Braque, Picasso analizza gli elementi volumetrici delle immagini mediante la loro scomposizione geometrica in piani sovrapposti e giustapposti, in un ritmo complesso che porta al superamento della tradizionale impostazione fondo-immagine.

Con la presentazione simultanea delle varie facce dell'immagine, andando oltre la visione tridimensionale, realizza sul piano la quarta dimensione (le forme divengono simboli spazio-temporali) e contestualmente elabora anche le sue esperienze in scultura (Testa femminile, bronzo, 1909, Parigi, Musée Picasso).

Dall'analisi e sezionamento dell'oggetto che conduce alla scoperta di forme, costituenti gli elementi formali della composizione (cubismo analitico), Braque e Picasso giungono alla scoperta del processo che, gradualmente, conferisce un significato oggettivo a composizioni di elementi puramente pittorici (cubismo sintetico); in questo processo grande importanza ha l'invenzione del papier collé e del collage.

Nel 1915 Picasso ritorna alla rappresentazione oggettiva, dapprima ricalcando, soprattutto nei disegni, la via del rigoroso classicismo di Ingres, poi tentando di realizzare una nuova monumentalità in una serie di figure "colossali"; ma ben presto si rifà, specialmente nelle nature morte, alla scomposizione di tipo cubista.

Contro la corrente classicistica, che domina in tutta Europa, Picasso insorge con un quadro di Danzatrici (1925, Londra, Tate Gallery), nel quale la scomposizione cubista si trasforma in una vera e propria deflagrazione formale. Benché Picasso non abbia esplicitamente aderito al surrealismo, le opere di questo periodo, in cui la deformazione giunge spesso a una voluta mostruosità, sono considerate surrealiste; solo nel periodo detto delle ossa (1928-29) si ha una vera e propria visione surrealista. Ma l'istinto formale, plastico dell'artista riprende il sopravvento sulla poetica del surrealismo; con un gruppo importante di sculture (1930-34; busti, nudi femminili, animali, costruzioni metalliche), nascono dipinti d'alto valore espressivo, nei quali la deformazione diventa apostrofe morale, simbolo delle deformazioni interiori dell'uomo moderno.

Durante la guerra civile spagnola Picasso vive con forte impegno il dramma del suo paese: per un breve periodo è direttore del Prado. La spietata denuncia degli orrori del fascismo e della guerra che impronta le violente acqueforti che illustrano il poemetto Sueño y mentira de Franco, raggiunge i toni più alti del dramma in Guernica (ora nel Museo Reína Sofia), espressione dello sdegno più intenso dopo il bombardamento tedesco della cittadina, risolta in una ridotta gamma cromatica di bianchi e di neri; costretta l'azione nello spazio di una stanza, dalle macerie, lacerati brandelli della coscienza, affiora il toro, simbolo della violenza e della brutalità. L'opera, la cui denuncia va oltre l'episodio contingente che l'ha originata, esposta nel padiglione spagnolo dell'Esposizione Universale di Parigi del 1937, suscitò profonda commozione e consensi. Simboli d'orrore sono anche i Minotauri e le Tauromachie, come poi, durante la Seconda guerra mondiale, le donne mostruosamente deformi e le nature morte.

Dopo la guerra, è un nuovo periodo di distensione; iscritto al Partito comunista francese dal 1944, Picasso partecipa a vari congressi della pace ed esegue l'affiche con la colomba per quello di Parigi del 1949. Dal 1947 soggiorna a Vallauris, dove si dedica prevalentemente alla ceramica, poi a Cannes e dal 1961 si stabilisce a Mougins.

Pur senza abbandonare la scomposizione violenta della forma, Picasso sa piegarla a esprimere affetti familiari, limpidi sentimenti umani; con maggiore serenità ricerca nei miti classici e nell'antichissima tecnica della ceramica il senso profondo dell'anima mediterranea.

La sua tecnica prodigiosa, la sua dirompente forza creativa, il suo pathos ardente giungono a espressioni quasi idilliche come nel grande pannello La Pace, o di alto senso morale come in quello La Guerra (entrambi del 1952-54, Vallauris, Musée national Pablo Picasso).

Tra le sue ultime opere si ricordano una serie di variazioni su Las Meninas di Velázquez (1957, Barcellona, Museo Picasso) e su Le déjeuner sur l'herbe di Manet (1961) e un grande murale per la sede dell'UNESCO a Parigi (1958).

Nel 1963 fu aperto a Barcellona il Museo Picasso, con dipinti, sculture e opere grafiche picassiane donate da J. Sabartés. Nel 1970 Picasso, in memoria dello stesso Sabartés, donò alla città di Barcellona circa mille opere tra dipinti, disegni e incisioni. A Parigi, nel Musée Picasso (aperto nel 1985) è stata raccolta la vastissima collezione di opere che Picasso ha lasciato alla Francia.

Il grande artista si è spento a Mougins l’8 aprile del 1973, all’età di 92 anni. 

 

5/10/2017


Anna Magnani in mostra al complesso del Vittoriano 

 

Tra i grandi eventi proposti da “Il Vittoriano tra musica, letteratura, cinema e architettura”, la mostra “Anna Magnani: una vita per il cinema”- curata dal regista, giornalista e critico cinematografico Mario Sesti - è promossa e organizzata dal Polo Museale del Lazio in collaborazione con il Centro Sperimentale - Cineteca Nazionale dell’Istituto Luce e con Teche Rai.

Oggetti, fotografie, materiali audio e video ripercorrono la carriera dell’indimenticabile attrice simbolo del dopoguerra e del neorealismo italiano: dai suoi esordi nel teatro e nella rivista fino ai successi di Cinecittà e di Hollywood.

L’esposizione è aperta al pubblico da sabato 22 luglio fino al 22 ottobre 2017, presso la Sala Zanardelli del Complesso del Vittoriano.

 

Alla mostra è collegata la proiezione - sulla Terrazza Italia del Vittoriano alle ore 21 - di tre film: “Bellissima” (1952) di Luchino Visconti, il 24 luglio, “Mamma Roma” (1962) di Pier Paolo Pasolini, il 31 luglio, e “L’amore” (1948) di Roberto Rossellini, il 7 agosto; una selezione - quella di Mario  Sesti - volta dunque a privilegiare la ricerca “neorealista”. 

 

Anna magnani è stata un'attrice - e una donna - divisa a metà: la sua maschera tragica, i suoi occhi foschi da Medusa, il suo carattere cupo e prepotente l'hanno naturalmente candidata al ruolo di madre mediterranea. Ma la sua ironia sferzante, il suo umorismo petroliniano, la sua risata anarchica ne hanno fatto una perfetta “comédienne.

Ha costruito la propria carriera fra questi due poli espressivi, che soltanto pochi grandissimi registi hanno saputo coniugare al loro meglio: Luchino Visconti, che ci ha regalato una meravigliosa Magnani in “Bellissimae Roberto Rossellini, che l'ha fatta diventare la massima icona del neorealismo con quella disperata corsa dietro il camion tedesco di “Roma città aperta.

Anna Magnani non è stata un'attrice facile. Ed è stata una donna difficilissima, con improvvise durezze, grandi diffidenze, inaspettati abbandoni.

A chi le chiedeva notizie della sua infanzia, offriva ogni volta una versione diversa.

Era nata a Roma, il 7 marzo del 1908, da Marina Magnani e da un padre che è rimasto ignoto. Ma teneva a precisare di non aver visto i natali ad Alessandria d'Egitto, come invece era scritto sull'Enciclopedia dello Spettacolo

Cresciuta dalla nonna e dalle zie, Anna Magnani dichiarò di aver voluto fare l'attrice “per essere amata”. E infatti la troviamo, neppure ventenne, fra gli allievi dell'Accademia d'Arte Drammatica fondata da Silvio d'Amico, compagna di corso di un giovanotto dall'aria aguzza di nome Paolo Stoppa. Al saggio del primo anno tutti e due ottennero una scrittura: Anna entrava in compagnia con Dario Niccodemi, Paolo con Wanda Capodaglio.

In quella sera del 1927, da allievi, divennero teatranti. Nel ‘32 la Magnani è già una diva del teatro leggero: prima attrice nella compagnia di Michele Gandusio. Ma il suo viso irregolare sembra poco adatto al cinema, che in quell'epoca chiede protagoniste dai visi luminosi e gentili. Nunzio Malasomma la chiamò a interpretare una piccola parte nel ‘34 in un dramma strappalacrime intitolato “La cieca di Sorrento.

Anche Goffredo Alessandrini, celebrato e bravissimo cineasta che Anna conosce e sposa nel 1935, non le offre che un'apparizione in “CavalleriaSecondo lui Anna è “negata”.

 

Il teatro, invece, la acclama nelle riviste di Michele Galdieri, in cui recita anche Totò.

È Vittorio De Sica a ricondurla sul set, offrendole un ruolo secondario ma succoso in “Teresa Venerdì”. Finalmente Anna può offrire alla macchina da presa il suo estro caricaturale, la sua bellezza anomala, la sua presenza.

Il cinema sta cambiando, sta abbandonando le commedie magiare per guardare con occhio più attento la realtà quotidiana: e così la Magnani, che continua a furoreggiare in teatro, precisa sullo schermo il personaggio della romana arguta, indomabile, brusca ma di buon cuore, in due film modesti ma gradevolissimi: “Campo de' Fiori e “L'ultima carrozzellainterpretati accanto a Aldo Fabrizi. Gli stessi due attori che Rossellini sceglierà per “Roma città aperta.

A quel film Anna arriva provata da molte traversie private: il suo matrimonio con Alessandrini è finito, la sua storia con il giovane Massimo Serato ha avuto vita breve, la nascita del loro figlio Luca, accettato con gioia, le ha impedito di interpretare “Ossessione di Luchino Visconti. Accolto con freddezza in Italia, “Roma città aperta vince il festival di Cannes del 1946 e consacra Rossellini, cui Anna nel frattempo si è legata, regista di fama internazionale.

I due lavoreranno ancora insieme nel dittico “L’amore”, ma la loro vicenda sentimentale finirà presto, perché Rossellini si innamora, ricambiato, di Ingrid Bergman.

Dopo qualche commedia leggera, e un memorabile ritratto femminile ne “L'onorevole Angelina di Luigi Zampa, la Magnani riesce finalmente a lavorare con Luchino Visconti: “Bellissimadel 1952, le offre l'occasione di un'interpretazione “gigantesca”.

L'anno seguente è con Jean Renoir, ne “La Carrozza d'oro”. Intanto il legame fra Anna e il cinema italiano si sfilaccia. Nel ‘54, convinta da Tenessee Williams, l'attrice accetta di lavorare in America,  e con il film di Daniel Mann “La rosa tatuata vince l'Oscar.

Ma neppure questo successo internazionale riannoda i fili di un rapporto ormai logoro: “Nella città l'infernodi Renato Castellani, “Risate di gioia”, di Mario Monicelli, persino “Mamma Romadi Pier Paolo Pasolini (del 1962), sono film irrisolti, in cui la Magnani, pur bravissima, è sempre più a disagio. Il cinema le offrirà solo delusioni, a parte due piccolissime memorabili partecipazioni: un episodio in “Made in Italy di Nanni Loy, e l'apparizione in “Roma”, di Federico Fellini, in cui Anna chiude il portone di Palazzo Altieri, dove abita, negandosi alla macchina da presa.

Quasi una sorta di premonizione, di addio. È il ‘72. L'anno seguente la Magnani muore - il 26 settembre del 1973 - la stessa sera in cui la Rai decide di trasmettere l'ultimo dei quattro film che aveva interpretato per la televisione, “Correva l'anno di grazia 1870scritto e diretto da Alfredo Giannetti. 


Ferragosto al Museo/ La proposta

 

“Spartaco. Schiavi e padroni a Roma”: una mostra li racconta all’Ara Pacis.

 

  

È visitabile fino al 17 settembre la mostra "Spartaco. Schiavi e padroni a Roma", ospitata dal Museo dell’Ara Pacis.

La mostra - grazie a un team di archeologi, scenografi, registi e architetti - racconta la complessità del mondo degli schiavi nell'antica Roma, a partire dalla rivolta servile guidata da Spartaco tra il 73 e il 71 a.C.

I diversi ambiti della schiavitù vengono ricostruiti attraverso 11 sezioni che raccolgono circa 250 reperti archeologici affiancati da una selezione di 10 fotografie sulle forme di schiavismo dell’epoca post-industriale e contemporanea. Le opere sono inserite in un racconto immersivo composto da installazioni audio e video che riportano in vita suoni, voci e ambientazioni del contesto storico.

Chiudono il percorso i contributi forniti dalla Organizzazione Internazionale del Lavoro, Agenzia Specializzata delle Nazioni Unite nei temi del lavoro e della politica sociale, impegnata nell’eliminazione del lavoro forzato e altre forme di schiavitù legate al mondo del lavoro.

L’esposizione, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali con l’organizzazione di Zètema Progetto Cultura, è ideata da Claudio Parisi Presicce e Orietta Rossini. 

 

Tutto cominciò nel 73 a.C. a Capua, in una scuola per gladiatori.

Circa 200 gladiatori organizzarono un complotto che venne scoperto: solo 60-70 di essi riuscirono a fuggire, tra i quali Spartaco e i galli Crisso ed Enomao. Lungo la strada, il gruppetto di fuggitivi si impadronì di un convoglio di armi destinate ai gladiatori e si rifugiò sul Vesuvio.

 

Successivamente il gruppo si arricchì sempre di più, alimentato dagli schiavi e dagli sbandati attirati dall'uso di Spartaco di dividere in parte uguale i bottini. Tutto questo si svolgeva nell'indifferenza di Roma.

 

In seguito a un conflitto con un piccolo gruppo di soldati romani, l'esercito di schiavi e gladiatori si impadronì di armi vere. Con queste sconfisse poi le legioni di Caio Clodio, giunto sul posto per contrastare la minaccia. Egli si attestò all'imbocco dell'unica strada che discendeva il Vesuvio, tuttavia Spartaco riuscì a colpire le legioni alle spalle, di sorpresa, calando i suoi uomini legati a delle corde giù per il declivio più scosceso. Questa fu la prima azione eclatante del suo esercito.

 

Altra importante vittoria fu quella ottenuta contro il pretore Publio Varinio e i suoi luogotenenti: Spartaco riuscì a impadronirsi persino dei cavalli e dei simboli littori dell'esercito.

 

In breve tempo la rivolta si estese a gran parte del sud della penisola: furono coinvolte la Campania, la Lucania e forse l'Apulia. In questo periodo lo storico Sallustio parla del massacro indiscriminato dei padroni da parte degli schiavi, massacri ed efferatezze alle quali tentò inutilmente di porre argine lo stesso Spartaco, che aveva piani ben più nobili.

 

Il piano di Spartaco era quello di risalire la penisola con il suo esercito e di oltrepassare le Alpi, in modo da rendere la libertà agli schiavi.

Tuttavia non tutti erano d'accordo con il suo piano, nella sostanza, incruento.

I galli capeggiati da Crisso decisero di staccarsi dall'esercito di Spartaco, quasi venendo alla lotta fratricida: si pensa che tale scissioni sia stata dovuta al fatto che Crisso intendeva combattere Roma a viso aperto, piuttosto che fuggire oltralpe. Spartaco sembrava invece di vedute più modeste e realistiche: difficilmente il suo esercito avrebbe potuto combattere frontalmente l'intero apparato statale di Roma.

 

Fu durante questa lotta interna al movimento ribelle che Roma decise di inviare contro i rivoltosi i due consoli del 72 a.C., Lucio Gellio e Gneo Cornelio Lentulo. I 20.000 galli di Crisso affrontarono l'esercito di Quinto Arrio, pretore di Gellio, presso il monte Gargano. L'esercito dei rivoltosi fu sconfitto e lo stesso Crisso morì.

 

Sebbene la scissione e la sconfitta di Crisso avessero in parte indebolito l'esercito di Spartaco, egli riuscì ugualmente a manovrare i suoi uomini in modo da aggirare gli scontri con i due consoli: quando, risalito gli Appennini, giunse a Modena, il suo esercito contava circa 120.000 unità.

 

A questo punto però Spartaco decise di ritornare verso sud: questa scelta, secondo gli storici, non fu dettata da un suo preciso volere, ma piuttosto dal volere e sotto la pressione del suo enorme seguito, che lo costrinse a restare in Italia per tentare, in un eccesso di euforia, di saccheggiare Roma. Pare quindi che Spartaco non riuscisse più a controllare l'enorme seguito di uomini che aveva raggruppato.

 

Nonostante Spartaco, da uomo intelligente, si guardasse bene dall'avvicinarsi a Roma, i romani decisero ugualmente di affidare il compito di sconfiggere definitivamente la sua minaccia a Marco Licinio Crasso.

 

Egli intendeva circondare gli schiavi nel Piceno, ma il suo luogotenente, Mummio, incaricato di aggirare il nemico con le sue legioni, disobbedì agli ordini e attaccò Spartaco. Le legioni romane vennero ancora una volta sconfitte e Spartaco poté dirigersi nel Bruzio, presso Turi. Qui, molti mercanti si erano radunati per commerciare il bottino dei beni raccolti dagli schiavi, ma Spartaco proibì che ricevessero in cambio oro e argento: i suoi uomini dovevano accettare solo ferro e rame, necessari per forgiare nuove armi.

 

Il piano di Spartaco diventò allora quello di sbarcare in Sicilia attraverso lo stretto, in modo da ravvivare nell'isola la rivolta di schiavi mai completamente sopita. Non vi riuscì a causa del tradimento dei pirati, che si misero probabilmente d'accordo con Verre, governatore della Sicilia, rifiutando a Spartaco le navi, mentre già le coste della Sicilia erano presidiate.

 

Crasso intanto sopraggiungeva alle spalle di Spartaco, ed ebbe l'idea di sfruttare la conformazione del Bruzio (la Calabria) per confinare nella regione i nemici: egli fece costruire un vallo presidiato dalla costa ionica a quella Tirrenica, lungo 300 stadi (55 km). Nell'inverno del 72-71 a.C, dopo ripetuti tentativi di forzare il passaggio, Spartaco riuscì a passare il vallo in una notte di tempesta.

 

A questo punto Crasso richiese aiuto al senato che gli inviò Pompeo. Egli doveva rientrare in tutta fretta dalla Spagna, dove aveva posto fine alla rivolta di Sartorio, mentre dalla Macedonia, sbarcando a Brindisi, sarebbe accorso Marco Licinio Lucullo.

 

Il cerchio si stringeva attorno a Spartaco, che decise di dirigersi verso Brindisi, forse nel tentativo disperato di oltrepassare l'Adriatico

A questo punto, l'ennesima scissione degli schiavi galli e germani, capeggiati da Casto e Giaunico, indebolì questa volta decisivamente il suo esercito.

I due capi ribelli mossero contro Crasso, che li sconfisse.

 

Saputo dell'imminente arrivo di Lucullo a Brindisi, Spartaco tornò indietro e si diresse in Apulia, verso le truppe di Pompeo. Qui si svolse la battaglia finale: 60.000 schiavi, tra i quali Spartaco, morirono (ma il corpo del condottiero non fu mai trovato). I romani persero solo 1.000 uomini e fecero 6.000 prigionieri. Altri reparti dell'esercito ribelle, circa 5.000 uomini, tentarono la fuga verso nord, ma vennero raggiunti e annientati da Pompeo.

Terminava così la rivolta di Spartaco.


Ferragosto al Museo/ 2 

 

Roma celebra Botero al Complesso del Vittoriano

 

 

È aperta al pubblico fino al 27 agosto 2017 la mostra su Fernando Botero, inaugurata nell’Ala Brasini del Complesso del Vittoriano lo scorso 5 maggio. 50 capolavori provenienti da tutto il mondo ripercorrono oltre cinquant’anni di carriera del grande artista colombiano, che quest’anno ha spento 85 candeline!    

Ad accogliere i visitatori - fuori dalla mostra - la gigantesca scultura in bronzo “Cavallo con Briglie”.   

 

 

 

 

Molti lo considerano come il più importante artista sudamericano vivente: stiamo parlando di Fernando Botero Angulo.

 

Nato in Colombia il 19 aprile del 1932, pittore e scultore, Botero ha esposto per la prima volta nel 1948 a Medellìn: è molto conosciuto per il suo particolarissimo stile, talmente originale da meritare un nome proprio, “Boterismo”.

 

L'artista interpreta i soggetti delle sue opere d'arte, e conferisce loro una volumetria esagerata e sproporzionata estremamente espressiva, nonostante gli occhi siano fissi, quasi persi nel vuoto. Tra i temi trattati nella sua produzione ci sono temi sacri, temi sociali, ma anche temi come la maternità.

 

Nel 1951 Botero ha realizzato la sua prima personale nella capitale della Colombia, Bogotá. Negli anni ha lavorato anche in Francia, Italia e Spagna. Nel 1966 è stata organizzata la sua prima mostra europea, in Germania.

 

Nel corso della sua carriera, Botero ha donato numerose opere d'arte ai musei di Bogotà: nel 2000 ad esempio ha ceduto 123 pezzi suoi e 85 pezzi della sua collezione personale di altri pittori (come Chagall, Picasso e alcuni impressionisti francesi).

 

L'artista ha fatto però qualcosa di molto speciale per la sua città natale, la già citata Medellìn.

A Medellìn, che è anche la seconda città più grande della Colombia, nel quartiere conosciuto come “quartiere vecchio” vi è infatti Botero Plaza. Si tratta di un parco che ospita le 23 sculture che l'artista ha donato, insieme ad altre, alla città in occasione della ristrutturazione del Museo di Antioquia - che sorge proprio vicino al parco insieme al Rafael Uribe Palazzo della Cultura - avvenuta nel 2004.

 

Sempre al Museo di Antioquia Botero ha donato 119 pezzi.


 

“Il mestiere del narratore”: omaggio a Dario Fo e Franca Rame a Palazzo Barberini. 

 

 

Dario Fo e Franca Rame: due vite che si raccontano in una mostra che ripercorre la storia dei due grandi artisti - lui premio Nobel per la letteratura nel 1997 - attraverso circa 150 opere. Disegni, tele, arazzi, copioni, foto, documenti, pupazzi, maschere, costumi e oggetti di scena che vengono usati per raccontare la magia di usare il palcoscenico come mezzo per narrare una storia.

Inaugurata il 23 marzo dal ministro Dario Franceschini, la mostra-ricordo “Dario Fo e Franca Rame: il mestiere del narratore”, a cura della Compagnia Teatrale Fo-Rame, in collaborazione con il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, è visitabile fino al 25 giugno 2017 presso la sede di Palazzo Barberini. 

 

Dario Fo è nato a Sangiano, in provincia di Varese, il 24 marzo del 1926.

Fin dagli esordi negli anni Cinquanta, come attore e autore di riviste e atti unici farseschi, ha rivelato spiccate doti mimiche e intelligenza scenica, mettendole al servizio di un progetto di rinnovamento integrale del teatro comico italiano. Tale progetto, cui ha dato un notevole contributo, come coautrice e prima attrice, la moglie Franca Rame (1929-2013), si è espresso in una ricca produzione di spettacoli, che, dalle brillanti commedie della prima fase (Gli arcangeli non giocano a flipper, 1959; Aveva due pistole dagli occhi bianchi e neri, 1960; Chi ruba un piede è fortunato in amore, 1961), passando attraverso l'esperimento brechtiano di Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963), la satira politica di Settimo, ruba un po' meno (1964) e La signora è da buttare (1967), e la scoperta del ricco patrimonio di canti popolari tradizionali (Ci ragiono e canto, 1966), è giunto alle farse degli anni Settanta, di ispirazione apertamente protestataria e militante, anche nella scelta di un pubblico popolare e nella ricerca di luoghi e circuiti di rappresentazione alternativi a quelli ufficiali (Morte accidentale di un anarchico, 1970; Tutti uniti, tutti insieme, ma scusa quello non è il padrone?, 1971; Guerra di popolo in Cile, 1973; Il Fanfani rapito, 1975; La marijuana della mamma è sempre più bella, 1976; ecc.), e, nella fase successiva, alla satira più divertita di Clacson, trombette e pernacchi (1980), Coppia aperta (1983), Il papa e la strega (1990), Zitti, stiamo precipitando (1990), Johan Padan a la descoverta de le Americhe (1991).

Coerente testimonianza della sua opzione estetica per la creatività giullaresca dei ceti più bassi, può essere considerato Mistero buffo, più volte ripreso e modificato dopo la prima rappresentazione (1969).

Nel 1997 è stato insignito del premio Nobel per la letteratura. Dopo il riconoscimento, si è impegnato soprattutto in campagne politiche e democratiche.

Con lo spettacolo Marino libero! Marino è innocente! (1998), sorta di monologo con mimi e pupazzi in forma di arringa, ha proposto una lettura polemica del processo ad Adriano Sofri e ad altri esponenti di Lotta Continua per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi. Nel 1999 ha creato Lu santo jullare Francesco, monologo sulla figura del santo di Assisi. Del 2003 è l'opera satirica L'anomalo bicefalo, e del 2007 Sotto paga, non si paga, rielaborazione di un testo degli anni Settanta.

La sua decennale inventività figurativa, oltre a pupazzi e bozzetti di costumi per i suoi spettacoli, ha prodotto disegni, caricature, acquerelli, ritratti, tavole e fumetti, dal segno personalissimo e di beffarda e sgargiante incisività. Da ricordare è anche la presenza di Fo in spettacoli televisivi come per esempio Canzonissima nel 1962.

Oltre a Le commedie (6 voll., 1974-84), ha pubblicato anche il Manuale minimo dell'attore (1987). Gli è stata assegnata la laurea honoris causa dall'università della Sorbona di Parigi (2005) e dall'università La Sapienza di Roma (2006).

Fo ha inoltre continuato a essere molto attivo in campo politico e sociale: nel 2006 alle elezioni comunali di Milano ha presentato una propria lista (Uniti con Dario Fo), venendo eletto consigliere comunale; tuttavia dopo pochi mesi ha rinunciato al mandato.

Negli ultimi anni Fo ha portato in scena diversi spettacoli, come l’inedito Sant’Ambrogio e l’Invenzione di Milano (2009) e Monologhi di Franca Rame e Dario Fo (2011); nel 2011 ha curato la regia de Il barbiere di Siviglia (Teatro Massimo Bellini di Catania).

Cospicua anche la produzione letteraria. Tra le pubblicazioni più recenti si ricordano: Il mondo secondo Fo. Conversazione con Giuseppina Manin (2007), Giotto o non Giotto (2009), L’osceno è sacro (2010), Arlecchino (2011), Dio è nero! Il fantastico racconto dell'evoluzione (2011), Il paese dei misteri buffi (con G. Manin, 2012); i suoi primi romanzi, entrambi del 2014, La figlia del papa, sulla vita di Lucrezia Borgia, e Ciulla, il grande malfattore (con P. Sciotto), storia di Paolo Ciulla, il pittore anarchico siciliano che produsse le sue banconote da 500 lire, beffando la Banca d’Italia. Nel 2012 è stata allestita al Palazzo Reale di Milano la mostra Dario Fo a Milano. Lazzi, sberleffi, dipinti, in cui l'artista fa della pittura un veicolo alternativo di satira politica, mentre è del 2014 la riscrittura in una nuova versione dal titolo Lu santo jullàre Françesco del lavoro del 1999, portata sulla scena teatrale ed edita nel volume omonimo nello stesso anno, e dell'anno successivo il romanzo storico su Cristiano VII C'è un re pazzo in Danimarca.

Nel 2015 ha pubblicato il Nuovo manuale minimo dell'attore e Storia proibita dell'America, e sono dell'anno successivo il romanzo Razza di zingaro, tratto dalla vera storia del pugile sinti Trollmann, e Dario e Dio (con G. Manin), in cui affronta i temi della fede e della religiosità.

Per i suoi 90 anni l'Archivio di Stato di Verona ha aperto un museo-laboratorio, il Musalab, dedicato al premio Nobel e a Franca Rame.

Dario Fo si è spento a Milano il 13 ottobre del 2016, all’età di 90 anni.

 

Franca Rame, nata a Villastanza di Parabiago, nel Milanese, il 18 luglio del 1929, è stata un'attrice teatrale, drammaturga e politica italiana. Figlia d'arte - padre attore discendente da un'antica famiglia di burattinai - a vent'anni ha esordito nella rivista al Teatro Olimpia di Milano. Quattro anni più tardi, ha sposato Dario Fo, iniziando con lui un lunghissimo sodalizio artistico e di vita matrimoniale.

Negli anni Sessanta i due hanno conquistato le platee dei teatri cittadini con la "Compagnia Dario Fo-Franca Rame", dove lui operava come regista e drammaturgo, lei invece come prima attrice e amministratrice.

Identica complicità i due hanno dimostrato nel sostenere gli ideali del Sessantotto, andando a recitare nelle fabbriche e nelle scuole e toccando problematiche sensibili, in particolare i diritti delle donne. L'inizio dei cosiddetti "Anni di piombo" hanno riservato alla Rame la pagina più dolorosa della sua esistenza: sequestrata da una banda di estremisti di destra, è stata vittima di violenze e stupro.

Era la primavera del 1973. Tre anni dopo quella drammatica esperienza è stata trasposta in un monologo, dal titolo "Lo stupro", che ha recitato anche in televisione. Il 2006 l’ha vista eletta al Senato, tra le fila di Italia dei valori, carica che ha lasciato due anni più tardi, in disaccordo con le scelte governative.

Autrice insieme con il marito, nel 2009, dell'autobiografia "Una vita all'improvvisa", Franca Rame si è spenta a Milano il 29 maggio del 2013.


“Il canto dell’usignolo”: omaggio a William Shakespeare al Teatro Ghione.

 

Glauco Mauri e Roberto Sturno, accompagnati dalle musiche composte ed eseguite in scena da Giovanni Zappalorto, sono i protagonisti della serata che attraverso la poesia dei brani tratti da Enrico V, Come vi piace, Riccardo II, Timone d’Atene, Giulio Cesare, I Sonetti, Re Lear, La Tempesta, danno voce alle immortali opere di William Shakespeare: «l’usignolo» che con il suo canto ci parla della vita di tutti noi. Un omaggio al grande poeta inglese, presenza centrale, da quattrocento anni, della cultura europea.

 

Dall’1 al 9 aprile 2017 al Teatro Ghione di Roma.

 

William Shakespeare nasce a Stratford on Avon, il 23 aprile del 1564.

 

Drammaturgo, poeta e attore, è senza dubbio la personalità artistica più originale e innovativa del teatro di età elisabettiana. Attraverso la costante ricerca stilistica e la lunga riflessione sulla società barocca, infatti, Shakespeare annuncia alcuni temi fondamentali che saranno successivamente sviluppati negli anni della Restaurazione.

 

A soli diciotto anni William decide di convolare a nozze e sceglie come moglie la ventisettenne Anne Hothaway, da cui avrà la figlia Susan e i due gemelli Hamnet e Judith. Giovane colto e capace di una sensibilità artistica non comune, concentra la sua attività di poeta e di drammaturgo tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo: è in questo periodo che scrive i suoi capolavori, contemporaneamente riuscendo a superare, anno dopo anno, i limiti stilistici e tematici degli esordi, fino a raggiungere una propria visione del teatro.

 

L'esordio del noto poeta inglese avviene attraverso due poemetti narrativi già scritti in uno stile maturo, destinati a divenire tra le prove di poesia più alte del periodo elisabettiano: si tratta di "Venere e Adone" del 1593 e di "Lucrezia violata" del 1594. Presentano ancora dei limiti stilistici invece i primi drammi contemporanei alle opere in versi, che però, secondo alcuni critici avveduti, probabilmente sono stati composti precedentemente e per questo caratterizzati dalle insicurezze tipiche delle prime prove letterarie. Sono l'"Enrico VI" e il "Tito Andronico", dove è già presente l'alternarsi di passioni più o meno intense che caratterizzerà le opere mature. Del resto il primo dramma può essere considerato un preludio al "Riccardo III", l'opera dove compare il duca di Gloucester, uno degli intramontabili personaggi negativi shakespeariani, ideato sull'immagine mefistofelica che di Machiavelli dà Innocent Gentilet. Il "Tito Andronico" riprende invece temi cari agli autori classici, tra cui il Plauto dei Menaechmi e dell'Amphitruo; i protagonisti dell'opera sono semplici maschere sociali svuotate di vitalità, figure che si adagiano al ruolo che l'autore prevede per loro nello svolgersi delle vicende.

 

I personaggi ritrovano vitalità e iniziativa di azione ne "La bisbetica domata", del 1594. Si tratta di una commedia tutt'oggi spesso ricordata, ispirata ai "Suppositi" dell'Ariosto, con la quale si conclude il primo periodo sperimentale del drammaturgo inglese, durante cui l'autore ricerca forme di espressione e uno stile che possano personalizzare il suo teatro. Seguono tre opere ormai pienamente mature: "Giulietta e Romeo", "Riccardo II" e "Sogno di una notte di mezz'estate", tutte datate 1595.

 

Un ulteriore passo avanti verso un'espressione artistica sempre più matura e consapevole viene compiuto con "Il mercante di Venezia" e con "Enrico IV", datate rispettivamente 1594/95 e 1597/98. In queste tragedie compaiono due grandi personaggi negativi shakespeariani: Shylock, mercante crudele ma che ispira compassione quando inizia la sua disfatta, e Falstaff, uomo malvagio che nel succedersi degli eventi finisce per essere sempre perdonato come se addirittura fosse un bambino birichino. In loro l'autore cerca di rappresentare la complessità della natura umana, andando oltre la semplice vitalità delle opere passate, nel tentativo di fare un teatro che possa essere uno specchio della realtà. Con Falstaff Shakespeare è talmente certo di essere riuscito nel suo intento, da riproporre il personaggio in "Enrico V" (1599) e nelle "Allegre comari di Winsor" (1601), anche se in quest'ultima rappresentazione ormai la maschera è stata privata del tutto del suo carattere originale.

 

Il costante bisogno dell'autore di sperimentare tuttavia non è ancora appagato, così alla necessità di delineare i tratti della realtà esteriore nel "Giulio Cesare", opera composta tra il 1599 e il 1600, affianca l'analisi psichica dei personaggi, da cui emerge l'inquieto desiderio di libertà di Bruto.

 

È attraverso queste prove di stile e la lunga riflessione sui temi da trattare che Shakespeare giunge a concepire il suo personaggio psicologicamente più elaborato, destinato a divenire una delle immagini più significative della società del tempo: l'Amleto, protagonista dell'omonimo dramma concluso nel 1600.

 

Oggetto di lunghi studi da parte degli storici della letteratura inglese e di varie interpretazioni, il protagonista dell'intramontabile capolavoro nelle sue incertezze psicologiche va oltre l'uomo rinascimentale, annunciando i caratteri tipici della società barocca.

 

Il lavoro di lima e di selezione dell'opera è talmente accurato, che le parti scartate vengono riprese dall'autore e sfruttate per la realizzazione di altri tre drammi di inizio Seicento: si tratta di "Troilo e Cressidra", "Tutto è bene quello che finisce bene" e "Misura per misura". È un momento particolarmente felice per Shakespeare, che tra il 1604 e il 1607 compone le sue opere di maggiore livello artistico, ossia "Otello", "Macbeth", "Re Lear" e "Antonio e Cleopatra". Sempre di inizio Seicento è la pubblicazione di una raccolta di sonetti non autorizzata dal poeta inglese, che rappresenta uno degli esempi di poesia più alti della letteratura barocca. In questi versi si manifesta la necessità di recuperare il tempo perduto attraverso la memoria, tema che sarà alla base di tanta letteratura contemporanea a partire da Proust e Joyce, che in qualche modo sembrano preceduti nel tempo da Shakespeare.

 

Successivamente a questa fortunata raccolta sono poche le opere del noto drammaturgo che vanno oltre semplici rappresentazioni finalizzate alla spettacolarità. Nonostante la sua crisi artistica però l'autore si rivela ancora in grado di descrivere la natura umana nel "Racconto d'inverno" del 1611 e ne "La tempesta" del 1612.

William Shakespeare si spegne a Stratford on Avon il 23 aprile del 1616, nel giorno del suo cinquantaduesimo compleanno.


 

30 e 31 marzo 2017: a Firenze il primo G7 della Cultura. 

 

 

Su impulso del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini, il 30 e il 31 marzo 2017 la città di Firenze ha ospitato il primo G7 della Cultura, con l’intento di porre al centro delle politiche internazionali di governo la cultura ed il patrimonio culturale. 

 

L’incontro, che si è articolato in due giorni di lavoro - il 30 e il 31 marzo - ha visto la partecipazione di sette ministri della cultura (Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito, USA e Canada) nonché dei rappresentanti delle grandi organizzazioni internazionali che si sono confrontati, in particolare, su tre temi prioritari: protezione del patrimonio culturale, la questione del traffico illecito e la cultura come strumento di dialogo tra i popoli.

Si tratta della prima riunione in assoluto nella storia del G7 che l'Italia abbia realizza.

Come simbolo del vertice è stato scelto il sito archeologico di Palmira (Siria) il cui Arco, distrutto nell’ottobre del 2015 dai miliziani dell’Isis, così come tutta l’area, è diventato l’emblema della rinascita, della ricostruzione e della conservazione delle opere appartenenti al patrimonio dell’umanità e alla storia della civiltà che altrimenti andrebbero persi e dimenticati. Una riproduzione perfetta dell’Arco di Palmira - realizzata grazie alle nuove tecnologie nell’ambito del progetto “The Million Image Database” per la tutela e la salvaguardia del patrimonio culturale mondiale - è stata pertanto esposta in piazza della Signoria, davanti a Palazzo Vecchio, dal 27 marzo al 27 aprile.

L’evento, infine, è stato impreziosito da numerosi appuntamenti: in primis due concerti diretti dal Maestro Francesco Muti ma anche mostre inedite e convegni sul tema, con l’intento di rendere il capoluogo toscano un autentico attrattore dell’opinione pubblica internazionale sull’imprescindibile valore della Cultura come strumento di integrazione, di crescita e di sviluppo sostenibile.

Una grande opportunità per il nostro Paese, dunque, per portare all’attenzione globale, facendosene portavoce, l’importanza di un’azione strategica per la tutela e la salvaguardia di un patrimonio culturale che appartiene all’intera umanità


 

La Festa del Cinema celebra i 100 anni di Gregory Peck 

 

 

La Festa del Cinema di Roma rende omaggio a Gregory Peck a cento anni dalla nascita, proponendo la pellicola che rappresenta la commedia romantica per eccellenza: “Vacanze Romane”. La proiezione - a ingresso libero - si terrà martedì 18 ottobre 2016 alle ore 21.30 in Piazza di Spagna.

 

Nell'ambito dell'omaggio a Gregory Peck, mercoledì 19 ottobre alle ore 18.30 alla Casa del Cinema - sempre a ingresso libero - sarà inoltre proiettato il documentario “A conversation with Gregory Peck” di Barbara Kopple, e si terrà un incontro con i figli Cecilia Peck Voll e Anthony Peck. 

 

Figlio di un droghiere di San Diego, Gregory Peck è nato a Jolla (California), il 5 aprile del 1916.

I suoi genitori divorziano quando ha cinque anni e lui viene allevato dalla nonna con la quale vive un'infanzia serena.

Tipico esempio di eroe dello schermo, Gregory Peck cercherà sempre di associare con tenacia e incredibile professionalità il proprio nome a pellicole di grande spessore artistico e morale.

La sua personalità lo fa diventare molto presto un vero e proprio simbolo di rettitudine per la popolazione americana, tanto da meritare perfino gli elogi dell'allora presidente americano Lyndon Johnson, che lo definì: "un umanitario, al quale gli americani dovevano molto".

Peck si è sempre diviso sullo schermo fra personaggi affascinanti e carismatici e altri più sensibili, misteriosi e riflessivi.

La febbre per lo spettacolo lo prende all'improvviso, mentre studia medicina nella prestigiosa università di Berkeley. È il 1938, Gregory è a New York per una trasferta sportiva della sua squadra di canottaggio. La grande mela lo affascina e durante il tempo libero assiste, a Broadway, allo spettacolo "I've married an angel". La passione per il palcoscenico gli farà abbandonare gli studi e per pagare la scuola di recitazione, la Neighborhood Playhouse, Gregory Peck lavorerà nel 1939 anche in un luna park e come guida al Radio City ed al Rockfeller Center.

Ottiene il suo primo ingaggio importante nel 1941 al National Theater di Washington e appena un anno dopo è già un idolo e il cinema comincia a richiederlo.

A farne una star è il regista Alfred Hitchcock che in Io ti salverò (1945) lo affianca alla bellissima Ingrid Bergman, creando una delle coppie più riuscite del grande schermo. In questo periodo lavora con i registi più in voga, sfiorando per tre volte l'ambita statuetta con "Il cucciolo", "Barriera invisibile" e "Cielo di fuoco".

Entra nel mito la sua interpretazione dello squattrinato giornalista che, tra le strade di Roma, si innamora di una giovane principessa, interpretata da Audrey Hepburn, in Vacanze romane (1953), di William Wyler.

Nell'ottobre del 1941 Peck sposa durante la sua prima tournée teatrale Greta Rice, una parrucchiera appena conosciuta. Da lei avrà tre figli: Jonathan nel 1944 (morto suicida nel 1975), Stephen nel 1954 e Carey nel 1949. Nel 1954 lei gli concederà il divorzio in cambio di un milione di dollari, una villa a Beverly Hills ed un assegno mensile di 300 mila dollari, a quei tempi una cifra stratosferica. L'anno seguente sposa la giornalista francese Veronique Passani, conosciuta in occasione di un'intervista. Da lei avrà due figli:Anthony nel 1956 e Cecilia nel 1958.

Dal 1967 al 1970 è stato presidente dell'Accademy of Motion Pictures Arts and Science.

Nel 1989 l'American Film Institute gli ha assegnato il suo prestigioso premio speciale "Una vita per il cinema". Complessivamente ha ottenuto quattro nomination all'Oscar che nel 1962 ha vinto con "Il buio oltre la siepe".

L'ultima sua perla è del 1991: "Cape Fear - Il promontorio della paura", rifacimento di Martin Scorsese dell'omonimo film nel quale l'attore statunitense aveva recitato nel 1961.

Gregory Peck si è spento nella sua casa di Beverly Hills, con accanto la moglie Veronique, il 12 giugno del 2003, all’età di 87 anni


 

“Pooh” 

 

 

Una storia lunga 50 anni 

 

Il gruppo nasce nel 1962 come Jaguars, ma la sua stabilità a livello di elementi si ha solo tre anni dopo con Valerio Negrini alla batteria, Mauro Bertoli e Mario Goretti alle chitarre, Giancarlo Cantelli (poi Gilberto Faggioli) al basso e Bruno Barraco (poi Bob Gillot) alle tastiere.

Firmano il loro primo contratto nel 1966 con il nuovo - e definitivo - nome di Pooh.

In poco tempo avvengono diversi avvicendamenti con l’uscita di Gillot e Faggioli e l’entrata al loro posto di Roby Facchinetti e Riccardo Fogli; qualche anno dopo anche Bertoli lascia il gruppo che da quel momento rimarrà formato da quattro elementi.

Il grande successo arriva nel 1968, quando “Piccola Katy” scala molte posizioni in hit parade. Poco dopo anche Goretti lascia la band e al suo posto entra Dodi Battaglia; il gruppo così formato dura fino al 1971 con l’avvicendamento Negrini-Stefano D’Orazio, anche se l’ex batterista rimane dietro le quinte come paroliere. Sono gli anni di “Tanta voglia di lei” e della registrazione di alcuni brani in inglese, di “Noi due nel mondo e nell’anima” e “Nascerò con te”. Avviene poi l’ultimo avvicendamento, poiché, per dissapori con il produttore artistico, Riccardo Fogli lascia la formazione - per intraprendere la carriera da solista - ed entra Red Canzian. Tale gruppo rimarrà così fino al 2009, quando anche Stefano D’Orazio decide di lasciare la formazione.

Le produzioni musicali si alternano a grandi successi e minori vendite, a causa dei cambiamenti di stile sia musicale che di testi voluti dal loro produttore, come “I Pooh 1971-1974”, “Un po’ del nostro tempo migliore” e “Forse ancora poesia”: alla fine quindi decidono di auto prodursi.

La scelta sembra sortire l’effetto sperato e infatti l’album “Poohlover” (1976) riporta il gruppo sulla cresta dell’onda, e l’anno successivo sono protagonisti di un tour negli stadi e di diverse apparizioni in programmi televisivi. Gli anni ’80 vedono i Pooh impegnati nella continua produzione di album di buona fattura, in certi casi anche con tematiche impegnative come l’ecologia e la politica, ma sono anche di grande impatto le sperimentazioni musicali con nuove sonorità e ripresa di stili passati, e continuano così anche negli anni successivi, alternando sempre album di buona produzione a qualcuno di spessore minore. Nel 1990 partecipano al Festival di Sanremo con “Uomini soli”, trionfando. È del 2002 la loro prima opera teatrale, “Pinocchio”, ispirata alla favola di Carlo Collodi e interpretata dagli attori della Compagnia della Rancia; ripeteranno l’esperienza nel 2010 con “Alladin”.

I Pooh hanno deciso di sciogliersi definitivamente entro la fine del 2016. Il gruppo musicale lo ha comunicato nel corso di una conferenza stampa il 28 settembre del 2015.

Ma la loro storia si conclude con una “Reunion” - sul palco assieme a Roby Facchinetti, Red Canzian e Dodi Battaglia anche gli “storici” del gruppo, Stefano D'Orazio e Riccardo Fogli, per tre ore di concerto per «L'ultima notte insieme» - ideata per incontrare i numerosissimi fan in varie città italiane, e con i concerti a San Siro il 10 e l'11 giugno, all'Olimpico il 15 giugno, allo Stadio San Filippo di Messina il 18 giugno, l'8, 9 e 11 settembre all'Arena di Verona, e un successivo tour nei palasport, tra ottobre e novembre.

Ed è proprio l'album live “Pooh 50 - L'ultima notte insieme”, che racchiude in un triplo disco oltre 50 canzoni e 4 brani inediti, a guidare la classifica dei dischi più venduti nella settimana dal 16-22 settembre 2016.  

I Pooh: un successo senza età!