ULTIMI ARTICOLI


Musica

 

Buon compleanno Bob Dylan: il "poeta della musica". 

 

In mezzo secolo di carriera vanta circa 70 milioni di copie vendute. Celebrato dalla rivista Rolling Stone come il “più grande cantautore di tutti i tempi” è stato lui il vincitore del Premio Nobel 2016 della Letteratura: “per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione musicale americana”. 

Il 5, 6 e 7 aprile 2018 ha fatto tappa a Roma, all'Auditorium Parco della Musica. 

Il prossimo 24 maggio spegnerà 77 candeline!

Bob Dylan: il ritratto di un'icona culturale evergreen. 

 

Come spesso accade nelle storie dei "grandi", il racconto comincia da una famiglia di umili originiQuella di Robert Allen Zimmerman proveniva dalla Lituania, da dove era fuggita per scampare alla persecuzione antisemita, trovando dimora a Duluth - cittadina del Minnesota dove il futuro Bob Dylan nasce il 24 maggio del 1941-. Qui il giovane Robert scopre la sua passione per il rock, nel mito di Little Richard ed Elvis Presley. Presto la sua sete di poesia e spiritualità lo porta a cambiare genere, trovando pieno appagamento nel folk.

 

Come lui stesso rivelerà più tardi, le "canzoni popolari" (anche dette folk) “sono colme di disperazione, di tristezza, di trionfo, di fede nel sovrannaturale, tutti sentimenti molto più profondi”. È la musica che più si confà al suo animo inquieto e con quella sale per la prima volta su un palco, imbracciando la chitarra acustica. Tutto ciò accade a New York, dove si trasferisce nel 1961 inseguendo l'idolo Woody Guthrie.

 

Come tante giovani promesse subisce il fascino del Greenwich Village, quartiere simbolo della cultura bohémien americana che si ritrova nei tanti locali e pub mal frequentati della zona. In uno di questi, esattamente il Gerde’s Folk City, il 19enne Robert fa il suo debutto in pubblico. È la sera dell'11 aprile, quando il proprietario del locale, un italoamericano di nome Mike Porco, gli concede di fare da "apri concerto" per il bluesman John Lee Hooker.

 

Nessuno dei presenti sospetta minimamente che quel ragazzo esile e dalla voce gracchiante è destinato a diventare, di lì a qualche anno, un mito della musica. L'anno seguente segna un cambiamento decisivo nella sua vita: cambia nome al tribunale in Robert Dylan e pubblica il primo album con lo pseudonimo che lo accompagnerà per tutta la carriera: Bob Dylan. L'accoglienza del pubblico è freddina e le vendite si risolvono in un mezzo flop.

 

Tutt'altro copione gli riserva il secondo album, The Freewheelin’ Bob Dylan, edito nel maggio 1963. Con esso l'artista si accredita come interprete e soprattutto come autore presso famosi artisti come Joan Baez, che lo vuole accanto a sé nei concerti e per un periodo anche nella vita sentimentale. Sono gli anni del malcontento giovanile verso la politica aggressiva degli USA, che dal clima destabilizzante della guerra fredda porterà agli orrori del Vietnam.

Dylan si fa portavoce di questo sentimento e la celebre Blowin' in the Wind ne diventa il manifesto ideologico.

 

Dalla battaglia per i diritti civili al rifiuto della guerra, la sua musica influenza generazioni di giovani e di colleghi, sempre nel segno dell'anticonformismo. Parallelamente i suoi dischi registrano vendite da record: circa 70 milioni di copie vendute in mezzo secolo di carriera, raccontata attraverso 34 album in studio, 13 live, 14 «best of», e un mix di generi che va dal country al rock, passando per la musica popolare inglese, scozzese ed irlandese.

 

Dicono molto di lui i numerosi riconoscimenti: 40 dischi di platino, altrettanti d’oro e sette d’argento; 11 Grammy; un Oscar e un Golden Globe per la colonna sonora del film Wonder Boys (2000).

 

Stimato come un intellettuale a tutto tondo, in grado di anticipare le tendenze culturali di ogni epoca, Dylan è stato più volte tra i candidati al Nobel per la Letteratura.

 

Nell'aprile del 2008 i prestigiosi premi Pulitzer per il giornalismo e le arti lo hanno insignito di un riconoscimento alla carriera, quale cantautore più influente dell'ultimo mezzo secolo.

Nel 2015 la rivista Rolling Stone lo ha celebrato come il "più grande cantautore di tutti i tempi".  

Nel maggio 2016 ha pubblicato l’album “Fallen Angels”, in cui rilegge 12 classici firmati da alcuni dei compositori più acclamati e influenti della storia della musica.

Il 13 ottobre del 2016, l'Accademia svedese gli ha assegnato il Premio Nobel per la Letteratura, con la seguente motivazione: "Per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione della canzone americana".

Assente alla cerimonia ufficiale del 10 dicembre a causa di altri impegni, la consegna è avvenuta sabato 1 aprile 2017 in occasione dell'arrivo della leggenda del rock a Stoccolma, dove sono stati organizzati due suoi concerti.

Inoltre, sulla scorta del lavoro di reinterpretazione iniziato nel 2016 con “Fallen Angels”, Dylan è “tornato” con il primo album triplo della sua vita, “Triplicate”, uscito il 31 marzo 2017 per Columbia: 30 versioni di classici della canzone americana divise per tema. Ogni album ne contiene 10. Questi i titoli dei singoli album: “Til The Sun Goes Down”, “Devil Dolls” e “Comin' Home Late”. 

Buon compleanno Mister Dylan!  

19/5/2018


Musica

 

“Resta quel che resta”: l’ultimo emozionante inedito di Pino Daniele. 

 

«Quando qualcuno se ne va/ resta l’amore intorno/ i baci non hanno più/ quel sapore eterno».

È questo il commovente incipit del pezzo inedito, ritrovato solo ora, dell’indimenticabile e indimenticato Pino Daniele, dal profetico titolo “Resta quel che resta”. Il brano - che ha il sapore di un testamento - composto 9 anni fa, è stato lanciato in radio ieri, 14 maggio 2018, a partire dalle ore 11, e da venerdì 18 maggio sarà disponibile anche in digitale e su tutte le piattaforme streaming. I ricavi legati alle vendite del pezzo - prodotto da Corrado Rustici - unitamente agli introiti del grande concerto-tributo “Pino è” - a cui parteciperanno tanti amici e cantanti - che si terrà il prossimo 7 giugno allo Stadio San Paolo di Napoli, saranno interamente devoluti ai progetti benefici della Pino Daniele Trust Onlus, gemellata all’Associazione Oncologia Pediatrica e Neuroblastoma - OPEN Onlus e della Pino Daniele Forever Onlus gemellata con Save the Children.    

Continua a leggere  

15/5/2018


Personaggi

 

L’Europa di Gaetano Martino: il Municipio gli ha dedicato una strada. 

 

Il 9 maggio è la festa dell'Europa, che ricorda il giorno in cui, nel 1950, Robert Schuman presentò il piano di cooperazione economica - la cosiddetta "Dichiarazione Schuman" - punto di inizio della creazione di un unico nucleo economico europeo. Una data che ci offre dunque l’occasione per ricordare la figura di Gaetano Martino (1900-1967): un uomo di scienza al servizio dell’Europa a cui il III Municipio di Roma ha dedicato una via. 

Continua a leggere   

7/5/2018


Avvenimenti

 

Una finestra sulla Storia: 40 anni fa, Aldo Moro. 

 

Il 16 marzo 1978, giorno della presentazione alla Camera dei Deputati del IV governo Andreotti, Aldo Moro viene rapito dalle Brigate rosse a Roma, in via Fani, e gli uomini della sua scorta vengono barbaramente assassinati. L’idea di rapire un dirigente democristiano era già stata concepita nel 1975. Le Br avevano pensato ad Amintore Fanfani o a Giulio Andreotti, ma poi la scelta era caduta su Moro: si trattava di un bersaglio più facile.

Tuttavia l’opzione per Moro, presidente della DC, teorizzatore della “terza fase” democristiana e protagonista della “solidarietà nazionale”, carica l’operazione brigatista di un peculiare significato politico e simbolico. Nel leader cattolico - nato a Maglie, in provincia di Lecce, il 23 settembre 1916 - viene colpita infatti l’azione di mediazione tra società e istituzioni svolta, soprattutto nell’ultimo decennio, dai principali partiti italiani nel tentativo di assorbire le spinte movimentistiche avviatesi nel 1968. In Aldo Moro, come più tardi in Vittorio Bachelet (ucciso dalle Br il 12 febbraio 1980 in un agguato all’interno dell’Università “La Sapienza” di Roma) e Roberto Ruffilli (assassinato da un nucleo armato delle Br il 16 aprile 1988 a Forlì), viene presa di mira quella politica di convergenza e di accordo tra forze politiche diverse, attraverso cui verrebbero frenate le tensioni sociali e impedita l’esplosione delle “contraddizioni rivoluzionarie”.

Le Brigate rosse intendono inoltre dimostrare di essere in grado di “processare” la DC proprio mentre si svolge a Torino un importante procedimento penale contro esponenti dell’organizzazione. Anche alcune lettere dello statista pugliese, fatte uscire dalla cosiddetta “prigione del popolo” di via Montalcini 8, nel quartiere della Magliana, confermano l’impostazione “processuale” già attuata dai “terroristi rossi” nel 1974 durante il sequestro del giudice genovese Mario Sossi - rapito il 18 aprile e rilasciato il 23 maggio -. Attraverso il presidente della DC dunque il processo brigatista investe tutto il partito e l’intero trentennio di “regime democristiano”.

L’onorevole Moro viene ucciso il 9 maggio 1978. Il suo corpo viene fatto trovare nel bagagliaio di una Renault 4 rossa posteggiata in via Caetani, al centro della vecchia Roma, a metà strada fra le sedi della DC e del PCI: emerge così pienamente il significato simbolico e politico che il suo rapimento assume contro la politica di “solidarietà nazionale”. 

Indagini, sospetti e polemiche hanno tenuto vivo il caso Moro fino ad oggi. 

 

8/5/2018


Personaggi 

 

Emilio Lavagnino: un "monument men" italiano. 

 

La sua vita è stata definita “Il diario di un salvataggio artistico”: con questo titolo nel 2011 la Rai gli ha dedicato un film-documentario. Emilio Lavagnino (1898-1963), l’uomo che nei primi anni ‘40 ha partecipato personalmente alle operazioni di salvataggio del patrimonio artistico del nostro Paese. Un patrimonio mai abbastanza tutelato e valorizzato.  

 

Chi era dunque Emilio Lavagnino?

Un semplice funzionario del Ministero dell’educazione fascista, che all’inizio degli anni ‘40 partecipa in prima persona alle operazioni di salvataggio del patrimonio artistico italiano, diventando un eroe. Eccone un esempio.

Durante la Seconda guerra mondiale la città di Viterbo viene bombardata ininterrottamente per 6 mesi, quasi rasa al suolo. Nel 1944, davanti alle macerie della chiesa di San Francesco, vicino Porta Fiorentina, in pieno centro storico, c'è Emilio Lavagnino, sovrintendente di Roma. «La restaureremo», dice. Una promessa non disattesa: tornano infatti al loro posto la facciata crollata e le decorazioni a stucco strappate via dalla guerra. 

 

Questa è solo una delle storie che fa parte del racconto dei numerosi salvataggi di opere d'arte compiuti da Emilio Lavagnino tra il ‘43 e il ’44, descritti nel libro della figlia Alessandra, dal titolo “Un inverno 1943-1944”, pubblicato nel 2006 da Sellerio. 

Continua a leggere 

7/5/2018


Personaggi

 

Gino Bartali: l’eroe delle due ruote diventerà cittadino onorario di Israele. 

 

Come annunciato dal Museo della Shòa di Gerusalemme - Yad Vashem - Gino Bartali verrà nominato cittadino onorario della città di Israele, notizia peraltro anticipata dal sito “Pagine ebraiche”. La cerimonia avrà luogo a Gerusalemme il prossimo 2 maggio; 2 giorni quindi prima della partenza del Giro d’Italia dalla stessa Gerusalemme.

Bartali era stato dichiarato “Giusto tra le nazioni” nel 2013, per il contributo reso alla salvezza di oltre 800 ebrei in Italia durante il periodo dell’occupazione nazista.

Il grande campione - un'icona dell'Italia del dopoguerra - si è spento il 5 maggio del 2000. 

Continua a leggere 

 

24/4/2018


Musica

 

Il ritorno di Edoardo Bennato 

 

Era il 1977 quando usciva “Burattino senza fili”: uno dei più celebri album del grande cantautore napoletano. A distanza di 40 anni ne esce una riedizione in cui si collocano nuovi brani pensati e scritti per dare seguito a una storia che è sempre attuale. Su tutti il singolo “Mastro Geppetto”. Nuovi personaggi tratti ancora una volta dallo straordinario universo di Carlo Collodi, dunque, per arricchire una collezione imperdibile di ritratti che rappresentano, allora come oggi, la nostra difficile e variegata contemporaneità italiota.

Edoardo Bennato quindi: un artista e musicista eclettico e raffinato, autore di testi dissacranti, che da oltre mezzo secolo incarna l’anima rock del capoluogo partenopeo. 

 Continua a leggere 


Avvenimenti 

 

Una moneta per ricordare il “principe della risata”. 

 

Come ricorderete, in occasione dei 50 anni dalla morte del grande artista napoletano - ricorsi il 15 aprile 2017 - la Zecca di Stato ha coniato in suo onore una moneta celebrativa del valore nominale di 5 euro.  

Sul dritto della moneta un ritratto di Totò con la bombetta, ispirato alla celebre foto di Bourdin, del 1955; sul rovescio le mani del comico nella caratteristica “mossa”, con l’indice e il pollice che si toccano a intreccio. 

Di certo gli aggettivi per il “principe della risata” si sprecano, ed è impossibile riassumere in poche righe la preziosa eredità che il mitico Antonio de Curtis, in arte Totò, ha lasciato nel mondo dell'arte, del costume e del linguaggio.

Per rendergli nuovamente omaggio, cercheremo tuttavia di tracciarne un esauriente profilo biografico, ripercorrendo le fasi salienti della sua straordinaria avventura umana e artistica.    

A lui il III Municipio della Capitale ha dedicato una via nel quartiere Vigne Nuove. 

Continua a leggere  

14/4/2018


Musica

 

Buon compleanno Patty Pravo: i primi 70 anni della "ribelle" della musica italiana. 

 

La carriera di un’interprete raffinata e trasgressiva. Il ritratto di una leggenda vivente. Patty Pravo: il simbolo di un’epoca.  

 

Patty Pravo, al secolo Nicola Strambelli, veneziana, classe 1948 (è nata il 9 di aprile), ha alle spalle cinquant’anni di sfolgorante carriera e 100 milioni di dischi venduti in tutto il mondo. La sua storia è un viaggio nella musica e nello spettacolo. 

Continua a leggere 

 

9/4/2018


Personaggi

 

Un decano del giornalismo italiano: Piero Ottone. 

 

Giornalista, scrittore, ex direttore del Corriere della Sera ed editorialista di Repubblica. Piero Ottone (1924-2017): un grande protagonista dell’informazione italiana.

Lo vogliamo ricordare a quasi un anno dalla scomparsa. 

 

La Redazione 

 

Pseudonimo di Pierleone Mignanego, Piero Ottone era nato a Genova il 3 agosto del 1924.

Gli inizi al Corriere Ligure e poi alla Gazzetta del popolo, come redattore e corrispondente da Londra. Negli anni '50 passa al Corriere della Sera, come corrispondente da Mosca e inviato speciale, fino alla promozione a caporedattore. Dal 1968 al 1972 è direttore del Secolo XIX, poi torna, fino al 1977, alla guida del Corriere della Sera, voluto da Giulia Maria Crespi per imprimere una svolta a sinistra al quotidiano. Celebre la rottura con Indro Montanelli, di cui propose il licenziamento e che lasciò il Corriere, insieme ad altre firme prestigiose, per fondare Il Giornale.

 

Nel 1977 Ottone lascia via Solferino per entrare in Mondadori, di cui diventa direttore generale; poi è presidente del consiglio di amministrazione di Repubblica, di cui è stato in seguito editorialista.

 

Tra i numerosi libri pubblicati ricordiamo, Gli industriali si confessano (1965); Fanfani (1966); La nuova Russia (1967); De Gasperi (1968); Potere economico (1968); Giornale di bordo (1982); Le regole del gioco (1984); Il gioco dei potenti (1985); Il buon giornale (1987); Il tramonto della nostra civiltà (1994); Preghiera o bordello (1996); Saremo colonia? (1997); Vizi & virtù (1998); Gianni Agnelli visto da vicino (2003); Memorie di un vecchio felice (2005); Cavour (2011); Novanta. (Quasi) un secolo per chiedersi chi siamo e dove andiamo noi italiani (2014).

 

Piero Ottone si è spento nella sua casa di Camogli, in Liguria, il 16 aprile del 2017. Aveva 92 anni. 

Con lui se n’è andato uno degli ultimi rappresentanti della grande scuola del giornalismo, formatisi negli anni della Seconda guerra mondiale, che hanno magistralmente informato i lettori dal dopoguerra in poi. 

 

2/4/2018


Musica

 

"Uno sguardo nel tempo". Ciao Luigi.

 

Una vita breve, un mistero italiano. Tributo a Luigi Tenco a 80 anni dalla nascita. 

A lui il III Municipio di Roma ha dedicato "Largo Luigi Tenco", nel quartiere Serpentara. Continua a leggere

 

20/3/2018 


I grandi interpreti

 

Alessandro Gassmann: “di padre in figlio”. 

 

A teatro e al cinema, nella recitazione o come nella regia sul palco, Alessandro Gassmann ha saputo costruire l'immagine coerente di un attore italiano contemporaneo, uno dei più interessanti, certamente, della sua generazione.

Figlio di cotanto padre, dall'illustre genitore ha ereditato soprattutto l'ecletticità nell'alternare ruoli drammatici e brillanti, sia sul set che sul palcoscenico.

Tra pochi giorni soffierà su 53 candeline! Tracciamone dunque un ritratto unendoci agli auguri di rito che immancabilmente arriveranno dai tanti mass media attivi sul web. 

 

La Redazione

 

Nato a Roma il 24 febbraio del 1965 - Alessandro è il terzogenito dell'indimenticabile "mattatore" Vittorio Gassman, unico nato dal matrimonio con l'attrice francese Juliette Mayniel - studia due anni alla Bottega Teatrale di Firenze e vince il Biglietto d'oro per "Affabulazione" di Pier Paolo Pasolini. L'esordio sul grande schermo arriva nel 1982: solo diciassettenne Alessandro dirige e interpreta insieme al papà Vittorio Di padre in figlio, sorta di storia autobiografica della famiglia Gassmann. Appare nel seguito de I soliti ignoti ma è nel 1987 che ottiene finalmente un ruolo principale in La monaca di Monza - Eccessi, misfatti, delitti di Luciano Odorisio, dove interpreta il nobile dissoluto Gianpaolo Osio.

Da allora Gassmann alterna senza sosta ruoli sul grande schermo, sul palcoscenico e in televisione. Sarà in Un bambino di nome Gesù (1987), Comprarsi la vita (1991), Quando eravamo repressi (1992), Ostinato destino (1992) e anche in Uova d'oro (1993) di Bigas Luna. Nel 1995 il salto in una produzione americana (pur ambientata sul lago di Como) con Un mese al lago di John Irvin, dove interpreta un giovane seduttore italiano. Appare poi in altre, innumerevoli, commedie come Uomini senza donne (1996) e Mi fai un favore (1997). Con Lovest e Facciamo fiesta (1997) si diverte accanto a un altro noto e simpatico figlio d'arte: Gianmarco Tognazzi. Il duo è convincente al di là della riuscita dei film.

Sarà invece il regista Ferzan Ozpetek, con Il bagno turco (1997) a lanciarlo sulla scena nazionale come attore di qualità, dandogli l'opportunità di interpretare un architetto romano che riscopre a Istanbul i valori dell'eros. Appare dunque in altre commedie: per Benvenuti ne I miei più cari amici (1998), per Giulio Base ne La bomba (1999), e poi in Teste di cocco (2000). Tra i vari ruoli in serie televisive lo si ricorda in armatura medievale in Crociati (2001). Ne I banchieri di Dio - Il caso Calvi (2002) è in un ruolo di impegno civile, in un film che ricostruisce le vicende legate alla morte di Roberto Calvi. Altra parte storica in La guerra è finita (2002) mentre nel 2005 appare nel film d'azione franco-americano, prodotto da Luc Besson, Transporter: Extreme, dove tra inseguimenti e esplosioni interpreta il cattivo mafioso che dà filo da torcere all'eroe Jason Statham. Dopo aver ritrovato Luciano Odorisio in Guardiani nelle nuvole (2005) appare in Non prendere impegni stasera (2006) di Gianluca Maria Tavarelli.

In Caos Calmo (2007) di Antonello Grimaldi, recita invece in un cast di star italiane, accanto a Nanni Moretti, Valeria Golino e Silvio Orlando. Nel 2008 prende parte al film di Pappi Corsicato Il seme della discordia, dove interpreta il marito sterile di Caterina Murino.

Lo ritroviamo anche nella commedia corale di Fausto Brizzi Ex (2008), per poi approdare nel dramma borghese Il compleanno e, per la prima volta, nel cast del cinepanettone delle festività natalizie del 2009 Natale a Beverly Hills, dove ritrova l'amico-collega Gianmarco Tognazzi. Nel 2010 gira in lungo e in largo le terre lucane insieme a Giovanna Mezzogiorno nel film Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo, appare nel cast del film di Luca Lucini, La donna della mia vita, con Luca Argentero e Valentina Lodovini, ed è protagonista in Il padre e lo straniero, dramma diretto da Ricky Tognazzi. Nel 2011 è protagonista di due commedie sul grande schermo: Baciato dalla fortuna, diretto da Paolo Costella e Ex: amici come prima!, di Carlo Vanzina; mentre l'anno successivo è protagonista della commedia di Massimiliano Bruno Viva l'Italia. Lavora più volte con Marco Giallini (Tutta colpa di Freud, Se Dio vuole) ed è protagonista del film di Francesca Archibugi, Il nome del figlio, e di quello di Massimiliano Bruno, Gli ultimi saranno ultimi.

Nel 2016 è Ruggero, un cuoco solitario, nella commedia diretta da Rocco Papaleo Onda su onda, e in seguito affiancherà Claudio Bisio e Angela Finocchiaro in Non c'è più religione di Luca Miniero.

Nel 2017 veste i panni dell'ispettore Lojacono nella fortunata serie TV I bastardi di Pizzofalcone - è in arrivo la seconda serie - è nelle sale, insieme a Marco Giallini, nella commedia Beata ignoranza, in cui è diretto ancora una volta da Massimiliano Bruno, e di nuovo dietro la macchina da presa - ma nello stesso tempo interprete - firma la regia de “Il premio”, uscito nelle sale lo scorso dicembre

 

16/2/2018 


Televisione

 

Il “Principe libero”: la vita di Fabrizio De Andrè. 

Il 13 e 14 febbraio su Rai 1. 

 

Erano cominciate a marzo del 2017 le riprese di una fiction targata Rai sulla vita e le opere dell’indimenticabile Fabrizio De Andrè, dal titolo il “Principe libero”. Prodotto dalla Bibi Film TV, ambientato fra Genova, Roma e Tempio Pausania, per la regia di Luca Facchini, con Luca Marinelli nel ruolo di De Andrè adulto, il lungometraggio è poi approdato nei cinema di tutta Italia per un'anteprima nazionale nelle sole giornate di martedì 23 e mercoledì 24 gennaio 2018, distribuito da Nexo Digital.

Sarà trasmesso in due puntate - il 13 e 14 febbraio - in prima serata su Rai 1. 

 

Maestro riconosciuto di generazioni di cantautori italiani, Fabrizio De André (1940-1999) viene ricordato come il poeta degli emarginati, della libertà e dell'ironia dissacrante.

Tracciamone dunque un ritratto, ripercorrendo le fasi salienti della sua avventura umana e artistica.  

Continua a leggere 

12/2/2018


Personaggi

 

5 anni fa, la storica rinuncia di Benedetto XVI: il "Papa emerito". Continua a leggere  

 

11/2/2018  


Avvenimenti

 

10 febbraio: Giorno del Ricordo. 

 

"Il 10 febbraio è il Giorno del Ricordo, istituito nel 2004 al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale". 

 

Il 10 febbraio si celebra il “Giorno del Ricordo”, solennità civile nazionale italiana. Istituita con la legge 30 marzo 2004 n. 92, commemora le vittime dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata.

 

Le foibe sono cavità carsiche di origine naturale con un ingresso a strapiombo. È in quelle voragini dell'Istria che fra il 1943 e il 1947 furono gettati, vivi e morti, quasi diecimila italiani.

 

La prima ondata di violenza esplose subito dopo la firma dell'armistizio dell’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicarono contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturarono, massacrarono, affamarono e poi gettarono nelle foibe circa un migliaio di persone. Li considerarono nemici del popolo. Ma la violenza aumentò nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupò Trieste, Gorizia e l'Istria. Le truppe del Maresciallo Tito si scatenarono contro gli italiani. A cadere dentro le foibe furono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. Una carneficina che testimonia l'odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti. La persecuzione proseguì fino alla primavera del 1947, fino a quando, cioè, venne fissato il confine fra l'Italia e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non terminò.

 

Nel febbraio del 1947 l'Italia ratificò il trattato di pace che pose fine alla Seconda guerra mondiale: l'Istria e la Dalmazia vennero cedute alla Jugoslavia. Trecentocinquantamila persone si trasformarono in esuli, fuggendo dal terrore.

 

Per molti decenni il silenzio della storiografia e della classe politica ha avvolto la vicenda degli italiani uccisi nelle foibe istriane.

Il 10 febbraio del 2004 il Parlamento italiano ha dedicato la “Giornata del Ricordo” ai morti nelle foibe, avviando dunque l'elaborazione di una delle pagine più angoscianti della nostra Storia. 

 

9/2/2018  


Costume e Società

 

Aspettando Sanremo 2018… le origini! 

 

A “poche ore” dai nastri di partenza della 68esima edizione del Festival della canzone italiana - capitanata, com’è noto, dal grande cantautore romano Claudio Baglioni - che si svolgerà infatti dal 6 al 10 febbraio, in onda come sempre in diretta sulla rete ammiraglia della Rai dallo storico palcoscenico del Teatro Ariston di Sanremo, facciamo un “tuffo nel passato” per ripercorrere insieme le fasi salienti del primo Sanremo della Storia: quello del 1951! 

Un "mondo" indubbiamente lontano anni luce dall'oggi...ma è da lì che si parte!  Entriamo dunque...seguiteci...la prima serata sta per cominciare...e buon Sanremo a tutti! 

 

La Redazione  

 

«Signori e signore, benvenuti al Casinò di Sanremo per un'eccezionale serata organizzata dalla RAI, una serata della canzone con l'orchestra di Cinico Angelini. Premieremo, tra duecentoquaranta composizioni inviate da altrettanti autori italiani, la più bella canzone dell'anno.»

Così, alle ore 22 di lunedì 29 gennaio 1951, la radio diffonde la voce del presentatore Nunzio Filogamo che annuncia l'inizio della prima edizione del Festival della canzone italiana, ospitata nel lussuoso Salone delle feste del Casinò di Sanremo.

 

L'atmosfera è ben lontana da quella che accompagnerà la kermesse nei decenni successivi. In sala c'è un tono dimesso e gli spettatori, che hanno pagato 500 lire per sedersi ai tavolini, sono più interessati a consumare che ad ascoltare i cantanti, al punto che in sottofondo i radioascoltatori distinguono un chiaro rumore di stoviglie.

La formula è ridotta. Le serate sono tre e alla finale vengono ammesse 10 canzoni votate dalla giuria (formata da sette persone) tra le 20 presentate nelle prime due serate. Ad interpretarle sono solo tre artisti: Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano. Vince questa prima edizione “Grazie dei fiori”, cantata dalla Pizzi.

 

Organizzato dal 1977 al Teatro Ariston di Sanremo, il Festival crescerà di importanza nel corso degli anni, proponendosi, pur tra numerose critiche, come efficace indicatore dei gusti musicali e dei costumi della società italiana.

Tra i presentatori storici ricordiamo Mike Buongiorno e Pippo Baudo: quest'ultimo detiene il record di conduzioni (ben tredici). 

 

5/2/2018   


Personaggi

 

Gandhi 

 

Il prossimo 30 gennaio ricorrerà il 70° anniversario della scomparsa del Mahatma Gandhi. Ripercorriamo dunque insieme le tappe principali della vita del fondatore della filosofia della nonviolenza. Il suo pensiero e la sua opera hanno ispirato i grandi movimenti pacifisti e di difesa dei diritti umani e civili. 

Cogliamo inoltre l'occasione per ricordare che il 2 ottobre, giorno della nascita di Gandhi, si celebra la “Giornata internazionale della nonviolenza”, istituita nel 2007 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con lo scopo di divulgare il “messaggio della nonviolenza”, anche attraverso l’informazione e la consapevolezza pubblica. 

 

La Redazione  

 

Mohandas Karamchard Gandhi, detto il Mahatma, “Grande Anima” - soprannome datogli dal poeta indiano Rabindranath Tagore - è il fondatore della nonviolenza e il padre dell’indipendenza indiana.

Nato il 2 ottobre del 1869 a Portbandar in India, dopo aver studiato nelle Università di Ahmrdabad e Londra ed essersi laureato in Giurisprudenza, esercita brevemente l’avvocatura a Bombay.

Nel 1893 si reca in Sud Africa con l’incarico di consulente legale per una ditta indiana: vi rimarrà per 21 anni. Qui si scontra con una realtà terribile, in cui migliaia di immigrati indiani sono vittime della segregazione razziale.

L’indignazione per le discriminazioni razziali subite dai suoi connazionali (e da lui stesso) da parte delle autorità britanniche, lo spingono alla lotta politica.

Il Mahatma si batte per il riconoscimento dei diritti dei suoi compatrioti e dal 1906 lancia, a livello di massa, il suo metodo di lotta basato sulla resistenza nonviolenta, denominato anche Satyagraha: una forma di non-collaborazione radicale con il governo britannico, concepita come mezzo di pressione di massa. Gandhi giunge all’uguaglianza sociale e politica tramite le ribellioni pacifiche e le marce, e alla fine il governo sudafricano attua importanti riforme a favore dei lavoratori indiani.

Nel 1915 Gandhi torna in India dove circolano già da tempo fermenti di ribellione contro l’arroganza del dominio britannico, in particolare per la nuova legislazione agraria, che prevedeva il sequestro delle terre ai contadini in caso di scarso o mancato raccolto, e per la crisi dell’artigianato. Diventa il leader del Partito del Congresso, partito che si batte per la liberazione dal colonialismo britannico.

Nel 1919 prende il via la prima grande campagna satyagraha di disobbedienza civile, che prevede il boicottaggio delle merci inglesi e il non-pagamento delle imposte. Il Mahatma subisce un processo ed è arrestato. Viene tenuto in carcere pochi mesi, ma una volta uscito riprende la sua battaglia con altri satyagraha. Nuovamente incarcerato e poi rilasciato, Gandhi partecipa alla Conferenza di Londra sul problema indiano, chiedendo l’indipendenza del suo Paese.

Del 1930 è la terza campagna di resistenza: la marcia contro la tassa sul sale, la più iniqua perché colpiva soprattutto le classi povere. Poi la campagna si allarga con il boicottaggio dei tessuti provenienti dall’estero. Per tutta risposta gli inglesi arrestano Gandhi, sua moglie e altre 50.000 persone.

Spesso incarcerato anche negli anni successivi, la “Grande Anima” risponde agli arresti con lunghissimi scioperi della fame; da ricordare quello sul problema della condizione degli “intoccabili”, la casta più bassa della società indiana.

All’inizio della Seconda guerra mondiale Gandhi decide di non sostenere l’Inghilterra se questa non garantirà all’India l’indipendenza.

Il governo britannico reagisce con l’arresto di oltre 60.000 oppositori e dello stesso Mahatma, che è rilasciato dopo due anni.

Il 15 agosto 1947 l’India conquista finalmente l’indipendenza. Ma Gandhi vive questo momento con dolore, pregando e digiunando. Il subcontinente indiano è infatti diviso in due stati, India e Pakistan, la cui creazione sancisce la separazione fra indù e musulmani e culmina in una violenta guerra civile che conta, alla fine del 1947, quasi un milione di morti e sei milioni di profughi.

Infine, il tragico epilogo: l’atteggiamento moderato di Gandhi suscita l’odio di un fanatico indù che lo uccide il 30 gennaio del 1948, durante un incontro di preghiera.

 

Un film sulla vita di Gandhi è il pluripremiato “Gandhi” (1982), vincitore di 8 Premi Oscar (tra cui miglior film), diretto da Richard Attenborough e interpretato da Ben Kingsley, entrambi premiati con una statuetta (miglior regista e miglior attore). 

 

21/1/2018


Musica

 

Buon compleanno Amadeus! 

 

In occasione di quello che sarebbe stato il suo compleanno, in molte città italiane - come già avvenuto negli anni passati - il 27 e 28 gennaio si terranno maratone gratuite di concerti in suo onore. Ne danno ampiamente conto numerosi giornali e siti web.  

Da parte nostra, cari lettori, per festeggiare con voi i 262 anni dalla nascita del più grande compositore di tutti i tempi vi presentiamo un ritratto di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791). Annoverato tra i geni della musica, dotato di raro talento manifestatosi precocemente, morì all’età di soli 35 anni, lasciando però pagine assolutamente indimenticabili di musica classica, da camera e operistica.  

 

La Redazione  

 

Nato a Salisburgo, uno dei principali centri dell'allora Impero asburgico (e oggi dell'Austria centro-settentrionale), il 27 gennaio del 1756, Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart dimostrò ben presto le sue doti di genio della musica, componendo già a cinque anni brani per clavicembalo e violino.

Il padre Leopold, un uomo dal carattere austero, permeato di ideali illuministi, schivo e sprezzante, che all'epoca ricopriva l'incarico di maestro di cappella del principe arcivescovo di Salisburgo e celebre violinista compositore, fu il suo primo maestro.

E proprio dagli appunti del padre si apprende che Wolfgang prima dei quattro anni era già in grado di utilizzare una raccolta di esercizi che egli stesso aveva preparato, e che a Wolfgang occorreva solo mezz'ora per eseguirli perfettamente.

Nel 1762 Leopold portò il piccolo Wolfgang e sua sorella Nannerl di undici anni, anche lei bambina prodigio, in giro per le corti d’Europa. Durante il viaggio, Wolfgang compose sonate per violino e clavicembalo (1763), una sinfonia (1764), un oratorio (1766), e l’opera buffa "La finta semplice" (1768).

Nel 1769 Wolfgang viaggiò con il padre per l'Italia, soggiornando e perfezionando gli studi musicali a Milano, Venezia, Bologna, Roma e Napoli. A Milano, per il teatro La Scala, Mozart compone l’opera seria "Mitridate re di Ponto", rappresentata nel 1770, e si avvicina alle composizioni di Sammartini.

A Roma ascolta le polifonie ecclesiastiche, mentre a Napoli prende coscienza dello stile diffuso in Europa.

Finita l'esperienza italiana, torna a Salisburgo e precisamente al servizio dell'iroso arcivescovo Colloredo, che gli lascia la massima libertà di movimento concedendo a Wolfgang di recarsi ancora in Italia per assistere a Milano alla rappresentazione dell’opera "Lucio Silla" (1772).

Da allora fino al 1777, ad eccezione di brevi viaggi a Vienna dove prese lezioni da Haydn e si dedicò allo studio del contrappunto, Mozart restò quasi sempre a Salisburgo.

Sulla spinta del successo ottenuto, nel 1777 lascia l'incarico presso l'Arcivescovo Colloredo e inizia la carriera di musicista autonomo e si reca a Parigi insieme alla madre (che muore proprio in quella città), toccando Manheim, Strasburgo e Monaco e scontrandosi per la prima volta con insuccessi professionali e sentimentali.

Deluso, Mozart, torna a Salisburgo e si dedica alla composizione di sonate, sinfonie e concerti. Qui compone la bellissima "Messa dell'Incoronazione K 317" e l'opera rappresentata a Monaco il 29 gennaio 1781 "Idomeneo, re di Creta", molto ricca dal punto di vista del linguaggio e delle soluzioni sonore, che riscosse un inatteso successo.

L'ultimo decennio della sua breve esistenza è per Mozart il più produttivo e felice per la musica.

Si trasferisce a Vienna, si sposa con Constanze Weber contro il parere di suo padre e, nel 1782, l’imperatore Giuseppe II gli commissiona un’opera. Egli sceglie di scrivere un "singspiel", cioè un’opera in tedesco con dialoghi recitati, su libretto di Gottlob Stephanie; Mozart compone così l’opera buffa "Il ratto dal serraglio".

I contatti con gli impresari e gli agganci con l'aristocrazia, favoriti dal successo dell'opera buffa, gli permettono un'esistenza precaria ma dignitosa.

Fondamentale è il suo incontro con il librettista Da Ponte che darà vita agli immortali capolavori teatrali conosciuti anche con il nome di "trilogia italiana", ossia "Le nozze di Figaro"(1786),"Don Giovanni"(1787) e "Così fan tutte"(1790).

Le prime due opere ottennero successi senza precedenti per l’epoca e fruttarono a Mozart la carica di Kammermusicus dell’imperatore.

Ma nel 1787 la morte del padre arrecò un grave colpo al suo instabile equilibrio economico e psicologico. Il tiepido successo della terza opera - “Così fan tutte” (1790) - fu seguito dalla morte dell’imperatore Giuseppe II.

Il successore, Leopoldo II, pur non essendo interessato alla musica quanto Giuseppe II, nel 1791 per la sua incoronazione commissionò a Mozart l’opera seria "La clemenza di Tito" (su libretto di Metastasio).

Nel 1790 Mozart compose per il teatro il singspiel "Il Flauto magico" - considerato il momento di avvio del teatro tedesco - ma il 5 dicembre del 1791 si spense misteriosamente all'età di soli 35 anni, lasciando incompleto il "Requiem in Re minore", portato a termine dal suo allievo Franz Sussmayr.

La sua preziosa eredità comprende opere di musica sinfonica, sacra, da camera e di vario genere. 

 

26/1/2018


Avvenimenti 

 

Speciale “Giorno della Memoria”: per non dimenticare. 

 

"La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati".

Così recita il testo dell'articolo 1 della legge italiana che spiega cosa si ricorda nella Giornata della Memoria.

La scelta del 27 gennaio si riferisce proprio al giorno in cui, nel 1945, le truppe sovietiche dell'Armata Rossa scoprirono il campo di concentramento di Auschwitz e liberarono i pochi sopravvissuti allo sterminio, rivelando al mondo intero l'assurdità e la follia del genocidio nazista e gli strumenti di tortura e di annientamento del lager.

La Giornata della Memoria è celebrata in molte nazioni, ed è riconosciuta anche dall'ONU in seguito alla risoluzione 60/7 del 1º novembre 2005. 

 

«Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto». Così lo scrittore rumeno Elie Wiesel (1928-2016), sopravvissuto all’Olocausto e Premio Nobel per la pace 1986, ha ricordato nelle sue memorie uno dei tanti orrori vissuti nel lager di Auschwitz. Un inferno da cui fu liberato insieme a poche migliaia di superstiti, ridotti in condizioni scheletriche, dall'arrivo delle truppe sovietiche.

 

La città di Oświęcim (in tedesco Auschwitz), sita a 75 km da Cracovia, era stata per secoli un luogo di pacifica convivenza tra gli abitanti di origine polacca e quelli di origine tedesca. Dal 1400 la popolazione era in maggioranza di religione ebraica, ma ciò non le aveva impedito di figurare tra i principali centri della cultura protestante in Polonia. Lo scoppio del secondo conflitto mondiale mutò completamente lo scenario.

 

Dopo l'invasione della Polonia, i Nazisti decisero di aprire in questa zona un campo di concentramento destinato a dissidenti polacchi, comunisti, intellettuali, criminali tedeschi e zingari. A questo scopo furono utilizzate delle vecchie caserme dell'esercito polacco, nella periferia della città.

 

L'area, recintata con il filo spinato elettrificato, venne chiusa da un cancello di ferro tristemente famoso per la scritta ingannevole che lo sormontava: «Arbeit macht frei» ("il lavoro rende liberi"). Il fabbro che l'aveva realizzata pare che avesse appositamente saldato la "B" al contrario, in segno di protesta verso la reale funzione del luogo.

 

Nei due anni successivi il complesso si ampliò ulteriormente con il campo di Birkenau, riservato inizialmente ai prigionieri russi, e il campo di lavoro di Monowitz, quest'ultimo destinato a sfruttare il lavoro dei deportati per la costruzione di una fabbrica legata alla produzione di gomma sintetica (mai avviata). Con l'adozione della famigerata soluzione finale, proposta nella conferenza di Wannsee del gennaio 1942, l'area divenne lo strumento di un disegno criminoso: lo sterminio del popolo ebraico.

 

Da quel momento Birkenau si trasformò in una "cittadella di morte", attraverso la costruzione di camere a gas e forni crematori. La scelta ricadde qui per la vicinanza della linea ferroviaria che facilitava le deportazioni.

 

Al loro arrivo i prigionieri venivano spogliati di tutto e rivestiti con una casacca standard che si distingueva per un contrassegno colorato all'altezza del torace (identificativo della categoria del detenuto; agli ebrei era associata una stella gialla a sei punte) e per il numero di matricola (tatuato anche sul braccio sinistro).

 

Tutti i deportati ignoravano la loro destinazione e la sorte che li attendeva. Stremati dalla fame e dalle indicibili torture patite, molti preferirono andare incontro alla morte volontaria lanciandosi contro il filo spinato elettrificato, piuttosto che aspettare di essere avvelenati dal gas e bruciati nei forni crematori. Qui, in tre anni, furono messi a morte circa 12 mila ebrei al giorno.

 

Uno sterminio di massa che si interruppe solo di fronte all'avanzata dell'Armata rossa in Polonia, di fronte alla quale il capo delle SS Himmler diede l'ordine di evacuare i prigionieri e distruggere qualsiasi traccia dei crimini commessi, dai forni crematori agli indumenti delle vittime ammassati nei magazzini. L'operazione non poté essere portata a termine e molte testimonianze di quell'inferno rimasero intatte.

 

Quando il pomeriggio del 27 gennaio le truppe sovietiche della Prima Armata del Fronte Ucraino, al comando dal maresciallo Konev, abbatterono i cancelli di Auschwitz si trovarono di fronte a 7 mila fantasmi: tanti erano i sopravvissuti ridotti a pelle e ossa che li accolsero. L'ispezione della zona fece emergere le prime tracce dell'orrore consumato all'insaputa del mondo intero: tra i vari resti, furono rinvenute 8 tonnellate di capelli umani.

 

Nelle settimane successive si poté così svelare il più grande inganno della storia, partendo dai numeri. Si parlò inizialmente di 4 milioni di ebrei uccisi ad Auschwitz, cifra rivista in seguito e fissata a 1.500.000. La gran parte di essi fu messa a morte poco dopo l'arrivo, la restante spirò per malattie e denutrizione.

 

Più dei numeri dicevano le numerose testimonianze dei sopravvissuti, tra cui lo scrittore torinese Primo Levi (autore del romanzo Se questo è un uomo), e quelle lasciate dalle vittime, come il celebre diario di Anna Frank.

 

Istituzioni governative e culturali si attivarono negli anni perché le generazioni future non dimenticassero mai più questa drammatica pagina di Storia. L'UNESCO dichiarò Auschwitz Patrimonio dell'Umanità nel 1979. Nel 1996 la Germania riconobbe il 27 gennaio come Giorno della memoria delle vittime del Nazismo, proclamata anche dall'Italia (nel 2000) e dall'ONU (risoluzione 60/7 del 1° novembre 2005). 

 

20/1/2018


Ambiente

 

6 anni fa il Naufragio della nave Concordia: cronaca di un disastro.  

 

Venerdì 13 gennaio 2012, ore 21.30: luci, musica e il clima di festa di una crociera iniziata da poco. È la suggestiva immagine che la Costa Concordia consegna al suo passaggio davanti all'Isola del Giglio, perla naturalistica dell'arcipelago toscano. Poi, il disastro. 

 

In pochi attimi uno schianto prelude a una notte di terrore e morte, che si conclude con la mastodontica nave sommersa per metà dal mare. Inizia così la storia di un assurdo naufragio che ferisce al cuore la secolare tradizione di un «paese di poeti, santi e navigatori».

 

Data al 9 luglio 2006 la prima crociera della Costa Concordia, gioiello tecnologico (290 m di lunghezza per 114 mila tonnellate di stazza) e vanto della compagnia italo americana Costa Crociere, battezzata dalla famosa modella Eva Herzigova nel porto di Civitavecchia e il cui nome rimanda all'unità e alla pace fra le nazioni europee (per questo i suoi tredici ponti sono intitolati ad altrettanti Stati del Vecchio continente).

 

Dallo stesso porto laziale, alle 19 di venerdì 13 gennaio, parte la crociera low cost "Il profumo degli agrumi" con direzione Savona. Per i 3.216 passeggeri (989 di nazionalità italiana) cominciano sette giorni di relax e divertimento, toccando splendide località del Mediterraneo tra Italia, Francia e Spagna. A guidarli in questa vacanza c'è un equipaggio di 1.013 elementi agli ordini del comandante Francesco Schettino, 52enne originario della penisola sorrentina.

 

Un'ora dopo la partenza quest'ultimo lascia il comando al primo ufficiale Ciro Ambrosio, con l'ordine di avvertirlo a sei miglia dall'Isola del Giglio. La navigazione procede regolare, mentre giù, nelle sale ristorante, si consuma la cena. Tra i commensali c'è anche lo stesso Schettino in compagnia di Domnica Cermotan, 25enne moldava ed ex ballerina della Costa.

 

Alle 21.30 la nave si approssima a fronteggiare la costa del Giglio e il comandante risale in plancia per realizzare un qualcosa che ha in mente dall'inizio del viaggio: la manovra dell'inchino. Si tratta di una prassi consolidata (anche se ufficialmente non riconosciuta) tra i capitani delle navi crociera, che prevede il passaggio sottocosta per salutare con luci e segnali acustici gli abitanti del posto. In questo caso, la dedica è personale ed è rivolta a Mario Palomo, comandante in pensione che Schettino chiama al telefono proprio in quel frangente.

 

Nemmeno un quarto d'ora dopo, la Concordia impatta violentemente con la fiancata sinistra contro uno scoglio che sventra la pancia della nave, aprendo una ferita lunga 75 m e larga 2. L'urto provoca un boato allarmando i passeggeri. La paura si trasforma in panico quando pochi istanti dopo la motonave compie una sorta di testa coda e si incaglia a mezzo miglio dalla costa. Nei locali è un inferno di tavoli e mobili che si rovesciano, con la gente, ignara dell'accaduto, che scappa in tutte le direzioni.

 

L'equipaggio predica la calma parlando di guasto tecnico ma quando il primo ufficiale Giovanni Iaccarino scende in sala macchine e trova l'area completamente invasa dall'acqua, intuisce che non resta più tanto tempo per agire. Alle 22, mentre la nave cala nel buio più totale, partono le prime chiamate dei passeggeri verso i parenti che a loro volta allertano Carabinieri e Capitaneria di Livorno. Inizia una fase convulsa di telefonate tra quest'ultima e Schettino, che solo alle 22.26 ammette l'esistenza di «una via d’acqua», assicurando che non ci sono morti e feriti da segnalare.

 

La capitaneria non si fida e fa partire i soccorsi. A questo punto scatta una sorta di ammutinamento tra gli ufficiali, che affidano il comando a Roberto Bosio. È lui a dare il segnale di evacuazione immediata poco prima delle 23, al cui suono la gente si fa prendere dal panico accalcandosi sulle scialuppe tra urla e pianti. Attimi fatali per due turisti francesi e un marinaio che precipitano in mare, morendo annegati e per assideramento. Sono le prime tre vittime di questa assurda tragedia.

 

Intorno alla mezzanotte, con la nave riversa in acqua sul fianco destro, testimoni notano Schettino su uno scoglio vicino alla Concordia, mentre le operazioni di evacuazione sono ancora in corso. Il sospetto che abbia abbandonato la nave per mettersi in salvo, mette in allarme il comandante della capitaneria di porto di Livorno Gregorio De Falco, che lo raggiunge telefonicamente. Tra i due intercorrono tre chiamate dai toni concitati che, diffuse successivamente dai media, alimentano i sospetti sulla condotta poco ortodossa di Schettino.

 

Alle 4.46 si concludono le operazioni di salvataggio dei passeggeri, ma all'appello mancano 27 persone oltre alle tre vittime già accertate; i loro corpi vengono recuperati nei mesi successivi portando il bilancio complessivo a 32 morti. All'indomani del naufragio parte la caccia ai responsabili. In cima all'elenco c'è Schettino, per il quale scatta l'arresto con le accuse di omicidio plurimo colposo, naufragio e abbandono di nave. Al vaglio degli inquirenti c'è la mancata segnalazione del mayday (richiesta di soccorso) e il passaggio troppo ravvicinato alla costa del Giglio.

 

Statistiche alla mano, la Concordia risulta la nave passeggeri di maggior tonnellaggio mai naufragata. Ciò spiega le difficili operazioni di recupero del relitto, iniziate il 29 maggio 2013 e giunte a una svolta nel settembre dello stesso anno con il completamento della rotazione. 

 

Il 23 luglio 2014, dopo due anni e mezzo, il relitto torna a navigare. La Costa Concordia lascia l’Isola del Giglio con destinazione Genova per lo smantellamento, mentre sirene e applausi salutano i primi movimenti in mare della nave. Il relitto viene trainato da due rimorchiatori oceanici agganciati a prua, con altri due rimorchiatori portuali di supporto a poppa.

Il 27 luglio 2014 la Costa Concordia conclude il suo ultimo viaggio.      

 

12/1/2018


Personaggi 

 

11 anni fa Steve Jobs presentava al mondo l’iPhone: un dispositivo multifunzione magico e rivoluzionario. Iniziava la nuova era della telefonia cellulare.

 

“Siamo qui per scrivere un pezzo di storia. Con questo prodotto rivoluzionario abbiamo fatto un salto in avanti di almeno 5 anni rispetto alla concorrenza: abbiamo reinventato il telefono”.

Era il 9 gennaio del 2007 - un martedì - quando con queste parole Steve Jobs presso il Moscone Center di San Francisco presentava al pubblico l’iPhone, l’ultima sfida targata Apple. Un prodotto che alle tradizionali caratteristiche di un cellulare associava quelle proprie di un palmare e di un iPod: navigazione in internet; foto ad alta risoluzione; chat in diretta; download di musica e film; invio di email; utilizzo di Google Maps. 

Un dispositivo divenuto in seguito un’autentica icona diffusa in tutto il pianeta. 

Cominciava così la “grande rivoluzione” nel modo di utilizzare la telefonia cellulare.

Da allora sono innumerevoli i modelli lanciati da Apple sul mercato.

Ma chi era Steve Jobs?

Genio dell’informatica, imprenditore creativo, opinion leader, visionario.

L'uomo che inventò il futuro. 

 

Nato il 24 febbraio del 1955 da Joanne Carole Schlieble, americana, e Abdulfattah John Jandali, uno studente siriano, Steve viene dato in adozione a Paul e Clara Jobs, residenti a Mountain View in California. A scuola viene visto come un ragazzino ribelle, un contestatore che si rifiuta di studiare e che viaggia alla ricerca di se stesso. Jobs in realtà è un lavoratore instancabile e una mente creativa. Nel 1972 si diploma all'istituto Homestead di Cupertino e si iscrive al Reed College di Portland, nell’Oregon, ma dopo il primo semestre abbandona gli studi per lavorare presso Atari. Nel 1976, a soli 20 anni, fonda la Apple Computer Inc insieme a Stephen Wozniak e Ronald Wayne, che però cede le sue quote alla prima commessa.

Per finanziare l’impresa, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen e Wozniak la calcolatrice.

La prima sede della società è il garage dei genitori di Steve: qui i due ragazzi lavorano al loro primo computer, l'Apple I, assemblando a mano 50 esemplari venduti a un negozio di informatica, The Byte Shop. Successivamente ottengono un finanziamento di 250.000 dollari dall’ex dirigente di Intel Mike Makkula. E nel 1977 lanciano l’Apple II, le cui vendite toccano il milione di dollari.

L’azienda è ancora troppo di nicchia per la mente brillante di Jobs, così nel 1983 cede il timone a John Sculley, ex CEO di Pepsi Cola, nella speranza di far crescere la società. Tra i due i rapporti si guastano presto e dopo il successo del primo Macintosh (1984), Jobs lascia la Apple nel 1985, in coincidenza con un'ondata di licenziamenti.

Il pioniere dell’informatica non si lascia abbattere e, all'età di trent'anni, decide di ricominciare da capo fondando la compagnia Next Computer. Il suo obiettivo è da subito altissimo: lanciare una nuova rivoluzione tecnologica. Apple però intenta una causa legale raggiungendo un accordo extragiudiziale: Jobs si impegna a non assumere personale proveniente da Apple e concede alla sua ex azienda il diritto di verificare ogni nuovo prodotto Next prima dell'uscita sul mercato. Negli anni successivi la ditta di Jobs produce computer migliori e tecnologicamente più avanzati dei suoi concorrenti. I prezzi sono più alti, ma l’eccellenza di prodotto è indiscussa: sarà questo il biglietto da visita per il ritorno di Steve negli uffici della Mela morsicata. Nel frattempo, nel 1986, Jobs acquista la Pixar (che poi venderà alla Disney), con l'ambizione di realizzare unicamente animazioni computerizzate. Il successo arriva anche qui, nel 1995, con la produzione di Toy Story, primo film d'animazione realizzato completamente in computer grafica 3D, e poi con A Bug’s Life.

Lontano da Apple, Steve impegna il suo cuore altrove e sposa, nel marzo del 1991 Laurene Powell, con una cerimonia buddista. La loro unione durerà 21 anni, durante i quali la coppia avrà tre figli: Reed, Erin ed Eve. Jobs ha anche una figlia naturale - Lisa - nata nel 1978 dalla relazione con Chris Ann Brennan, una pittrice di San Francisco. Inizialmente Steve non la riconosce, ma poi recupera il rapporto, dedicandole il nome di un computer. A detta di molti parenti e amici, i figli hanno rappresentato il suo orgoglio più grande, più di qualsiasi progetto informatico.

Nel 1996 la Apple è in crisi: l'azienda ha necessità di cambiare e offrire qualcosa di nuovo sul mercato. Per questo decide di trovare il miglior sistema operativo sul mercato e lo trova nella Next di Steve Jobs, naturalmente. La piccola società, anch’essa in crisi, si fa acquistare dal colosso di Cupertino e nasce il Mac Os X, che riscuote subito successo. Il rientro di Jobs in Apple è una crescita costante: nel 1997 Steve assume nuovamente la carica di CEO, questa volta ad interim e senza stipendio, ricevendo la cifra simbolica di un dollaro all’anno. Molti però sono i premi di produzione, tra cui un jet privato nel 1999 e quasi 30 milioni di dollari in azioni tra il 2000 e il 2002. Sotto la sua guida, la Apple rinasce e diventa l’azienda più avanzata nel campo della tecnologia.

È in questa seconda fase che Jobs esprime al massimo il suo talento, unendo la sua anima di imprenditore a quella di comunicatore e guru. I successi di Steve Jobs si susseguono, non per l’invenzione di nuovi prodotti, ma per la geniale trasformazione del loro utilizzo. Già esistevano computer, lettori mp3, smartphone e tablet per e-book e giornali, ma con l’iPod, l’iPhone e l’iPad cambia il modo di usarli e nascono dei trend mondiali. Con iTunes Jobs rivoluziona anche il mercato della musica, spostando gli acquisti online, presso l’iTunes Music Store. E gli Apple Store trasformano l’esperienza commerciale, affermandosi come luoghi di ritrovo e di riconoscimento culturale globale, da New York a Pechino.

Il 5 ottobre del 2011 Steve Jobs muore di cancro al pancreas, un male che lo aveva già colpito nel 2004. Ritiratosi da ogni incarico operativo da qualche anno, il 24 agosto 2011 aveva abbandonato anche la carica di presidente, lasciandola al suo braccio destro Tim Cook.

L'ultima apparizione in pubblico risale al 7 giugno dello stesso anno, quando a sorpresa si presenta a una seduta del consiglio comunale di Cupertino (dove ha sede la Apple) per presentare il progetto del nuovo campus aziendale, a forma di astronave.L’annuncio della sua morte giunge di notte sulla home page del sito della sua azienda: “Apple ha perso un genio creativo e visionario e il mondo ha perso un formidabile essere umano”. In risposta, sempre sul sito di Apple più di un milione di persone hanno pubblicato pensieri, sentimenti, ricordi, e molte di più si sono spese in ringraziamenti e citazioni sui principali social network.

 

Dietro di sé, Steve Jobs lascia un patrimonio forse inestimabile, un'azienda con la maggiore capitalizzazione azionaria a livello internazionale e con uno dei loghi più famosi al mondo. 

 

6/1/2018


Musica

 

Buon compleanno Adriano Celentano! 

 

I primi 80 anni del "Molleggiato" nazionale.

 

 

Adriano Celentano nasce il 6 gennaio del 1938 a Greco Milanese da una famiglia di origine pugliese. Dopo la quinta elementare lascia la scuola e svolge diversi mestieri, tra cui quello dell’orologiaio. Rimane folgorato dalla canzone Rock around the clock (1955) di Bill Haley e fonda il gruppo Rock Boys insieme a quattro amici, i tre fratelli Ratti e Ico Cerutti. La band debutta nel 1965 all’Ancora di Milano; successivamente suona al Santa Tecla e su altri palchi milanesi. Alla band di Celentano si aggiunge al piano Enzo Jannacci, presentato dal nuovo saxofonista dei Rock Boys, Pino Sacchetti. Il gruppo si esibisce alternando la musica a intermezzi di cabaret e ballo. In questo periodo Adriano conosce il ballerino Alberto Longoni, in arte Torquato il Molleggiato, che spesso partecipa con la band ad alcuni spettacoli. Non presentatosi a uno di questi, viene sostituito dallo stesso Celentano che da allora diventa Il Molleggiato.

Nel 1957 il ballerino Bruno Dossena organizza il Primo Festival del Rock’n’Roll italiano, invitando i Rock Boys a esibirsi. Nel pubblico del festival è presente il discografico Walter Guertler: propone a Celentano un contratto con la sua etichetta Music che nel 1958 pubblica quattro 45 giri di cover americane del cantante: i dischi hanno scarso successo commerciale ma diventano rarità discografiche per i collezionisti. Intanto all’interno della band ci sono i primi cambiamenti: Ico Cerutti e due dei fratelli Ratti si dedicano ad altre attività, sostituiti da Flavio Carraresi, Gino Santercole e Giorgio Gaber. Adriano conosce Miki Del Prete, futuro collaboratore e autore di molte sue canzoni e grazie a lui si esibisce al Morgana di Sanremo e al Muretto di Alassio. Il mancato successo dei primi 45 giri spinge il discografico di Celentano a dirottarlo sull’altra sua etichetta di produzione, la Jolly, consentendogli di incidere brani in italiano. Buonasera signorina (1958) e La febbre dell’hoola hop (1958) sono i primi a comparire nel lato B di dischi ancora in inglese, ma nel 1959 viene pubblicata Ciao ti dirò. Il primo successo è Il ribelle (1959), seguito nello stesso anno da Il tuo bacio è come un rock (1959), con cui Celentano vince il Festival di Ancona. Il gruppo dei Rock Boys si scioglie e Adriano fonda I Ribelli, debuttando al Festival dell’Avanti a Milano con il brano Teddy Girl (1959).

Il 1959 è l’anno della prima collaborazione con Mina nella canzone Vorrei sapere perché e del primo film che lo vede protagonista, I ragazzi del Juke-Box di Lucio Fulci. Nel 1960 viene pubblicato il primo 33 giri intitolato Adriano Celentano con Giulio Libano e la sua orchestra che contiene i successi già incisi su 45 giri con l'aggiunta degli inediti Personality e Il mondo gira. Nello stesso periodo incide in coppia con Anita Traversi un disco contenente Piccola e Ritorna lo Schimmy. Al cinema viene chiamato da Federico Fellini per interpretare una canzone all’interno del film La dolce vita (1960) in cui canta Ready Teddy con i Campanino. Pubblica un secondo album, Furore (1960), caratterizzato da Serafino Campano e Hei Stella, e poche settimane dopo l’uscita è costretto a partire per il servizio militare. Qui conosce il tastierista Mariano Detto e inizia con lui un’amicizia che si trasforma in collaborazione professionale. Nel 1961 partecipa al Festival di Sanremo grazie a una dispensa firmata da Giulio Andreotti e in coppia con Little Tony canta Ventiquattromila baci. A Canzonissima 1961 presenta Nata per me, vince il premio La Stella d’Oro ma si vede impossibilitato a ritirarlo perché condannato a cinque giorni di reclusione per “libera uscita arbitraria”.

Il Clan Celentano nasce ufficialmente nel 1962 con la canzone Stai lontana da me con cui Adriano vince il Cantagiro dello stesso anno, pubblicizzando il 45 giri, disco tris, che contiene anche Sei rimasta sola e Amami baciami. È una vera e propria “comune artistica” in cui Adriano produce la sua musica, riunisce i talenti a lui più vicini e li lancia.

 

Il Clan nasce dal desiderio di staccarsi dalla Jolly e dà vita a una querelle legale che termina nel 1965 con la vittoria di Celentano. La sua ex casa discografica pubblica ugualmente altri brani cantati dal Molleggiato: Veleno, Si è spento il sole, Pregherò, Il tangaccio, A New Orleans e un LP contenente qualche inedito. L’esperienza del Clan dura sei anni, funestata da problemi contrattuali e ambizioni personali degli artisti, celebrata dalla canzone C’era una volta il Clan (1968) di Giorgio Gaber. Dopo l'uscita per cause legali di Don Backy, il Clan comincia a produrre solo Celentano e Claudia Mori.

Nel 1962 suona all’Olympia di Parigi con I Ribelli in due occasioni, spostandosi in treno per la sua nota paura di volare. La fobia del volo gli fa rinunciare a un tour negli Stati Uniti propostogli da Frank Sinatra. Sul set del film Uno strano tipo (1963) di Lucio Fulci conosce Claudia Mori, la donna che sposa in gran segreto l’anno successivo e da cui ha i tre figli Rosita (1965), Giacomo (1966) e Rosalinda (1968). La loro è una delle coppie più indissolubili dello spettacolo e nonostante una crisi negli anni Ottanta, sono tuttora uniti sia sul piano privato che professionale.

Tra il 1963 e il 1965 incide una serie di successi come Grazie, prego, scusi e Sabato triste, Il problema più importante e Sono un simpatico. Torna a Sanremo con Il ragazzo della via Gluck (1966), si classifica tra gli ultimi posti ma la canzone diventa un successo di vendite. Pier Paolo Pasolini rimane colpito dal brano e progetta un film che rimane però solo un’idea. Mondo in mi 7ª esce poco dopo e continua il filone di ispirazione sociale. Nel Clan entra Paolo Conte e debutta come autore melodico nella canzone Chi era lui (1966) con testi di Mogol e Del Prete. Sempre Conte scrive con Michele Virano due successi di Adriano: La coppia più bella del mondo (1967) e Azzurro (1968). Il 45 giri di Azzurro contiene sul lato B un altro cult del Molleggiato, Una carezza in un pugno. Nel 1969 pubblica Storia d’amore e l’anno successivo vince il Festival di Sanremo con Chi non lavora non fa l’amore (1970), riprendendo il tono da predicatore già interpretato nei brani Tre passi avanti (1967) e Torno sui miei passi (1969).

Negli primi anni Settanta Adriano è in classifica con Viola, Sotto le lenzuola e la canzone Er più. Nel 1972 Un albero di trenta piani affronta l’argomento ecologista, contenuto nel LP I mali del secolo, in cui ogni brano affronta una tematica sociale. A novembre dello stesso anno esce Prisencolinensinainciusol, un brano definito da Celentano “il seme del rap”, che entra in classifica negli Stati Uniti prima che in Italia. Annuncia la sua partecipazione al Festival di Sanremo 1973 con la canzone L’unica chance ma all’ultimo si ritira, accusando una gastrite a suo dire indotta dalle scelte degli organizzatori nei confronti di alcuni cantanti esclusi dalla gara. L’anno successivo ha successo con il 45 giri Bellissima (1974) mentre nel 1975 torna al tema sociale con Svalutation. Intraprende un tour nel 1977, registrato nel disco dal vivo Me, live! (1979), pubblica Ti avrò (1978), Soli (1979) e ritorna sul palco per promuovere il disco in una serie di date che fanno il tutto esaurito.

Nel 1980 con l’intervista contenuta nel libro La mosca al naso - Interviste famose di Roberto Gervaso, parla della sua fede religiosa e del suo amore per l’ambiente, Celentano è infatti vegetariano e due anni dopo pubblica il libro autobiografico Il paradiso è un cavallo bianco che non suda mai (1982). Nello stesso periodo è protagonista di film di successo, come Il bisbetico domato (1980) e Asso (1981), entrambi di Castellano e Pipolo, e Bingo Bongo (1982) di Pasquale Festa Campanile. Incide due album cover, I miei americani e I miei americani 2, mentre in tv è protagonista di Fantastico 8 (1987). Torna nel 1991 con l’album Il re degli ignoranti, uscito con l’omonimo libro, contenente Fuoco e La terza guerra mondiale, mentre sul grande schermo interpreta Jackpot (1992) di Mario Orfini, suo ultimo film. Partecipa al programma Notte Rock (1991) e in tv conduce Svalutation (1992). Il 1994 vede la pubblicazione dell’album Quel Punto, ritirato dal mercato per problemi di copyright e ripubblicato poco dopo, e dell’ultimo tour live. Arrivano gli uomini (1996) non riscuote il successo sperato ma Celentano è sempre Celentano; l’anno successivo si esibisce davanti al Papa, riproponendo i successi della sua carriera. Nel 1998 incide con un album con Mina, contenente i duetti Acqua e sale e Che t’aggia di’, l’anno seguente è la volta di Io non so parlar d’amore (1998), scritta da Mogol e Gianni Bella.

 

Il suo show trasmesso da Rai 1 Francamente me ne infischio (1999) è un successo con punte di 13 milioni di spettatori. Nel 2000 Adriano pubblica Esco di rado e parlo ancora meno, riconfermando le sue doti di grande cantante e interprete. Nel 2002 esce con l’album Per sempre, lanciato da Confessa, Mi fa male e Per sempre. Nel 2004 punta lo sguardo a più generi musicali con C’è sempre un motivo, dove duetta con la cantante Cesaria Evora ed è presente un inedito di Fabrizio De Andrè, pubblicato nuovamente l’anno successivo in versione DualDisc. Le sue doti televisive lo richiamano sul piccolo schermo con Rockpolitik (2005), registrando il 45% di share: un programma celebrato con un libro dal medesimo titolo uscito nel 2008.

Nel 2006 esce Unicamentecelentano, una raccolta di tre CD con i suoi successi dal 1957, e lo stesso anno partecipa a una puntata di Che tempo che fa, alzando in maniera esponenziale gli ascolti del programma. Pubblica Dormi amore, la situazione non è buona (2007) lanciato dal singolo Hai bucato la mia vita, che vede la partecipazione di molti artisti italiani, e vince quattro dischi di platino in un mese e mezzo. Torna su Rai 1 con lo spettacolo La situazione di mia sorella non è buona (2007) e la Rai celebra i suoi settant’anni con lo speciale Buon Compleanno Adriano (2008). Si ripresenta in pubblico per il centenario dell’Inter, sua squadra del cuore, cantando i suoi successi, e sempre nel 2008 lancia sul web Sognando Chernobyl, primo singolo di lancio del nuovo album L’animale (2008). Nel 2011 esce un nuovo cd Facciamo finta che sia vero, anticipato da Non ti accorgevi di me e dall’apertura della pagina ufficiale su Facebook. A dicembre 2011 pubblica il singolo Non so più cosa fare, cantato con Franco Battiato, Jovanotti e Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, e si esibisce nel concerto di beneficenza per gli alluvionati di Genova indetto da Beppe Grillo. Nello stesso periodo la voce che gira da tempo viene confermata: Adriano partecipa al Festival di Sanremo 2012 in uno spazio completamente dedicato a lui. Ancora nel 2012, con "Rock economy" sale di nuovo sul palco (a distanza di 18 anni) con due concerti all'Arena di Verona.

Nel 2016 “il molleggiato” ha inciso “Le migliori”, una raccolta di brani totalmente inediti con l’immensa Mina: un successo da 5 dischi di platino.

Auguri Adriano!

 

4/1/2018


Televisione

 

“Roberto Bolle - Danza con me”: il 1° gennaio su Rai 1. 

 

Dopo il successo riscosso nella scorsa stagione, Roberto Bolle torna sulla rete ammiraglia della Rai con un evento in prima serata, il 1 gennaio 2018 alle ore 21: un grande show prodotto in collaborazione con la Ballandi Multimedia, di cui "L'étoile dei due mondi” questa volta è non solo protagonista ma anche Direttore Artistico. Al suo fianco Michael Cotten, mente creativa di molti SuperBowl e cerimonie olimpiche oltre che set designer di Michael Jackson. Tanti gli ospiti internazionali che si alterneranno sul palco: da Sting a Tiziano Ferro, da Geppi Cucciari a Virginia Raffaele. Non mancheranno stelle del balletto di fama mondiale come Polina Semionova e l’étoile di Parigi Léonore Baulac. Insomma, uno Spettacolo con la “esse” maiuscola per salutare il nuovo anno.

Un appuntamento da non perdere, all’insegna della qualità e dell’eccellenza artistica.  

 

Nato a Casale Monferrato, in provincia di Alessandria, il 26 marzo del 1975, all’età di 12 anni Roberto Bolle viene ammesso alla scuola di ballo dell'Accademia Teatro alla Scala e a notarne il talento è un “certo” Rudolf Nureyev, che lo scrittura per il ruolo di Tadzio nell'opera "Morte a Venezia".

Insignito nel 1999 del premio Gino Tani e l'anno seguente del premio Galileo, diventa una star mondiale, recitando al Bolshoi di Mosca (in "Romeo e Giulietta"), al Covent Garden di Londra (ne "La bella addormentata") e al teatro Mariinskij di San Pietroburgo (ne "Il lago dei cigni").

Étoile del Teatro alla Scala di Milano dal 2004, Roberto Bolle ha danzato in tutti i maggiori teatri del mondo e con le compagnie più prestigiose, tra le quali l'American Ballet Theatre, il Balletto dell'Opéra di Parigi, il Balletto del Bol'šoj e del Mariinskij-Kirov, il Royal Ballet.

Il 1° giugno 2002 si è esibito al Golden Jubilee della Regina Elisabetta, a Buckingham Palace. L'evento è stato trasmesso in mondovisione dalla BBC. Il 1° Aprile 2004 ha danzato al cospetto di Sua Santità Giovanni Paolo II sul sagrato di Piazza San Pietro, a Roma, per la Giornata della Gioventù. Nel febbraio 2006 si è esibito nella cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici Invernali di Torino, trasmessa in mondovisione.

A partire dal 2008 ha portato con enorme successo il suo Gala "Roberto Bolle and Friends" in luoghi fino ad allora mai raggiunti dalla danza: il sagrato del Duomo di Milano e Piazza Plebiscito di Napoli dove è stato seguito da un pubblico di migliaia di persone. Inoltre ha realizzato spettacoli eccezionali nella magica cornice del Colosseo e delle Terme di Caracalla a Roma, nella Valle dei Templi di Agrigento, nella Certosa di Capri, nel Giardino di Boboli a Firenze, a Torre del Lago Puccini e in Piazza San Marco a Venezia.

Dopo il clamoroso successo di pubblico e di critica riscosso al suo esordio al Metropolitan di New York nel 2007, dove ha danzato con Alessandra Ferri per il suo addio alle scene, nel 2009 è stato nominato "Principal" dell'American Ballet Theatre entrando organicamente nella stagione della Compagnia, onore mai tributato a nessun altro ballerino italiano. Da allora, ogni anno, è tra i protagonisti della stagione dell'ABT e viene definito "L'étoile dei due mondi".

Dal 1999 è "Ambasciatore di buona volontà" per l'UNICEF, organizzazione che sostiene partecipando a una serie numerosa e significativa di iniziative, tra cui un viaggio effettuato nel 2006 nel Sud del Sudan e uno nel novembre del 2010 nella Repubblica Centrafricana, per riportare testimonianza diretta della tragica situazione in cui versano le popolazioni di quei Paesi. Dal 2007, inoltre, Roberto Bolle collabora con il FAI - Fondo per l'Ambiente Italiano - e nel marzo 2009 è stato nominato "Young Global Leader" dal World Economic Forum di Davos.

Nel 2012 è stato insignito del prestigioso titolo di "Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana" conferitogli dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in virtù dei meriti acquisiti verso il Paese in campo culturale. Del 2014 è invece la Medaglia dell'Unesco, conferitagli a Parigi, per il valore culturale universale della sua opera artistica, come: "riconoscimento del suo contributo alla promozione delle idee dell'UNESCO attraverso la danza come espressione culturale vivente e come vettore di dialogo". Sempre nel 2014 Bolle è stato scelto come protagonista della nuova campagna "Rethink Energy" di Eni per la quale ha realizzato un incredibile spot con la regia di Fabrizio Ferri. Il rapporto con Eni vedrà la società energetica sostenere l'Étoile in una serie di iniziative artistiche e culturali in Italia e all'estero.

Ad aprile del 2015 è uscito per Rizzoli il libro fotografico "Viaggio nella Bellezza" con immagini che lo ritraggono in alcuni dei luoghi simbolo del patrimonio artistico italiano. In particolare: le foto di Fabrizio Ferri ritraggono il fisico statuario del danzatore fra le rovine di Pompei, nella cornice di affreschi romani e di muri scrostati, un luogo simbolo della grandezza della nostra storia e della necessità di tutelarne la memoria. Il viaggio nelle bellezze d'Italia prosegue attraverso le foto di Luciano Romano, da piazza San Marco ad Agrigento, dal Colosseo alle terme di Caracalla, dove l'armonia dei gesti e l'equilibrio tra il danzatore e i luoghi evocano una profonda riflessione sull'arte e sull'eccezionalità del nostro patrimonio. Sempre nel 2015 Roberto Bolle si avvicina per la prima volta al cinema nel ruolo di regista partecipando al progetto corale Milano 2015, film documentario prodotto da Lumière & Co di Lionello Cerri, su soggetto di Cristiana Mainardi e diviso in sei episodi con altrettante regie: oltre a Bolle, Walter Veltroni, Silvio Soldini, Giorgio Diritti, Elio di Elio e Le Storie Tese e Cristiana Capotondi. Il film, presentato con successo al Festival di Venezia, è uscito nelle sale e in video sui canali Sky e Rai Cinema.

Nel 2016 ha partecipato come ospite al Festival di Sanremo, portando un'inedita coreografia di Mauro Bigonzetti sulle note di "We Will Rock You" dei Queen. Sempre nel 2016 Rai 1 gli ha dedicato una prima serata del sabato con lo show evento "Roberto Bolle - La Mia Danza Libera". 

 

29/12/2017


Avvenimenti

 

La magia del Natale torna in Piazza San Pietro. 

 

Senza dubbio anche in questo Natale 2017, perpetuando una tradizione tutta capitolina, durante le ormai imminenti festività natalizie tanti romani si recheranno in piazza San Pietro per ammirare l’albero - un imponente abete rosso alto 28 metri, con una circonferenza massima di circa 10 metri, arrivato dalla Polonia, donato dall'arcidiocesi di Elke il presepeofferto dall'Abbazia Territoriale di Montevergine, dell’arcidiocesi di Benevento; un'opera d'arte realizzata in stile settecentesco, secondo la più antica tradizione napoletana, e ispirata alle opere della Misericordia -.

Inaugurati giovedì 7 dicembre, albero e presepe rimarranno illuminati fino alla notte di domenica 7 gennaio 2018.

Quale occasione migliore dunque per ripercorrere insieme, seppur brevemente, la storia della Basilica di San Pietro in Vaticano: il più importante tempio della cristianità, luogo simbolo della fede cattolica e scrigno di opere d'arte senza tempo, riconosciuto dall’UNESCO nel 1980 Patrimonio dell'Umanità. 

 

Mentre in seno alla cristianità cominciavano ad avvertirsi i primi segnali del protestantesimo, la Roma papale rispose avviando la costruzione di un nuovo grande tempio, completato in oltre un secolo. Destinato a diventare il cuore pulsante del cattolicesimo, i grandi maestri del Rinascimento e del Barocco ne fecero un prezioso scrigno di opere immortali.

Sul luogo di sepoltura dell'apostolo Pietro, primo pontefice della storia, sorgeva la basilica paleocristiana fatta erigere dall'imperatore Costantino nel 324, quale segno del clima di apertura al credo cristiano, inaugurato dall'Editto di Milano del 313. L'idea di sostituirla con un altro edificio di maggiori dimensioni fu avanzata inizialmente da papa Niccolò V, verso la metà del XV secolo.

La sua vasta opera di Renovatio dell'urbe, ossia di dare un'impronta monumentale alla città eterna, venne ripresa quasi mezzo secolo dopo da Giulio II, desideroso di tradurre in pratica il progetto della nuova basilica.

Il primo passo fu la nomina del Bramante a sovrintendente generale delle fabbriche papali, cui vennero affidate diverse opere di trasformazione urbanistica della città.

Su richiesta di Giulio II l'architetto marchigiano, tra i maggiori esponenti del Rinascimento, fece abbattere l'antica basilica paleocristiana, per fare spazio alla nuova costruzione. Si giunse così alla posa della prima pietra, il 18 aprile 1506. Il disegno iniziale del Bramante prevedeva una pianta "a croce greca" con una grande volta centrale e quattro piccole cupole, poi riveduto dallo stesso artista in favore del sistema "a croce latina".

La prematura morte degli architetti che si avvicendarono negli anni successivi (Raffaello e Antonio da Sangallo il Giovane), unita a vicende storiche drammatiche (come il Sacco di Roma del 1527) rallentarono moltissimo i lavori, che ebbero una svolta decisiva con l'assegnazione dell'incarico a Michelangelo Buonarroti, a quarant'anni di distanza dalla posa della prima pietra. Fu quest'ultimo a plasmare per sempre il profilo architettonico dell'edificio, disegnando l'imponente cupola, portata a termine dal suo discepolo Giacomo della Porta (tra il 1588 e il 1593).

Il completamento dell'opera si ebbe soltanto all'inizio del XVII secolo per mano di Carlo Maderno, che adottò definitivamente l'impianto a croce latina, prolungando la navata centrale fino all'attuale piazza San Pietro.

Consacrata il 18 novembre del 1626, la basilica conobbe un ultimo e determinante intervento grazie all'impareggiabile genio di Lorenzo Bernini, che concepì lo spettacolare colonnato attorno alla piazza, lasciando la sua firma anche all'interno nel maestoso Baldacchino di San Pietro che sovrasta l'Altare Maggiore.

Custode delle più sublimi espressioni del Rinascimento italiano, su tutte la Pietà di Michelangelo, la Basilica di San Pietro in Vaticano è visitata in media da sette milioni di turisti all'anno, in assoluto secondo luogo della cristianità più visitato al mondo (il primo è Nostra Signora di Guadalupe a Città del Messico). 

 

19/12/2017


Personaggi

 

Buon compleanno Papa Francesco! 

 

Domenica 17 dicembre il Pontefice compie 81 anni.  

Ripercorriamo allora insieme le tappe principali del suo cammino e della sua formazione.

La vita di Papa Francesco dunque: il ritratto dell'uomo del cambiamento epocale, sulle cui spalle gravano i destini della Chiesa Cattolica e in generale della fede cristiana. 

 

Jorge Mario Bergoglio nasce a Buenos Aires il 17 dicembre del 1936, figlio di emigranti piemontesi: suo padre Mario fa il ragioniere, impiegato nelle ferrovie, mentre sua madre, Regina Sivori, si occupa della casa e dell’educazione dei cinque figli.

Diplomatosi come tecnico chimico, sceglie poi la strada del sacerdozio entrando nel seminario diocesano. L’11 marzo 1958 passa al noviziato della Compagnia di Gesù. Completa gli studi umanistici in Cile e nel 1963, tornato in Argentina, si laurea in Filosofia al collegio San Giuseppe a San Miguel. Fra il 1964 e il 1965 è professore di Letteratura e Psicologia nel collegio dell’Immacolata di Santa Fé e nel 1966 insegna le stesse materie nel collegio del Salvatore a Buenos Aires. Dal 1967 al 1970 studia Teologia laureandosi sempre al collegio San Giuseppe.

Il 13 dicembre 1969 è ordinato sacerdote dall’arcivescovo Ramón José Castellano. Prosegue quindi la preparazione tra il 1970 e il 1971 in Spagna, e il 22 aprile 1973 emette la professione perpetua nei gesuiti. Di nuovo in Argentina, è maestro di novizi a Villa Barilari a San Miguel, professore presso la Facoltà di Teologia, consultore della provincia della Compagnia di Gesù e rettore del Collegio.

Il 31 luglio 1973 viene eletto provinciale dei gesuiti dell’Argentina. Sei anni dopo riprende il lavoro nel campo universitario, e tra il 1980 e il 1986 è di nuovo rettore del collegio di San Giuseppe, oltre che parroco ancora a San Miguel. Nel marzo 1986 va in Germania per ultimare la tesi dottorale; quindi i superiori lo inviano nel collegio del Salvatore a Buenos Aires e poi nella chiesa della Compagnia nella città di Cordoba, come direttore spirituale e confessore.

È il cardinale Quarracino a volerlo come suo stretto collaboratore a Buenos Aires. Così il 20 maggio 1992 Giovanni Paolo II lo nomina vescovo titolare di Auca e ausiliare di Buenos Aires. Il 27 giugno riceve nella cattedrale l’ordinazione episcopale proprio dal cardinale. Come motto sceglie “Miserando atque eligendo” e nello stemma inserisce il cristogramma “ihs”, simbolo della Compagnia di Gesù. È subito nominato vicario episcopale della zona Flores e il 21 dicembre 1993 diviene vicario generale. Nessuna sorpresa dunque quando il 3 giugno 1997 è promosso arcivescovo coadiutore di Buenos Aires. Passati neppure nove mesi, alla morte del cardinale Quarracino gli succede - il 28 febbraio 1998 - come arcivescovo, primate di Argentina, ordinario per i fedeli di rito orientale residenti nel Paese, gran cancelliere dell’Università Cattolica.

Nel Concistoro del 21 febbraio 2001 Giovanni Paolo II lo crea cardinale, del titolo di san Roberto Bellarmino. Nell’ottobre 2001 è nominato relatore generale aggiunto alla decima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, dedicata al ministero episcopale. Intanto in America latina la sua figura diventa sempre più popolare. Nel 2002 declina la nomina a presidente della Conferenza episcopale argentina ma tre anni dopo viene eletto, e poi riconfermato per un altro triennio nel 2008. Intanto, nell’aprile 2005, partecipa al conclave in cui è eletto Benedetto XVI.

Come arcivescovo di Buenos Aires pensa a un progetto missionario incentrato sulla comunione e sull’evangelizzazione. Quattro gli obiettivi principali: comunità aperte e fraterne; protagonismo di un laicato consapevole; evangelizzazione rivolta a ogni abitante della città; assistenza ai poveri e ai malati. Invita preti e laici a lavorare insieme. Nel settembre 2009 lancia a livello nazionale la campagna di solidarietà per il bicentenario dell’indipendenza del Paese: duecento opere di carità da realizzare entro il 2016. E, in chiave continentale, nutre forti speranze sull’onda del messaggio della Conferenza di Aparecida nel 2007, fino a definirlo “l’Evangelii nuntiandi” dell’America Latina.

Viene eletto Sommo Pontefice il 13 marzo del 2013, assumendo il nome di Francesco.

È il primo Papa ad assumere tale nome, il primo gesuita a diventare Papa e il primo Pontefice proveniente dal continente americano (e dall'emisfero australe).

 

Anche da Papa mantiene la sua proverbiale semplicità nei gesti quotidiani e nell'approcciarsi ai fedeli. Tra i primi provvedimenti l'avvio di un progetto di riforma della curia e dello IOR, quest'ultimo in risposta ai numerosi scandali finanziari del passato recente e remoto; la riforma del codice penale; misure di maggiore contrasto ai casi di pedofilia nel clero.

 

L’8 dicembre 2015 ha inaugurato un Giubileo straordinario[1] - indetto ad aprile dello stesso anno con la bolla “Misericordiae Vultus” - dedicato alla Misericordia, che ha avuto termine il 20 novembre 2016.

 


[1]

La pratica dei Giubilei straordinari, indetti per ottenere uno speciale aiuto divino in momenti difficili o delicati della Chiesa universale o delle Chiese locali, oppure in occasioni di particolare solennità come l’inizio di un pontificato, è antica, e risale almeno al XVI secolo. 

 

16/12/2017


Avvenimenti

 

Il Rapido 904: la strage di Natale. 

 

Nella tarda serata del 23 dicembre 1984 un’esplosione rovina il Natale di molte famiglie. A San Benedetto Val di Sambro, dove nell’estate del 1974 la cellula neofascista di Tuti aveva organizzato un attentato contro il treno Italicus, va in scena un tragico bis. A farne le spese è il Rapido 904, stracolmo di italiani in viaggio per le feste. Il bilancio è di sedici morti e di duecentosessantasette feriti.  

                                                                                

Il 23 Dicembre 1984 il Rapido 904 proveniente da Napoli e diretto a Milano è pieno di viaggiatori: la maggior parte di essi va a trovare i propri cari per le feste di Natale. Questo treno non giungerà mai a destinazione. Una volontà criminale, politico mafiosa, eversiva delle Istituzioni, vuole un massacro di cittadini innocenti. Tutto è predisposto per provocare il maggior numero possibile di vittime: l’occasione del Natale, la potenza dell’esplosivo, il “timer” regolato per fare esplodere la bomba alle 19:08 sotto la galleria di Vernio, sull'Appennino tra Firenze e Bologna, in coincidenza del transito sul binario opposto di un altro convoglio, per moltiplicare gli effetti devastanti della deflagrazione. Solo il tempismo del conducente, che prontamente blocca la linea, evita una strage maggiore. La bomba, secondo gli inquirenti, è stata collocata sul treno da un gruppo camorristico napoletano: uno di loro è salito a Napoli per appoggiarla sulla reticella per i bagagli lungo il corridoio.  

Le indagini mettono in luce le connessioni tra i piani alti di Cosa nostra e la manovalanza della camorra. La strage sarebbe stata ordinata per costringere lo Stato ad allentare lo sforzo repressivo sulla Sicilia. La mente è identificata nel boss Giuseppe Calò, detto Pippo - il cassiere di Cosa nostra -, soprannominato “la salamandra” per la sua capacità di uscire illeso da ogni vicenda, anche la più scottante, che dal suo rifugio di Roma ha i contatti giusti per organizzare la micidiale connessione. Il Natale di sangue del 1984 segna quindi una drammatica ripresa della strategia di morte della mafia. La “strage di Natale” rappresenta infatti una dura ed inequivocabile risposta agli attacchi coordinati che la magistratura e le forze dell’ordine sferrano in quegli anni grazie al contributo dei cosiddetti “collaboratori di giustizia”. 

È pertanto l’ala stragista di Cosa nostra a far saltare in aria il Rapido 904 e, dopo 30 anni di indagini sui rapporti fra mafia ed estremismo di destra, spunta finalmente il mandante: è il boss dei boss Salvatore Riina, che riceve in carcere un nuovo ordine di custodia cautelare per strage. Riina, secondo gli inquirenti, ha commissionato l'attentato “per sviare strumentalmente l'attenzione degli apparati dello Stato dal vero problema”, per condizionare gli esiti del maxiprocesso a Cosa nostra ed esercitare forti pressioni sui suoi veri o presunti referenti politici. Dunque “un attentato confezionato come un atto politico”, un depistaggio orchestrato per distogliere l'attenzione dello Stato da Cosa nostra e indirizzarla verso il terrorismo eversivo. Ma il nuovo processo, che si è aperto il 25 novembre 2014 a Firenze e che il Capo dei capi ha seguito in collegamento video dal carcere di Parma, si è concluso il 14 aprile 2015 con l’assoluzione di Totò Riina per “insufficienza di prove”.

La Procura della Repubblica e l’Avvocatura dello Stato tuttavia hanno presentato ricorso, sostenute anche dalla Regione Toscana. Il processo però è stato rinviato a data da destinarsi per il pensionamento del presidente della corte. Di conseguenza sarebbe stato necessario risentire tutti i testimoni ascoltati in primo grado, come previsto dalle recenti modifiche apportate all’articolo 603 del codice di procedura penale (riforma Orlando) che impongono al giudice, nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento, di disporre la riapertura completa dell’istruttoria.

"La necessità di rinnovare il dibattimento in caso di appello del pm contro una sentenza fondata su prove testimoniali discende da una consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, ampiamente recepita dalla Corte di Cassazione già prima della modifica legislativa dello scorso luglio, che ha semplicemente adeguato la formulazione della norma. Non vi è stato perciò alcun imprevedibile rallentamento del processo a seguito dell'entrata in vigore della recente riforma", ha spiegato in una nota il ministero della Giustizia.

L’udienza infine è stata fissata per il prossimo 21 dicembre, ma la sopravvenuta scomparsa di Riina (17 novembre 2017) estingue de facto il processo di appello.  

 

Per l'attentato è stato utilizzato l’esplosivo Semtex H, dello stesso tipo di quello ritrovato nel covo romano di Pippo Calò, condannato in via definitiva; lo stesso adoperato sette anni e mezzo dopo per la strage di via D'Amelio, nella quale hanno perso la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta.

Per la strage del "treno di Natale" nel 1992 la Corte d'Assise di Firenze aveva già confermato l'ergastolo per l'ex cassiere della mafia Pippo Calò e Guido Cercola, considerato il suo braccio destro. Sei anni prima, il pm Pierluigi Vigna aveva scritto che l'attentato: “Fu compiuto per distogliere l'attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta alle centrali emergenti della criminalità organizzata che in quei tempi subiva la decisiva offensiva di polizia e magistratura. L'obiettivo era quello di rilanciare l'immagine del terrorismo come l'unico, reale nemico contro il quale occorreva accentrare ogni impegno di lotta dello Stato". 

 

14/12/2017


Ambiente 

 

Una medaglia d’oro alla Protezione Civile. 

 

Lunedì 11 dicembre il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha consegnato una Medaglia d’Oro al Valore Civile al Dipartimento Nazionale della Protezione Civile, in segno di riconoscenza nei confronti dell’attività svolta in occasione dei terremoti che dall’agosto 2016 hanno colpito il Centro Italia.

“La protezione civile è un punto di raccordo e fusione complesso – ha dichiarato il Presidente Mattarella – che abbraccia tutte le amministrazioni dello Stato e che si occupa di entrambi i versanti, quello della prevenzione e quello dell’intervento. Un’attività di coordinamento e raccordo che richiede un lavoro impegnativo, serio, scientifico e costante per il quale servono dedizione e capacità e il Paese vi è riconoscente per questa dedizione per questa capacità. Grazie per quello che fate”.

La cerimonia di conferimento dell’onorificenza si è svolta a Roma, nella sede operativa del Dipartimento, in via Vitorchiano. 

 

La storia della protezione civile in Italia è strettamente legata alle calamità che hanno colpito il nostro Paese. Terremoti e alluvioni hanno ne hanno segnato la storia e l’evoluzione, contribuendo a creare quella coscienza di protezione civile, di tutela della vita e dell’ambiente che ha portato alla nascita di un Sistema di Protezione Civile in grado di reagire e agire in caso di emergenza e di mettere in campo azioni di previsione e prevenzione.

Nel 1981 il regolamento d’esecuzione della legge n. 996 del 1970 individua per la prima volta gli organi ordinari (Ministro dell’Interno, Prefetto, Commissario di Governo nella Regione, Sindaco) e straordinari di protezione civile (Commissario straordinario), e ne disciplina le rispettive competenze. La protezione civile viene definita compito primario dello Stato. Si comincia a parlare di prevenzione degli eventi calamitosi, attraverso l’individuazione e lo studio delle loro cause. Sono gli organi statali - Prefetto e Commissario di governo - a svolgere il ruolo più importante nella gestione dell’emergenza.

Nel 1982 viene formalizzata la figura del Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile (legge n.938 del 1982), una sorta di “commissario permanente” pronto ad intervenire in caso di emergenza. Si evita così di individuare ogni volta un commissario e creare ex novo la macchina organizzativa. Il Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile si avvale del Dipartimento della Protezione Civile, istituito sempre nel 1982 nell’ambito della Presidenza del Consiglio (Ordine di Servizio del 29 aprile). Invece di istituire un apposito ministero, con una struttura burocratica e di pari rango rispetto agli altri ministeri, si sceglie di creare un organismo snello, sovra ministeriale, capace di coordinare tutte le forze di cui il Paese può disporre.

Il Dipartimento della Protezione Civile raccoglie informazioni e dati in materia di previsione e prevenzione delle emergenze, predispone l’attuazione dei piani nazionali e territoriali di protezione civile, organizza il coordinamento e la direzione dei servizi di soccorso, promuove le iniziative di volontariato, e coordina la pianificazione d’emergenza, ai fini della difesa civile.

La protezione civile si muove ormai lungo quattro direttrici principali: previsione, prevenzione, soccorso, ripristino della normalità.

La svolta definitiva arriva con la legge n. 225 del 1992 e la nascita del Servizio Nazionale della Protezione Civile, con il compito di “tutelare l’integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e altri eventi calamitosi”. La struttura di protezione civile viene riorganizzata profondamente come un sistema coordinato di competenze al quale concorrono le amministrazioni dello Stato, le Regioni, le Province, i Comuni e gli altri enti locali, gli enti pubblici, la comunità scientifica, il volontariato, gli ordini e i collegi professionali e ogni altra istituzione anche privata.

Tutto il sistema di protezione civile si basa sul principio di sussidiarietà. La prima risposta all’emergenza, qualunque sia la natura e l’estensione dell’evento, deve essere garantita a livello locale, a partire dalla struttura comunale, l’istituzione più vicina al cittadino. Il primo responsabile della protezione civile è quindi il Sindaco: in caso di emergenza assume la direzione e il coordinamento dei soccorsi e assiste la popolazione, organizzando le risorse comunali secondo piani di emergenza prestabiliti per fronteggiare i rischi specifici del territorio.

Quando un evento non può essere fronteggiato con i mezzi a disposizione del comune, si mobilitano i livelli superiori attraverso un’azione integrata: la Provincia, la Prefettura, la Regione, lo Stato.

Questo complesso sistema di competenze trova il suo punto di collegamento nelle funzioni di impulso e coordinamento affidate al Presidente del Consiglio dei Ministri, che si avvale del Dipartimento della Protezione Civile.

La legge 225/92 definisce le attività di protezione civile: oltre al soccorso e alle attività volte al superamento dell’emergenza, anche la previsione e la prevenzione. Il sistema non si limita quindi al soccorso e all’assistenza alla popolazione, ma si occupa anche di definire le cause delle calamità naturali, individuare i rischi presenti sul territorio e di mettere in campo tutte le azioni necessarie a evitare o ridurre al minimo la possibilità che le calamità naturali provochino danni.

Gli eventi calamitosi vengono classificati, per estensione e gravità, in tre diversi tipi. Per ogni evento si individuano i competenti livelli di protezione civile che devono attivarsi per primi: a (livello comunale), b (provinciale e regionale) e c (Stato). In caso di evento di “tipo c”, che devono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari, la competenza del coordinamento dei soccorsi viene affidata al Presidente del Consiglio dei Ministri, che può nominare Commissari delegati.

Il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio, delibera lo stato di emergenza, determinandone durata ed estensione territoriale. Il Presidente del Consiglio può emanare ordinanze di emergenza e ordinanza finalizzate ad evitare situazioni di pericolo o danni a persone o cose.

Presso il Dipartimento della Protezione Civile vengono istituiti la Commissione Nazionale per la Previsione e la Prevenzione dei Grandi Rischi, che svolge attività di consulenza tecnico-scientifica in materia di previsione e prevenzione, e il Comitato Operativo della Protezione Civile. Vengono definite le Componenti e le Strutture Operative del Servizio Nazionale della Protezione Civile.

Il Servizio Nazionale riconosce le iniziative di volontariato civile e ne assicura il coordinamento. La legge 225 inserisce il volontariato tra le componenti e le strutture operative del Servizio Nazionale e stabilisce che deve essere assicurata la più ampia partecipazione dei cittadini e delle organizzazioni di volontariato di protezione civile nelle attività di previsione, prevenzione e soccorso, in vista o in occasione di calamità naturali o catastrofi.

Storicamente la legge 225 rappresenta dunque un momento di passaggio tra la fase accentrata e decentrata: le competenze operative rimangono in capo all’amministrazione centrale e periferica dello Stato, ma per la prima volta aumenta notevolmente il peso delle Regioni, delle Province e dei Comuni, soprattutto per quanto riguarda la previsione e la prevenzione.

Nel corso del tempo questa legge ha subito diversi interventi di modifica, la maggior parte dei quali negli ultimi anni, tanto che il Parlamento sta intervenendo con una legge “Delega al Governo per il riordino delle disposizioni legislative in materia di sistema nazionale della protezione civile”, mantenendo però fermi i principi cardine indicati già nel 1992. 

 

12/12/2017


Letteratura 

 

Un "doodle" per Grazia Deledda: Google la celebra così.

  

Ripercorriamo la vita e le opere della grande scrittrice Grazia Deledda (1871-1936): unica donna insignita dal Nobel nell’ambito della letteratura italiana (1926), e autrice di oltre cinquanta volumi tra romanzi e novelle.

Oggi, domenica 10 dicembre, Google la celebra dedicandole un "doodle", nel giorno in cui, 91 anni fa, la Deledda vinse l'ambito riconoscimento, proprio mentre a Stoccolma e ad Oslo avviene la consegna dei Premi Nobel 2017!   

Il III Municipio di Roma le ha intitolato una via.

 

Grazia Deledda nasce a Nuoro il 27 settembre del 1871 da Francesca Cambosu e Giovanni Deledda, un benestante che si occupa di commercio e di agricoltura e che ha alle spalle studi di Diritto.

Giovanissima si interessa a livello dilettantistico di poesia dialettale, pubblicando a sue spese un giornaletto. Successivamente si chiude in un’adolescenza contraddistinta da gravi problemi familiari - un fratello alcolizzato, un altro fratello compromesso con la giustizia per piccoli furti, poi la morte del padre con i conseguenti problemi economici -, e da una formazione culturale sostanzialmente autodidatta - i suoi studi regolari non superano la quinta elementare - che si alimenta soprattutto di letture a tappeto nell’ambito della contemporanea narrativa francese e italiana a destinazione popolare.

La precoce vocazione letteraria, su cui pesa il diffuso pregiudizio secondo il quale “una donna scrittrice non può essere una donna onesta”, si concretizza ufficialmente con la pubblicazione del racconto “Sangue sardo” sulla rivista romana “Ultima moda”.

Gli anni dal 1889 al 1895 sono quelli in cui la Deledda è impegnata nel mettere a punto un suo corredo letterario tematico - in prevalenza storie d’amore e di morte, sul modello della narrativa popolare tardo-romantica - e un suo stile.

Dopo la pubblicazione sempre su “Ultima moda” del racconto “Remigia Helder” e quella del primo romanzo “Memorie di Fernanda”, vedono le stampe novelle e racconti - “Nell’azzurro”, con lo pseudonimo di Ilia di Saint Ismail; “Stella d’Oriente”; “Aurora regale”; “La regina delle tenebre”; “Racconti sardi” -, e un ulteriore romanzo “Anime oneste”, pubblicato a Milano da Cogliati.

Nel 1896 Giovanni Campana recensisce favorevolmente “La via del male” e ciò fa da ulteriore stimolo al già tenace impegno della scrittrice - “Il tesoro” e “La giustizia”, romanzi; “L’ospite e “Le tentazioni”, novelle; “I tre talismani” e “Le disgrazie che può cagionare il denaro”, fiabe; “Nostra signora del buon consiglio”, leggenda sarda; “Paesaggi sardi”, poesie -.

Nel 1899 a Cagliari, dove è ospite di una amica, la Deledda incontra l’impiegato statale del Ministero delle finanze Palmiro Madesani, che l’anno seguente sarebbe diventato suo marito.

La nuova coppia va a risiedere a Roma, dove la Deledda condurrà una vita relativamente tranquilla, dividendosi tra gli impegni di famiglia e quelli letterari.

“Nuova Antologia”, che alla fine dell’anno precedente aveva pubblicato il romanzo “Il vecchio della montagna”, accoglie anche il primo romanzo composto a Roma, “Elias Portolu”.

La sua vocazione letteraria è dunque pienamente matura, pur continuando a spaziare tra le formule della novella e del racconto - “I giuochi della vita”, “Il nonno”, “Chiaroscuro” -, e il romanzo di più ampio respiro - “Cenere”, “Nostalgie”, “L’ombra del passato”, “L’edera”, “Il nostro padrone”, “Nel deserto”, “Colombi e sparvieri” -.

"Canne al vento”, giudicato il suo capolavoro, vede le stampe in “L’Illustrazione italiana” nel primo numero del 1913, e viene pubblicato lo stesso anno dall’editore Treves.

Ma la prolificità letteraria della Deledda non conosce sosta, con ritmi davvero sorprendenti: “Le colpe altrui”, 1914; “Marianna Sirca”, 1915; “Il fanciullo nascosto”, novelle, 1915; “L’incendio nell’uliveto”, 1918; “Il ritorno del figlio” e “La bambina rubata”, novelle, 1919; “La madre”, 1920; “Il segreto dell’uomo solitario”, 1921; “Il Dio dei viventi”, 1922; “Il flauto nel bosco”, novelle,1923; “La danza della collana”, 1924; “La fuga in Egitto”, 1925; “Il sigillo d’amore”, novelle, 1926.

Una firma ormai diventata nota anche fuori dai confini nazionali può così ottenere nel 1926 il riconoscimento del premio Nobel per la letteratura, l’unico fino ad oggi che abbia premiato una scrittrice italiana.

Alla sua fama d’altra parte hanno fortemente contribuito le trasposizioni teatrali e soprattutto cinematografiche della sua opera, come quella di “Cenere”, interpretata da Eleonora Duse.

Dopo aver dato ancora alle stampe numerosi romanzi - fra gli altri “Annalena Bilsini”, “Il paese del vento”, “L’argine” e “La chiesa della solitudine” - e raccolte di novelle - “Il dono di Natale”, “La casa del poeta”, “La vigna sul mare” e “Sole d’Estate” -, Grazia Deledda muore a Roma il 15 agosto del 1936, lasciando incompleto il romanzo autobiografico “Cosima, quasi Grazia”.      

 

10/12/2017


Cinema

 

Buon compleanno Kirk Douglas! 

 

“101 anni” da leone di una delle più grandi star della storia del cinema.

 

A guardare la sua immensa filmografia non ci sono dubbi: Kirk Douglas ha attraversato il Novecento con interpretazioni cinematografiche di tutto rispetto e lavorando con i massimi registi al mondo.

 

Una carriera lunghissima che ha fatto di questo attore e produttore americano uno delle icone del cinema hollywoodiano.

 

Kirk Douglas, nome d’arte di Issur Danielovitch Demsky, nasce ad Amsterdam, nello stato di New York, il 9 dicembre 1916, da immigrati ebrei bielorussi.

 

Dopo aver conseguito una laurea in Lettere, intraprende la carriera di attore cominciando un percorso all’American Academy of Dramatic Arts di New York.

 

All’indomani della Seconda guerra mondiale inizia la sua carriera teatrale. A notarlo è Guthrie Mc Clintic, che lo spinge a cambiare nome in Isadore Demsky, subito declassato a favore di Kirk, dal nome di un personaggio dei fumetti, e dal cognome Douglas, da quello della sua insegnante di dizione all’Academy.

 

La sua carriera cinematografica si apre nel 1946 con l’interpretazione di un giovane procuratore distrettuale nel film “Lo strano amore di Marta Ivers” (1946). Ma si capisce subito che i ruoli da commedia non gli calzano a pennello: Kirk brilla meglio se utilizzato per ruoli forti e cinici, proprio come il pugile de “Il grande campione” (1949), oppure quello di “L’asso nella manica” di Billy Wilder (1951), che consacra il suo successo e in cui Douglas è Chuck Tatum, un giornalista privo di scrupoli.

 

Nel 1951 lavora per William Wyler in “Pietà per i giusti” (1951), in cui è un poliziotto spietato, e con Vincente Minnelli ne “Il bruto e la bella” (1952), con il ruolo di un cinico produttore. Nel 1954 si dà anche alla produzione fondando una sua casa di produzione: Bryna Productions.

 

Nel 1956 interpreta Vincent Van Gogh nel film “Brama di vivere”, sempre di Minnelli, mentre l’anno successivo ottiene un ruolo in un film capolavoro, che spicca nella sua filmografia: “Orizzonti di gloria” (1957), del grande Kubrick, con il quale lavorerà anche in “Spartacus” (1960), interpretando il ruolo del protagonista.

 

Nella carriera di Kirk Douglas non mancano film western: “Il grande cielo” (1952) di Howard Hawks e “Sfida all’O.K. Corral” (1957).

Nominato per tre volte all’Oscar, senza mai vincerlo, nel 1996 l’Academy gli assegna il Premio Oscar alla carriera.

 

Nella vita privata si è sposato due volte. Dal primo matrimonio con Diana Dill ha avuto due figli, tra cui il noto Michael Douglas. Il secondo matrimonio è stato quello con Anne Buydens, da cui ha avuto altri due figli.

 

In “Vizio di famiglia” (2003) Kirk recita proprio accanto a Michael, guarda caso nei ruoli di padre e figlio.

 

Nel 2004 lo ritroviamo in “Illusion”, per la regia di Michael A. Goorjian, un film drammatico su un miliardario, in cui Kirk Douglas recita a fianco dello stesso regista.

 

Nel 2008 e nel 2009 il “leone” del cinema si dedica rispettivamente a un film tv (“Meurtres à l’Empire State Building” di William Karel) e a un documentario (“Before I forget” di Jeff Kanewe).

 

Il 9 dicembre 2017 l'inossidabile Kirk Douglas spegnerà dunque 101 candeline! 

 

8/12/2017 


Personaggi

 

"Gianni Agnelli: l’Avvocato". Un mito senza tempo. 

 

Gianni Agnelli (1921-2003) nasce a Torino il 12 marzo del 1921. Il suo nome - Giovanni detto Gianni -  deriva dal nonno, fondatore della storica FIAT: è con lui che ha avuto inizio la dinastia Agnelli, destinata a conservare un ruolo di primo piano nella storia economica e sociale d’Italia. 

 

Nato a Villar Perosa, in provincia di Torino, il 13 agosto del 1866 e morto nel capoluogo piemontese il 16 dicembre del 1945, Giovanni Francesco Luigi Edoardo Aniceto Lorenzo Agnelli viene coinvolto da alcuni nobili appassionati di motori nell’atto di fondazione della Società Anonima Fabbrica Italiana di Automobili  - 11 luglio 1899 - più tardi ribattezzata FIAT. Assunte le redini della società nel 1902, la conduce ai vertici d’Europa, affiancando dal 1923 l’attività politica di senatore del Regno a quella di imprenditore impegnato anche nell’editoria - con l’acquisizione del quotidiano La Stampa - e nello sport - con la Juventus e la costruzione della pista sciistica del Sestriere -. La prematura morte dei figli Aniceta e Edoardo lo costringe a lasciare la guida degli affari di famiglia al nipote Gianni, soprannominato l’Avvocato.

 

Il giovane Gianni, dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza, partecipa alla Seconda guerra mondiale come ufficiale di cavalleria. Entra quindi in FIAT nel 1943, ricoprendo il ruolo di vice presidente: nel 1963 siederà sulla poltrona di amministratore delegato. 

Agnelli incarna il vero “emblema” del capitalismo italiano. Dopo gli anni passati come vice presidente all’ombra di Vittorio Valletta - un’altra grande figura manageriale - riesce infatti a portare ai massimi livelli l’azienda di famiglia. Durante il “boom economico”, sull’onda del rapido sviluppo industriale e produttivo del nostro Paese, gli italiani possono finalmente permettersi i prodotti della casa torinese, dalla Lambretta alla Seicento, rendendo la FIAT un marchio indiscusso.

 

Nel 1953 sposa la principessa Marella Caracciolo di Castagneto, alla quale rimarrà accanto per tutta la vita, nonostante pettegolezzi e alcune dichiarazioni rilasciate in vita dallo stesso Avvocato lascino pensare a infedeltà coniugali. La coppia ha due figli, Edoardo - morto celibe, probabilmente suicida, a 46 anni, il 15 novembre del 2000 - e Margherita, sposata in prime nozze con Alain Elkann, dal quale ha tre figli, John Jacob detto Jaki - erede designato alla guida del gruppo - Lapo e Ginevra, e in seconde nozze con il nobile russo Serge de Pahlen, dal quale ha avuto 5 figli. 

 

Nel 1966 Gianni Agnelli sale al vertice della Fiat diventandone presidente - lo sarà fino al 1996, assumendone in seguito la presidenza d’onore - riuscendo ad imprimere una spinta decisiva allo sviluppo della casa automobilistica.

Ad attenderlo al varco è però il momento storico più difficile per il capitalismo italiano: la stagione del cosiddetto “autunno caldo” del 1969, dominata da numerosi scioperi che mettono in grave difficoltà la produzione industriale della FIAT.

L’approdo a un porto sicuro è rappresentato dalla sua nomina alla presidenza di Confindustria - dal 1974 al 1976 - in nome di una guida che gli industriali vogliono solida e autorevole.

Diventa ormai impensabile usare il “pugno di ferro” di “Vallettiana” memoria: serve piuttosto un lavoro di “concertazione” tra governo, sindacati e confindustria.

Ma alla fine degli anni ’70 la FIAT si trova ancora nell’occhio del ciclone, a causa di una congiuntura economica molto sfavorevole: la produttività cala spaventosamente e i tagli all’occupazione sono alle porte.

Si apre dunque una dura fase di scontro sindacale passato alla storia grazie a record assoluti, come il famoso sciopero dei 35 giorni del 1980 (10 settembre - 14 ottobre). Fulcro della protesta diventano i cancelli dei nevralgici stabilimenti di Mirafiori.

La trattativa è completamente in mano alla sinistra, che egemonizza lo scontro, ma a sorpresa il segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer promette il sostegno del Pci in caso di occupazione delle fabbriche.

Il braccio di ferro si conclude il 14 ottobre 1980 con la “marcia dei quarantamila” quando, del tutto inaspettatamente, i quadri della Fiat scendono in piazza contro il sindacato. La FIAT, sotto pressione, rinuncia ai licenziamenti e mette in cassa integrazione ventitremila dipendenti. Per il sindacato e la sinistra italiana è una sconfitta storica. Per la FIAT è una svolta decisiva.  L'azienda torinese è pronta a ripartire con slancio e su nuove basi.

Agnelli, affiancato da Cesare Romiti, rilancia la FIAT in campo internazionale e in pochi anni la trasforma in una holding con interessi assai differenziati, che non si limitano al solo settore dell'auto - in cui ha intanto assorbito l’Alfa Romeo e la Ferrari - ma che vanno dall’editoria alle assicurazioni. 

La scelta risulta vincente e gli anni Ottanta si rivelano tra i più riusciti di tutta la storia aziendale. Agnelli si consolida dunque come il “re virtuale” d'Italia.

I suoi vezzi e i suoi nobili tic vengono interpretati come modelli di stile, come garanzia di raffinatezza: a cominciare dal celebre orologio sopra il polsino, fino all’imitatissima “erre moscia” e alle scarpe scamosciate. 

La figura dell’ “Avvocato” è inoltre intimamente legata alla storia della Juventus, la squadra di calcio del capoluogo piemontese della quale è presidente già nel 1947.

Nel 1991 viene nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Il 1996 rappresenta invece l’anno del “passaggio del testimone” a Cesare Romiti, cui succederà poi, nel 1999, Paolo Fresco. In realtà, l’Avvocato aveva designato come suo successore e futura guida della FIAT il nipote, figlio del fratello Umberto e già presidente della Piaggio, Giovanni Alberto Agnelli, detto Giovannino, che muore, però, per un tumore al cervello nel dicembre del 1997. Al suo posto, Gianni Agnelli designa come suo successore John Elkann, primogenito di sua figlia Margherita. 

Infine, il 24 gennaio del 2003 Gianni Agnelli si spegne dopo una lunga malattia.

La camera ardente viene allestita nella pinacoteca del Lingotto, secondo il cerimoniale del Senato, mentre i funerali, trasmessi in diretta televisiva, si svolgono nel Duomo di Torino in forma ufficiale, seguiti con commozione da una enorme folla. 

 

7/12/2017


Avvenimenti

 

70 anni di sana e robusta "Costituzione".

 

 

Roma, Montecitorio: lunedì 22 dicembre 1947. L'aula della Camera dei Deputati è gremita in ogni scranno per il grande appuntamento con la Storia: all'ordine del giorno c'è la votazione della Costituzione della Repubblica italiana, cui hanno lavorato per oltre un anno tutte le forze politiche. 

A distanza di settant'anni, ripercorriamo dunque le tappe principali di quel complesso iter legislativo che ha dotato la nostra Repubblica di una “Carta costituzionale”.   

 

 

Costituzione, Assemblea Costituente: parole “nuove” per la gente comune, di cui bisognava diffondere il significato, affinché l’operazione elettorale del 2 giugno risultasse una votazione consapevole; parole implicanti un’azione complessa, che occorreva opportunamente preparare. Era infatti la prima volta che lo Stato italiano avrebbe avuto una “sua” Costituzione, deliberata da un’Assemblea Costituente, in luogo dello Statuto del Regno, una carta costituzionale “concessa” nel 1848 da re Carlo Alberto per il Regno sardo piemontese e divenuta Statuto del Regno d’Italia per estensione plebiscitaria. Il sistema proporzionalistico, adottato per la sua elezione, aveva conferito all’Assemblea Costituente una rappresentanza politica variegata, dominata dai tre partiti protagonisti della vita politica italiana: la Democrazia Cristiana in testa con 207 “costituenti”, il Partito Socialista con 115, il Partito Comunista con 104. Vi erano parecchi altri minori raggruppamenti. Così l’Unione Democratica Nazionale, che nei suoi 41 rappresentanti raccoglieva liberali, democratici del lavoro e indipendenti; il “Fronte dell’Uomo Qualunque” con 30 rappresentanti capeggiati dal suo fondatore Guglielmo Giannini, un noto commediografo giornalista, che aveva suscitato un movimento politico intorno al suo giornale intitolato “L’Uomo Qualunque”; i 23 rappresentanti del Partito Repubblicano Italiano, ancorato al programma del Partito Repubblicano Storico e 36 rappresentanti di gruppi politici minori, tra i quali il Blocco Nazionale della Libertà, il Partito d’Azione, il Partito dei Contadini ed altri.

Questa così composita Assemblea Costituente doveva provvedere, nel giro di appena 8 mesi, alla elaborazione e alla approvazione della nuova Costituzione italiana, e avrebbe dovuto, insieme, svolgere altri compiti politici e legislativi. Riunitasi il 25 giugno 1946 per la prima volta a Montecitorio, prescelto come sua sede, sotto la presidenza del decano Vittorio Emanuele Orlando, l’Assemblea elesse prima di tutto il suo Presidente nella persona di Giuseppe Saragat. Quindi provvide alla elezione del Capo Provvisorio dello Stato nella persona di Enrico De Nicola, avendo il “referendum” sulla questione istituzionale attribuito una netta vittoria alla forma di Stato repubblicana. E passò ad occuparsi del suo compito primario. Poiché nessun progetto di Costituzione era stato predisposto dal Governo, né dal ministero per la Costituente, né era previsto che lo fosse, bisognava cominciare con l’elaborarlo. Si stabilì pertanto di conferire questo incarico ad una Commissione, composta da 75 “costituenti” e da questo numero denominata poi la Commissione dei 75, presieduta da Meuccio Ruini, già Presidente del Consiglio di Stato, uomo politico di vasta cultura, la cui appartenenza al Partito Democratico del Lavoro garantiva vedute equilibrate e moderate. I 75 “costituenti” designati dal Presidente dell’Assemblea furono, in pratica, i “facitori” della Costituzione - in quanto il progetto da loro predisposto subì poche varianti sostanziali e formali da parte dell’Assemblea - e furono scelti in proporzione alla forza numerica dei gruppi politici che componevano l’Assemblea. Nella Commissione erano presenti eminenti personalità degli stessi partiti, come Palmiro Togliatti e Attilio Piccioni, giovani e meno giovani “costituenti”, tra i quali alcuni sarebbero saliti ad altissimi ranghi della vita politica italiana, come Luigi Einaudi, Giovanni Leone, Amintore Fanfani, Aldo Moro, Emilio Taviani, Umberto Terracini. Vi erano inoltre “tecnici” di grande prestigio, come i professori di diritto pubblico Piero Calamandrei e Costantino Mortati.

Tuttavia la Commissione dei 75 era troppo numerosa per deliberare collegialmente, soprattutto con la richiesta rapidità, perché l’Assemblea Costituente, investendola dell’incarico, le aveva prefissato un termine di tre mesi. La Commissione fu quindi suddivisa in tre sottocommissioni, a ciascuna delle quali fu assegnato di predisporre una diversa parte del progetto, rimettendosi ad un Comitato ristretto chiamato di “redazione” la coordinazione delle parti, e alla Commissione nel suo “plenum” le decisioni sui punti rimasti controversi e l’approvazione finale.

Distribuito il lavoro, le sottocommissioni si misero immediatamente all’opera e si organizzarono, a loro volta, con presidenze, relatori e segretari, tenendo sedute con ritmo serrato. Ma il periodo di tre mesi per la redazione del progetto di Costituzione si rivelò inadeguato, soprattutto per approntare l’ordinamento della Repubblica, per cui il progetto venne presentato alla Presidenza dell’Assemblea Costituente solo alla fine del gennaio 1947, accompagnato da una chiara relazione dell’on. Ruini. Questo ritardo sui tempi era stato previsto e l’Assemblea Costituente deliberò la propria proroga fino al 24 giugno 1947; ma anche questa protrazione non bastò e fu necessaria una seconda proroga fino al 31 dicembre 1947. Queste proroghe furono causate anche dall’esercizio dell’attività politico-legislativa, che in certi momenti assorbì interamente l’Assemblea. Si verificarono peraltro eventi politici che indussero lo stesso on. Saragat a dimettersi dalla carica di Presidente dell’Assemblea Costituente; al suo posto venne eletto Umberto Terracini, al quale toccò l’onere e l’onore di dirigere la discussione e l’approvazione da parte dell’Assemblea Costituente della nuova Costituzione.

Il 22 dicembre 1947 il testo definitivo, con i suoi 139 articoli e le disposizioni finali e transitorie, venne sottoposto al voto segreto ed approvato con 453 voti favorevoli e 62 contrari. Infine l’Assemblea approvò l’emblema dello Stato: “La stella a cinque raggi di bianco bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota d’acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale: Repubblica Italiana”.

Il 1° gennaio 1948 la Costituzione italiana entrò ufficialmente in vigore. 

 

2/12/2017


Personaggi

 

Carlo Azeglio Ciampi: Firenze lo omaggia dedicandogli una Piazza. 

 

Visti i dubbi e i ritardi espressi, a causa di dissidi interni, dall’amministrazione comunale di Livorno, sua città natale, per intanto sarà il capoluogo toscano - come promesso dal sindaco Dario Nardella - ad intitolare una piazza all’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in una zona scelta, non a caso, nelle vicinanze della strada di grande comunicazione FI-PI-LI. La cerimonia d’intitolazione si terrà il prossimo 9 dicembre, in occasione del 97° anniversario della nascita di Ciampi: un esponente di primo piano della vita economica e politica dell'Italia repubblicana. 

 

Nato a Livorno il 9 dicembre del 1920, Carlo Azeglio Ciampi studia presso l'istituto dei gesuiti, San Francesco Saverio. Consegue la laurea in Lettere e il diploma della Scuola Normale di Pisa nel 1941. Antifascista, alla Normale rimane affascinato dal suo professore, il filosofo Guido Calogero. All'università conosce anche Franca, la futura moglie. Chiamato alle armi nel '41, è sottotenente dell'esercito in Albania. L'8 settembre 1943 si trova in permesso in Italia. Rifiuta di aderire alla Repubblica di Salò e si dà alla macchia, rifugiandosi a Scanno, in Abruzzo, con il suo maestro Calogero, esponente di primo piano del pensiero liberalsocialista che andava saldandosi attorno al partito d'Azione. Dopo sei mesi tra i monti d'Abruzzo, riesce a passare le linee del fronte sulla Majella per arrivare a Bari e consegnare a Tommaso Fiore un manoscritto sul «catechismo liberalsocialista del Partito d'azione» datogli da Calogero e si arruola nelle file del rinato esercito italiano, iscrivendosi nel frattempo al PdA.

Alle elezioni del 1946 gli azionisti prendono solo l'1,46% dei voti. Comincia la diaspora. Da quella repubblicana di Ugo La Malfa e Adolfo Tino a quella di sinistra di Vittorio Foa e Riccardo Lombardi, Tristano Codignola. Il '46 è un anno importante per Ciampi: sposa Franca, consegue la laurea in Giurisprudenza presso l'Università di Pisa e, dopo aver vinto un concorso, entra come impiegato in Banca d'Italia, per rimanervi 47 anni, 14 da governatore. Nel 1946, si iscrive anche alla Cgil e ne conserva la tessera fino al 1980. Nella Banca inizialmente presta servizio presso alcune filiali, svolgendo attività amministrativa e di ispezione ad aziende di credito. Nel 1960 è  chiamato all'amministrazione centrale della Banca d'Italia, presso il Servizio Studi, di cui assume la direzione nel luglio 1970. Segretario generale della Banca d'Italia nel 1973, vice direttore generale nel 1976, direttore generale nel 1978, nell'ottobre 1979 è nominato Governatore della Banca d'Italia e presidente dell'Ufficio Italiano Cambi, funzioni che assolve fino al 28 aprile 1993.

Il 26 aprile 1993, Ciampi viene nominato presidente del Consiglio e per la prima volta indica  ministri pidiessini. L'assoluzione in Parlamento di Bettino Craxi porta però alle dimissioni dei prescelti: Vincenzo Visco, Luigi Berlinguer, Luigi Spaventa e Augusto Barbera. Dall'aprile 1993 al maggio 1994 presiede un governo chiamato a svolgere un compito di transizione.

Il governo Ciampi garantisce l'applicazione della nuova legge elettorale approvata dal Parlamento, attraverso il complesso lavoro per la determinazione dei collegi e delle circoscrizioni elettorali, e il passaggio da un Parlamento profondamente rinnovatosi tra la XI e la XII legislatura. Sul piano economico gli interventi più significativi sono la lotta all'inflazione, attraverso l'accordo governo-parti sociali del luglio del 1993, che pone fine ad ogni meccanismo di indicizzazione e  individua nel tasso di inflazione programmata il parametro di riferimento per i rinnovi contrattuali. Inoltre il governo Ciampi dà avvio alla privatizzazione di numerose imprese pubbliche.

Durante la XIII legislatura è Ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica, nel governo Prodi (dall'aprile 1996 all'ottobre 1998) e nel governo D'Alema (dall'ottobre 1998 al maggio 1999), dando un contributo fondamentale all'entrata dell'Italia in Europa. Tra i provvedimenti più significativi di questo periodo si ricorda la manovra correttiva della politica di bilancio varata nel settembre del 1996 dal governo Prodi, che consente un abbattimento di oltre 4 punti percentuali del rapporto indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni rispetto al prodotto interno lordo, il parametro di Maastricht di più arduo conseguimento per il nostro Paese.

Il 13 maggio del 1999 viene eletto, in prima votazione, decimo Presidente della Repubblica Italiana con 707 voti di preferenza. Il suo settennato si è distinto per una profonda riscoperta degli ideali risorgimentali e della Resistenza, simboleggiati dall'Inno di Mameli e dal Tricolore.

Carlo Azeglio Ciampi si è spento a Roma il 16 settembre del 2016, all’età di 95 anni.  

 

1/12/2017


Musica

 

220 anni fa, Gaetano Donizetti. 

 

Il 29 novembre del 1797 nasceva a Bergamo il grande compositore Gaetano Donizetti (1797-1848), autore di “Anna Bolena” e “Lucia di Lammermour”.  

 

Gaetano Donizetti nasce a Bergamo il 29 novembre del 1797 da una famiglia di umili condizioni.

Nel 1806 viene ammesso alle “Lezioni caritatevoli di musica” dirette da S. Mayr che cura personalmente la sua preparazione in clavicembalo e composizione fino al 1815, avvicinandolo ai modelli del classicismo viennese.

Il giovane Donizetti viene poi indirizzato al liceo musicale di Bologna dove si perfeziona in contrappunto con padre S. Mattei. In quegli anni, oltre ai primi tentativi teatrali, Donizetti si cimenta in sinfonie, cantate, quartetti e quintetti assai ben costruiti, alla Haydn e alla Mozart. Nell’opera semiseria “La zingara” e nella farsa “La lettera anonima”, presentate nel 1822 a Napoli, è invece evidente un avvicinamento a Rossini.

L’opera buffa napoletana, ormai superata, trova nuova linfa immettendosi sulla scia della comicità rossiniana. Una evoluzione questa che si inquadra nel processo storico attraverso il quale l’ambiente settentrionale, colto e politicamente agguerrito, trasforma in uno stile nazionale le vecchie scuole operistiche del Settecento.

Dopo il debutto alla Scala nel 1822 con l’opera semiseria “Chiara e Serafina”, le opere composte per Napoli, tra le quali ricordiamo “Emilia di Liverpool” nel 1824, “Gabriella di Vergy” nel 1826 e “L’esule di Roma”nel 1828, evidenziano maggiormente le sue doti personali.

Nel 1830 con l’ “Anna Bolena” su libretto di F. Romani, la vocalità donizettiana arriva a sbloccare i tradizionali schemi lirici aderendo al ritmo del romanzo d’appendice.

La collaborazione con il Romani tocca il suo apice nel 1832 con “L’elisir d’amore”, in cui si sviluppa la miglior vena giocosa del grande compositore italiano.

Negli anni successivi, la morte di Vincenzo Bellini avvenuta nel 1835 e l’ancora precoce affermazione di Giuseppe Verdi, gli favoriscono un successo incontrastato.

Così su libretti di S. Cammarano troviamo “Belisario” e “L’assedio di Calais” nel 1836, “Pia De’ Tolomei” e Roberto Devereux” nel 1837, “Maria di Rudens” e “Poliuto” nel 1838. E proprio nel 1838, grazie alla generosità di Gioacchino Rossini, Donizetti viene accolto a Parigi. Qui comincia a comporre il “Duca d’Alba”, che lascerà incompiuto, e nel 1840 fa rappresentare “La figlia del reggimento”, “Les martyrs” e “La favorita”.

Sempre a Parigi nel 1843 presenta il capolavoro giocoso “Don Pasquale” ed il grand-opéra “Don Sebastien”, su libretto di Scribe.

La vastità della sua produzione, composta da oltre settanta opere teatrali, ventotto cantate con accompagnamento d’orchestra e molte liriche, è dovuta al frenetico ritmo di composizione impostogli dall’incessante accavallarsi di commissioni. Il suo lavoro si trasforma così in una vera e propria “poetica della fretta”. Nel 1845 è colpito da una paralisi celebrale. Dopo aver trascorso un lungo periodo ad Ivry, in una casa di salute, Donizetti viene portato nella sua Bergamo, dove muore l’8 aprile del 1848. 

 

29/11/2017


Televisione 

 

Un francobollo per i 60 anni di Carosello.

 

 

È stato emesso il 27 novembre 2017 dal ministero dello Sviluppo economico con Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, in collaborazione con Teche Rai e commercializzato da Poste Italiane. È il francobollo che celebra i 60 anni dello storico “Carosello”: è in fogli da 6 dal valore di 0,95 l'uno con l'immagine del monoscopio Tv in bianco e nero e un QrCode per il "siparietto" del '62, seconda sigla più celebre del programma, in onda per quasi dieci anni. 

 

Ma facciamo un "lungo" salto indietro nel tempo.

 

Era il 3 febbraio del 1957 - era una domenica - quando in televisione compariva per la prima volta Carosello.  

 

Ultimi scampoli degli anni Cinquanta: fare zapping non si poteva, perché il telecomando sarebbe arrivato vent'anni dopo. Tuttavia, quando arrivava la pubblicità nessuno sbuffava, al contrario tutta la famiglia si godeva il piccolo teatrino di personaggi reali e immaginari associati ad altrettanti prodotti commerciali.

 

A tre anni dall'avvio del "suo regolare servizio di trasmissioni televisive", annunciato da Fulvia Colombo, la RAI aveva arricchito il proprio palinsesto con diversi sceneggiati e giochi a quiz, questi ultimi affidati all'onnipresente Mike Bongiorno. Sulla scia di questa graduale apertura ai moderni linguaggi della comunicazione televisiva unita all'obiettivo di aumentare le entrate, l'azienda sposò dunque l'idea di dare spazio alla pubblicità.

 

Fu escogitato un preciso format che, nel ricreare l'ambientazione teatrale, desse l'idea di proporre un mini varietà soltanto in minima parte occupato dal prodotto da reclamizzare. Le regole, assai rigide, furono dettate dalla SACIS (società di produzione e censore della RAI): ogni scenetta, rigorosamente in bianco e nero, poteva durare al massimo 2 minuti e 15 secondi, dei quali solo gli ultimi 35 secondi da dedicare alla reclame.

 

Il nome della nuova striscia venne suggerito da Marcello Severati, ispirato probabilmente dal recente film musicale Carosello napoletano. Di derivazione partenopea anche il teatrino, disegnato su un bozzetto di Gianni Polidori. Autore della sigla Luciano Emmer, seguita da un rullo di tamburi e da una tipica tarantella.

 

L'esordio, fissato inizialmente per l'inizio dell'anno, avvenne sul primo canale RAI, alle 20.50 di domenica 3 febbraio. "Shell", "l'Oreal", "Singer" e "Cynar" i primi marchi pubblicizzati, ognuno preceduto da una piccola scenetta recitata da noti attori e personaggi dello spettacolo.

 

Così lo spot, in maniera tutt'altro che aggressiva, entrava nelle case di migliaia di italiani (gli abbonati in quel momento ammontavano a poco meno di 700 mila), che con il passare del tempo iniziarono ad affezionarsi ai vari personaggi che sfilavano sullo schermo.

 

I grandi seguivano soprattutto gli sketch delle star del cinema e della Tv come Totò, Macario, Vittorio Gassman, Mina e Nino Manfredi. Nelle simpatie dei piccoli entrarono le storielle di figure immaginarie come Angelino, Carmencita e soprattutto il pulcino Calimero, che venivano ad essere una sorta di antesignani dei cartoni animati. Un piccolo show di centotrentacinque secondi curato da grandi firme della regia del calibro di Luigi Magni, Gillo Pontecorvo, Ermanno Olmi e Sergio Leone.

 

Oltre alle numerose innovazioni nel linguaggio televisivo, la trasmissione scandiva la quotidianità delle famiglie imponendosi come fenomeno sociale: lo dimostra il fatto che ogni volta i bambini si sentivano ripetere dai loro genitori il monito "a letto dopo Carosello". Meriti che facevano passare in secondo piano l'aspetto commerciale, a dispetto delle critiche che lo dipingevano come un programma diseducativo.

 

Dopo aver dato colore alle serate degli italiani per vent'anni, Carosello andò in pensione il 1° gennaio del 1977, con il saluto di addio affidato a Raffaella Carrà.

 

Nel 2013 la RAI ne ha lanciato una versione "Reloaded", con una seconda edizione trasmessa fino a febbraio 2014. 

 

28/11/2017


Mondo 

 

Buon compleanno a Charles Schulz: il papà di Snoopy. 

 

Come purtroppo è drammaticamente noto, durante lo scorso mese di ottobre uno dei terribili incendi che hanno sconvolto la California del Nord ha distrutto anche la bellissima villa di Charles Schulz a Santa Rosa, dove il creatore di Snoopy ha vissuto fino alla fine dei suoi giorni, e alla quale era molto legato.

Per rendergli omaggio, in occasione del 95° anniversario della sua nascita vogliamo ricordarne l'avventura artistica, tracciando un ritratto dell'uomo che dedicato la sua vita ai fumetti, regalando al "mondo della matita" alcuni tra i personaggi più divertenti e interessanti che siano mai stati disegnati.   

 

Charles Monroe Schulz nasce a St. Paul, nel Minnesota, il 26 novembre del 1922.

Fin dall’inizio sembra destinato al fumetto: appena nato uno zio lo chiama Sparky, abbreviazione di Sparkplug, il cavallo di “Barney Google”, striscia allora popolarissima. Questo soprannome non lo abbandonerà più.

Sparky cresce negli anni della “Grande Depressione” con un padre barbiere, come il papà di Charlie Brown, che per far quadrare i conti taglia barbe e capelli senza concedersi riposo.

Dopo il diploma e una breve esperienza di guerra nella Francia del 1945, viene assunto come insegnante alla Art Instruction School, una scuola di disegno per corrispondenza, dove Schulz incontra tra i giovani colleghi ispirazioni e suggerimenti per i suoi futuri personaggi. Per esempio l’impiegata della contabilità Donna World, suo primo amore non corrisposto, gli ispirerà quel singolare personaggio fuori campo che è la ragazzina dai capelli rossi, eterna cotta di Charlie Brown.
Tra il ’47 e il ’48 Sparky approda con qualche fatica alla carta stampata: una sua serie di vignette “Li’l Folks” viene pubblicata per tre anni sul giornale di St. Paul “Pioneer Press” (i ragazzini di quelle lontane vignette possono essere considerati i fratelli maggiori dei “Peanuts”), mentre un’apertura verso la comunità nazionale più vasta arriva dal “Saturday Evening Post”, settimanale a larga diffusione che gli pubblica qualche disegno. È il periodo in cui diventa un assiduo frequentatore delle ferrovie statunitensi: prende i treni dell’alba per Chicago e New York, si presenta nelle sedi dei grandi Syndicates, ma di solito non supera il tavolo della receptionist e torna a casa come un povero Charlie Brown deluso.

Finché nel giugno del 1950, a Manhattan, riesce a passare con facilità oltre i primi sbarramenti della reception dell’United Feature Syndicate e a mostrare i suoi disegni sulla scrivania di un alto dirigente. I “Peanuts” usciranno poco più tardi su vari quotidiani, e presto sarà un successo travolgente. Schulz, in uno slancio di ruvida sincerità, si disse convinto che il titolo “Peanuts” (Noccioline), imposto dal Syndicate, fosse il peggiore mai escogitato per un fumetto. Il tempo non gli diede ragione.

Nell’aprile del 1951 Sparky si sposa con Joyce Halverson, ma il matrimonio dura solamente due anni. Nel 1976 Schulz ci riprova e sposa Jeannie Forsyht, dalla quale ha cinque figli, che diventano la principale fonte di ispirazione per le sue strisce. Intanto, dal 1958, si trasferisce definitivamente in California.

Santa Rosa è il suo quartier generale: l’ufficio, lo studio, il luogo dove Schulz ha vissuto fino al giorno della sua morte - avvenuta il 12 febbraio del 2000 -  insieme alla seconda moglie, e dove crea le sue strisce. Qui ha tutto ciò che desidera: uno stadio di ghiaccio denominato con un po’ di enfasi “Redwood Empire Ice Arena”, dove si creano e rappresentano spettacoli di pattinaggio, un campo da golf, campi da tennis e uno chalet-studio immerso nel verde, a un indirizzo che la dice lunga su quale sia stato dei Peanuts il suo prediletto: Snoopy Place N°1. 

 

25/11/2017


Ambiente

 

23 novembre 1980: il terremoto in Irpinia. 

 

Il 23 novembre del 1980 per un minuto e mezzo le scosse travolsero case, scuole, ospedali, interi borghi dell'Irpinia e delle province di Napoli, Salerno e Potenza. Centinaia di città semidistrutte, migliaia di morti e feriti, uno Stato tardo a capire e lento nella reazione. La generosità dei volontari fece da contrappunto allo scandalo politico. 

 

Domenica 23 novembre 1980, all’improvviso, alle 19.35, in Irpinia, da Avellino a Potenza e negli antichi paesi arrampicati sulle montagne la terra all’improvviso si scosse e si aprì, una due tre volte, travolgendo tutto, case, scuole, chiese, ospedali, strade, seppellendo sotto le macerie le donne che preparavano la cena, i bambini che giocavano, gli adolescenti che passeggiavano sul corso.

Il nostro è da sempre un paese esposto a frane e terremoti. Quello dell’Irpinia fu uno dei più tragici. I cadaveri recuperati furono circa 3.000, a S. Angelo dei Lombardi per giorni pezzi di corpi umani emergevano dalle macerie. Il primo ad arrivare sul luogo della tragedia fu, lunedì pomeriggio, il presidente della Repubblica Sandro Pertini, stanco e disperato, inseguito dalle grida, dai pianti, dalle implorazioni dei sopravvissuti ai quali non poteva, non sapeva dare risposta.

 

Gli aiuti arrivavano disordinatamente, in ritardo, mentre i superstiti, lamentandosi, finivano di morire tra le macerie. Ci furono anche dei miracoli: quindici bambini, sepolti per tre giorni sotto le macerie, vennero salvati a Senerchia, un piccolo centro in provincia di Salerno, quasi completamente distrutto dal terremoto. E dovunque, come sempre in questi casi, si ebbero esempi di straordinaria generosità e di vergognoso sciacallaggio. Si mossero per primi, da Roma, Firenze, Bologna, colonne di volontari che tuttavia, per mancanza di mezzi e per la pessima condizione delle strade, non sempre riuscivano a raggiungere in tempo le zone terremotate.

Il disordine è drammatico, le autorità locali sembrano impotenti. I sopravvissuti chiedono aiuto, viveri, medicinali, coperte, mentre i feriti continuano a morire. Il presidente Pertini torna a Roma sconvolto. E decide di lanciare un messaggio al paese. Lo farà senza essersi consultato con nessuno, la sera di giovedì 27 novembre parlando alla televisione.

“Sono tornato ieri sera” - racconta - “dalle zone devastate dalla tremenda catastrofe sismica, dove ho assistito a spettacoli che mai dimenticherò… E ho constatato che non vi sono stati quei soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ci sono state mancanze gravi e chi ha mancato deve essere colpito… Non servono nuove leggi, le leggi che ci sono devono essere applicate…”.

 

È una denuncia appassionata. Pertini ricorda nel suo messaggio che “a distanza di tredici anni dal terremoto nel Belice non sono state ancora costruite le case promesse. Eppure allora furono stanziate le somme necessarie. Dove è finito questo danaro? Chi ha speculato sulla disgrazia del Belice?”.

Il messaggio suona come una condanna non solo del governo in carica, ma di un sistema al centro del quale è sempre stata la Dc. Il clima politico è teso, drammatico. Il segretario del Psi, Bettino Craxi, ascolta il messaggio di Pertini alla radio, in macchina, tornando da Napoli a Roma. Claudio Martelli, che lo accompagna, commenta: “Pertini ha fatto bene”. Il suo discorso è un invito alle dimissioni. Enrico Berlinguer, segretario del Pci, ascoltato il messaggio dice a Natta, uno dei suoi più stretti collaboratori: “A questo punto dobbiamo farci avanti noi. Non possiamo avere un presidente della Repubblica che fa più opposizione dell’opposizione”. Da qui la nuova formula politica che Berlinguer propone al paese: l’Italia ha bisogno di un governo diverso, di capaci e di onesti, che faccia perno sui comunisti.  Ma è  una proposta irricevibile, per la Dc come per il Psi che si preparano a governare insieme per i prossimi dieci anni.

 

Il messaggio di Pertini scuote il paese e il governo. Il ministro degli Interni, Virginio Rognoni, darà le dimissioni, che sarà obbligato a ritirare  per le pressioni di Forlani, presidente del Consiglio. Riunito d’urgenza, il Consiglio di ministri annuncia adeguati stanziamenti a favore dei terremotati e per la ricostruzione della zona. Si parla di seicento miliardi. Ma il  ministro Romita, interrogato da un giornalista, corregge: “No, non si tratta di miliardi ma di milioni”. Pochi minuti dopo La Malfa precisa: “Sono seicento miliardi, miliardi”. E il ministro Compagna: “Veramente non so, quando si è parlato di cifre mi sono distratto”.

Alla fine la ricostruzione dell’Irpinia è costata circa 60mila miliardi di lire. L’ultima tranche, di 157.000 euro, è stata stanziata dal governo Prodi con la finanziaria del 2007. Stime del 2013 della Regione Campania, tuttavia, calcolano in 4 miliardi di euro la cifra ancora necessaria al completamento dei lavori. 

 

23/11/2017


Avvenimenti 

 

In memoria della tragedia di via Ventotene, che nel 2001 ha ferito il cuore di Valmelaina. 

 

Il “Manifesto di Ventotene”, isola del Mar Tirreno alla quale il III Municipio di Roma ha dedicato una via nel cuore del quartiere Valmelaina - teatro della tragica e indimenticabile esplosione che la mattina del 27 novembre 2001 alle ore 9,27 investì il civico 32, a causa di una fuga di gas in cui persero la vita 8 persone, 4 civili e 4 Vigili del Fuoco - gettò le fondamenta del movimento federalista europeo, che aveva come scopo la creazione di un’Europa federale libera e unita.

Ripercorriamone dunque le tappe salienti. 

 

Quella che nel medioevo era l’utopia della rinascita dell’Impero romano, nel Cinquecento con Machiavelli diventa un equilibrio di Stati sovrani. Da lì poi il pensiero si evolverà passando per le menti e le penne illustri di Voltaire e di Mazzini, fino a scontrarsi con il momento più difficile della storia del nostro continente, ovvero la nascita dei totalitarismi e la Seconda guerra mondiale.

Proprio in questo periodo, nell’agosto del 1941, quando il conflitto sembra ancora destinato ad essere vinto dalle forze dell’Asse, alcune menti illuminate del panorama intellettuale italiano stendono quello che verrà ricordato come il “Manifesto di Ventotene”, un’isola del Mar Tirreno situata al largo della costa laziale, in provincia di Latina.

La gestazione di quest’opera da parte di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, al confino sull’isola di Ventotene appunto, durò all’incirca sei mesi. Essi furono ispirati da un libro scritto da Junius (pseudonimo usato da Luigi Einaudi) pubblicato circa vent’anni prima.

Il “Manifesto di Ventotene” - steso da Spinelli e Rossi insieme con Eugenio Colorni e Ursula Hirschman - rappresenta un fondamentale documento che traccia le linee guida di quella che sarà la carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Nel documento viene sottolineato come i principi che nacquero dalla Società delle Nazioni in seguito alla Prima guerra mondiale si fossero persi, lasciando spazio al nazionalismo imperialista delle potenze. Come gli ordinamenti democratici si fossero svuotati del loro senso lasciando spazio a plutocrati e monopolisti; e come lo spirito critico scientifico fosse stato sostituito da nuove fedi materialistiche.

Gli autori previdero inoltre la caduta dei poteri totalitari, e auspicarono che dopo le esperienze traumatiche della prima metà del Novecento i popoli sarebbero riusciti a sfuggire alle subdole manovre delle élites conservatrici. Secondo loro, lo scopo di queste sarebbe stato quello di ristabilire l’ordine prebellico.

Per contrastare queste forze si sarebbe dovuta fondare una forza sovranazionale europea, in cui le ricchezze avrebbero dovuto essere ridistribuite e il governo si sarebbe deciso sulla base di elezioni a suffragio universale.

L’ordinamento di questa forza avrebbe dovuto basarsi su una “terza via” economico-politica che avrebbe evitato gli errori del capitalismo e del comunismo, e che avrebbe quindi permesso all’ordinamento democratico e all’autodeterminazione dei popoli di assumere un valore concreto

 

21/11/2017


Letteratura 

 

45 anni senza Ennio Flaiano: una targa a Montesacro lo ricorda così. 

 

A Roma, in Via Montecristo, al civico 6, nel cuore dello storico quartiere Montesacro, una targa - posta nel 2003 dalla Compagnia Teatrale LABit - ricorda un illustre inquilino: Ennio Flaiano (1910-1972), a cui peraltro il III Municipio (ex IV) ha dedicato una Piazza e intitolato la Biblioteca Comunale di Via Monte Ruggero.

A 45 anni dalla sua scomparsa, ripercorriamone allora insieme l’avventura umana ed artistica. 

 

Ennio Flaiano nasce il 5 marzo del 1910 a Pescara, nel centro storico della città, precisamente in Corso Manthonè, a pochi metri dalla casa natale di Gabriele D’Annunzio.

Scriverà di se stesso: “Sono nato a Pescara in un 1910 così lontano e pulito che mi sembra di un altro mondo. Mio padre commerciante, io l’ultimo dei sette figli della sua seconda moglie, Francesca, una donna angelica  che le vicende familiari mi fecero conoscere troppo poco e tardi. A cinque anni fui mandato nelle  Marche, a Camerino, presso una famiglia amica, che si sarebbe presa cura di me. Vi restai due anni. A sette anni sapevo fare un telegramma. Ho fatto poi anni di pensionato e di collegio in altre città, Fermo, Senigallia,  persino Brescia nel 1922. Il 27 ottobre dello stesso anno partivo per Roma, collegiale, in un treno pieno di fascisti che  “facevano la marcia”. Io avevo dodici anni ed ero socialista. A Roma divenni un pessimo studente e arrivai a stento alla  facoltà di Architettura, senza terminarla, preso dal servizio militare e dalle guerre alle quali fui  chiamato a partecipare, senza colpo ferire”.

Ennio nel 1930 abbandona dunque l’Università ed esordisce nel giornalismo nella rivista “Oggi” di  Mario Pannunzio. Nel 1935 viene fatto partire con il grado di sottotenente per la Campagna d’Etiopia che lui  definisce: “una guerra che mi ha portato ventiquattrenne a ripudiare il fascismo e a desiderare che la  cosa finisse brutalmente nella sconfitta”.

Tornato a Roma alla fine degli anni Trenta riprende la collaborazione con il nuovo “Oggi” con rubriche  su cinema e teatro, ma anche sulla Storia dell’architettura e dell’arte, seguendo quel modello di  eclettismo culturale tipico degli intellettuali romani.

Nel 1940 sposa Rosetta Rota dalla quale nel 1942  avrà una figlia affetta da encefalopatia. 

Si va quindi intensificando l’attività nel campo cinematografico: dal 1943 al 1970 il suo nome compare tra gli  sceneggiatori di un gran numero di film, in collaborazione con Federico Fellini e Michelangelo Antonioni.

Alla fine del 1946 si trasferisce a Milano per lavorare nella redazione  di “Omnibus” con Achille Campanile. Una sera di dicembre dello  stesso anno incontra Leo Longanesi, che gli commissiona un romanzo. Nasce così “Tempo di uccidere”, che nel luglio 1947 vince il Premio  Strega. Il tema di questo suo unico romanzo si rifà all’esperienza vissuta come  sottotenente  dell’esercito italiano, in Etiopia.

Nel 1949 viene nominato da Pannunzio redattore capo del nuovo  settimanale “Il Mondo”, dove lavora tra gli altri con Vitaliano Brancati e Sandro De Feo. Nel 1950 inizia la lunga collaborazione con Fellini che lo vedrà  partecipare alle sceneggiature di “Lo sceicco bianco”, “I Vitelloni”  (nomination per l’Oscar), “La strada” , “Le notti di Cabiria”, “La dolce vita”, (nastro d’argento per miglior soggetto originale e nomination per  l’Oscar). 

 

Intanto continua a  scrivere  per giornali e riviste quali “Corriere della Sera”, “Panorama”, “L’Espresso”, “L’Europeo”. Viaggia anche molto, pur non amando viaggiare: Parigi, l’Oriente  (Beirut, Bombay, Bankok, Hong Kong), New York, dove abita per lunghi periodi, e poi Israele, Londra, Canada.

Nel 1970 vince il Premio Campione con “Il gioco e il massacro”, e nel 1972 con “Ombre bianche” conquista il “Festival dei Due Mondi” (entrambi volumi di racconti).

Infine, il 20 novembre del 1972, colpito da infarto, si spegne a Roma a soli 62 anni.

Alla sua memoria, nel 1973, è stato dedicato il Premio Flaiano.

La manifestazione si svolge ogni anno nella sua città natale. 

 

20/11/2017


Cinema 

 

Vittorio De Sica: un’icona del cinema italiano. 

 

Indimenticabile attore e regista, Vittorio De Sica è stato uno degli autori di maggior rilievo della stagione neorealista del cinema italiano. Ha vinto l’Oscar per il migliore film straniero con “Sciuscià” (1948), “Ladri di biciclette” (1950), “Ieri, oggi, domani” (1963) e “Il giardino dei Finzi Contini” (1972). 

 

Nato a Sora il 7 luglio del 1901, Vittorio De Sica cresce in una modesta famiglia della Ciociaria, a metà strada tra le due grandi città della sua vita: Napoli e Roma. Si diploma in ragioneria e prima di entrare nel mondo del teatro, ancora giovanissimo, lavora presso la Banca d’Italia.

Debutta sul palcoscenico a sedici anni, alternando i lavori più disparati per mantenere la famiglia. Negli stessi anni debutta anche nel cinema con una piccola parte in “L’Affaire Clemenceau” (1917), di Alfredo De Antoni. Nel 1923 entra nella compagnia teatrale di Tatiana Pavlova, interpretando ruoli di tipo “macchiettistico” che riscuotono un gran successo tra il pubblico.

Nel 1932 ottiene il suo primo successo cinematografico interpretando Bruno nel film “Gli uomini... che mascalzoni!”, di Mario Camerini, che trionfa alla Mostra del Cinema di Venezia. Nel 1933 fonda una compagnia teatrale con Giuditta Rissone, che diventerà sua moglie nel 1938. Subito dopo nasce la prima figlia Emy. L’esordio alla regia è del 1940 con “Rose scarlatte”, di cui è anche protagonista.

Il film della svolta della sua carriera, che segna l’inizio della feconda collaborazione con lo sceneggiatore Cesare Zavattini, è “I bambini ci guardano” (1943), la storia di una famiglia divisa vista dall’occhio di un bambino “sballottato” tra genitori e parenti.

Nel dopoguerra dirige due opere che figurano tra i capolavori del neorealismo: “Sciuscià” (1946) e “Ladri di biciclette” (1948), che vincono entrambe l’Oscar speciale, successivamente sostituito dal premio per il “miglior film straniero”. Nel 1951 gira “Miracolo a Milano”, che si aggiudica la Palma d’oro a Cannes. L’anno dopo realizza un altro dei suoi capolavori, “Umberto D”, considerato dalla critica il punto più alto della sua filmografia.

Nel corso della sua brillante ed eclettica carriera non mancano “incursioni” nella commedia folkloristica dai toni più leggeri; nel 1954 dirige infatti “L’oro di Napoli”, interpretato da Totò, Eduardo De Filippo e Sophia Loren.

Nel 1960 sceglie proprio la Loren per interpretare il ruolo della protagonista ne “La Ciociara”, tratto dal romanzo omonimo di Alberto Moravia. Con questa interpretazione l’attrice vince il premio Oscar e la Palma d’oro del festival di Cannes come migliore attrice.

Vittorio De Sica conquista altri due Oscar con “Ieri, oggi, domani” (1963) e con “Il giardino dei Finzi Contini” (1970).

Separato dalla prima moglie, e ottenuta la cittadinanza francese, sposa nel 1968 l’attrice spagnola Maria Mercader, dalla quale aveva già avuto i figli Manuel (compositore) e Christian (attore e regista).

Il grande regista muore a Parigi, a seguito di un delicato intervento chirurgico, il 13 novembre del 1974. 

Le sue spoglie sono state tumulate nel cimitero monumentale del Verano a Roma. 

 

12/11/2017  


Personaggi 

 

Giuseppe Di Vittorio

 

 

 

La vita di Giuseppe Di Vittorio (1892-1957): la sua lunga attività di politico, sindacalista e antifascista è stata sempre improntata alla difesa dei diritti dei lavoratori e degli ideali della Costituzione, alla cui stesura ha partecipato in prima persona

 

 

Giuseppe Di Vittorio nasce a Cerignola, in provincia di Foggia, l’11 agosto del 1892.

Il padre Michele è un lavoratore dei campi e tutta la famiglia è costituita da braccianti agricoli. La madre si chiama Rosa Errico.

 

Nel 1902 il padre muore in seguito a una malattia contratta nel suo lavoro di curatolo, e Giuseppe è costretto ad abbandonare la scuola elementare per essere avviato al lavoro nei campi.

 

Nel maggio del 1904 partecipa a una manifestazione di lavoratori agricoli, durante la quale interviene la polizia. Quattro lavoratori vengono colpiti a morte. Fra questi un suo giovane amico quattordicenne, Antonio Morra.

 

Nel 1910 diventa segretario del circolo giovanile socialista di Cerignola, che prende il nome di "XIV maggio 1904", per ricordare l'eccidio consumato in quell'anno. Il circolo prende ben presto un indirizzo a carattere sindacalista rivoluzionario, staccandosi dal PSI e aderendo alla Federazione di Parma della gioventù socialista. Partecipa poi all'esperienza del sindacalismo rivoluzionario e aderisce all'USI (l'Unione Sindacale Italiana, nata nel 1912 dalla scissione con la CGdL riformista), ricoprendone dal 1913 la carica di membro del Comitato Centrale.

 

Nel 1913 diventa segretario della Camera del Lavoro di Minervino Murge, mentre si sviluppa in parecchi centri della Capitanata e della provincia di Bari l'influenza del sindacalismo rivoluzionario.

 

Nel 1914, ricercato dalla polizia in seguito ai fatti della "settimana rossa", è costretto a riparare a Lugano. Quindi prende contatto con molti fuoriusciti italiani e ne approfitta per studiare in modo sistematico. È quello che Di Vittorio ricorderà come il suo "liceo".

 

Nel 1915 è richiamato in guerra, e dopo aver partecipato a parecchie azioni rimane ferito. Per il suo passato di "sovversivo", dopo un lungo peregrinare, viene inviato a Porto Bardia, in Libia. Rientrerà in Italia tra gli ultimi, nell'agosto del 1919. Il 31 dicembre dello stesso anno sposa Carolina Morra, con la quale avrà due figli: Baldina e Vindice.

 

Nel 1921 viene eletto deputato mentre è detenuto nelle carceri di Lucera. La elezione a deputato avviene in circostanze del tutto eccezionali, che offrono un quadro della situazione non solo personale, ma indicano lo scontro sociale in atto tra la fine del 1920 e la metà del 1921. In questo periodo dilaga il fascismo, con la violenza più spietata, in molti centri pugliesi considerati le roccaforti del movimento socialista e, soprattutto, delle organizzazioni sindacali dei lavoratori. Queste fanno capo, in parte, alla CGdL, di orientamento socialista, e in misura consistente (Cerignola, Minervino, Corato, Bari) all'Unione sindacale italiana, di cui Di Vittorio è il maggiore e più qualificato esponente. La resistenza al fascismo è molto forte in Puglia e Di Vittorio ne è uno degli animatori più convinti. Ed è proprio in seguito a uno sciopero regionale antifascista, in un momento in cui il movimento operaio è più in ritirata, che Di Vittorio viene arrestato.

 

Nel 1921 lo scontro in quella campagna elettorale è totale: i fascisti provocano una strage a Cerignola (nove lavoratori uccisi). Nonostante il clima di violenza e di intimidazione Di Vittorio viene eletto. Per tutto il 1921 e fino ai primi mesi del 1923, l'attenzione preminente di Di Vittorio è rivolta alla situazione dei lavoratori e delle loro organizzazioni in Puglia, sottoposta a un'opera di logoramento fino alla distruzione. Egli stesso è bandito dalla sua città. Ma è a Bari che mette a profitto tutta la sua esperienza, nella Camera del Lavoro. L'occasione è offerta dallo sciopero nazionale, detto "legalitario", dell'estate 1922, che ha luogo in tutta Italia per imporre la fine delle violenze fasciste e il ritorno al rispetto della legge. Indetto dall'Alleanza nazionale del lavoro, lo sciopero si risolve in una amara sconfitta: sono poche le realtà nelle quali si costituisce un ampio schieramento antifascista. Una di queste è Bari; è la sua Camera del Lavoro che riesce a costituire un ampio schieramento di forze (socialisti, sindacalisti, anarchici, comunisti, ufficiali fiumani, arditi del popolo) e a tenere in scacco i fascisti fino all'ottobre del 1921, quando interviene l'esercito a conquistare e sciogliere la Camera del Lavoro.

 

Sul finire del 1922 per Di Vittorio non è più possibile vivere in Puglia. Si trasferisce pertanto a Roma.

 

Nel 1924 avviene l'incontro con Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, che lo porta ad aderire al Partito Comunista. Insieme con Ruggiero Grieco, dirigente comunista pugliese, avvia un'interessante lavoro per gettare le basi di un'organizzazione autonoma dei contadini italiani, in primo luogo nelle regioni meridionali. Il clima è quello della semilegalità che ben presto diventerà, nel novembre del 1926, illegalità piena e totale.

 

Fra il 1928 ed il 1930 è in Urss, rappresentante del Pcd'I presso l'Internazionale Contadina. Nel 1930 va a Parigi per far parte del gruppo dirigente del PCI e per assumere l'incarico di responsabile della CGIL clandestina. Nella primavera del 1935 muore sua moglie.

 

Nel 1936 è fra i primi ad accorrere in Spagna: ad Albacete partecipa all'organizzazione delle Brigate Internazionali con Luigi Longo e Andrè Marty e altri dirigenti. Nel 1939 dirige "La voce degli italiani", quotidiano antifascista. Il 10 febbraio 1941 è arrestato a Parigi dai tedeschi. Assieme a Bruno Buozzi e Guido Miglioli viene consegnato alle autorità italiane, che lo condannano a 5 anni di confino che sconta sull'isola di Ventotene.

 

Nel 1943 viene liberato e partecipa alla lotta di Liberazione. Firmatario del Patto di unità sindacale di Roma del 1944 con Achille Grandi per i democristiani e Emilio Canevari per i socialisti, diviene segretario generale della Cgil unitaria e poi, dopo la scissione, della Cgil fino alla sua morte.

 

Nel 1946 viene eletto deputato dell'Assemblea Costituente.

 

Tra le sue innumerevoli iniziative, va ricordato il Piano per il lavoro del 1949. Nel 1953 viene eletto presidente della FSM (Federazione Sindacale Mondiale).

La sua convinta adesione agli ideali comunisti è stata sempre contraddistinta da una totale autonomia, che ha avuto il suo momento più noto nella condanna decisa della feroce repressione sovietica in Ungheria nel 1956. Un altro punto fermo del suo pensiero è stato il rifiuto della violenza nelle lotte di massa e nell'azione del movimento sindacale, convinto come era che nel nuovo regime democratico ai lavoratori erano stati dati gli strumenti pacifici per sviluppare le loro rivendicazioni e per allargare la loro influenza sugli altri ceti della popolazione italiana. Non ha avuto esitazioni ad ammettere pubblicamente gli sbagli della organizzazione che ha diretto, e memorabile in questo senso rimane il discorso al comitato direttivo della Cgil dell'aprile del 1955, dopo la sconfitta alle elezioni dei rappresentanti dei lavoratori alla Fiat.

 

Giuseppe Di Vittorio si spegne il 3 novembre del 1957 a Lecco, dopo un incontro con i delegati sindacali.

 

L'affermazione del valore sociale e culturale del lavoro è stato dunque il principio che ha sempre ispirato e accompagnato la sua azione sindacale; l'autonomia, la democrazia e l'unità del sindacato sono stati i suoi principali obiettivi. La CGIL doveva restare rigorosamente plurale e apartitica, senza per questo venire meno a una sua naturale vocazione politica, centrata sulla difesa e lo sviluppo della democrazia e della Costituzione repubblicana, che aveva nella solidarietà e nei diritti i suoi principali valori.

Pur vivendo una stagione molto difficile, segnata da tensioni ideologiche stridenti legate al sottile equilibrio bipolare della guerra fredda, Di Vittorio ha perennemente lavorato per l'unità di tutti i lavoratori, facendo derivare da questa unità anche l'unità sindacale.

A suo avviso, solo in questo modo sarebbe stato possibile difendere l'interesse generale della classe lavoratrice, lottando efficacemente per la sua emancipazione

 

2/11/2017


Avvenimenti

 

100 anni fa, la disfatta di Caporetto. 

 

 

La disfatta di Caporetto - episodio che nella storia dell'esercito italiano viene ricordato come la madre di tutte le sconfitte - segnò una fase drammatica della Prima guerra mondiale, che vide prevalere temporaneamente le truppe austro-ungariche sulle potenze alleate.

I fatti si svolsero lungo la valle dell'Isonzo, al confine con la Slovenia, teatro delle maggiori operazioni belliche dell'esercito guidato dal comandante Luigi Cadorna.

Il resto è Storia.  

 

Il 28 giugno del 1914 uno studente bosniaco - Gavrilo Princìp - uccide a Sarajevo l’erede al trono austro-ungarico, l’arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie Sofia. È il segnale d’inizio della Prima guerra mondiale: un conflitto che da anni ormai covava in Europa e che vedrà schierarsi Russia, Francia e Inghilterra da un lato, Germania e Austria-Ungheria dall’altro.

L’Italia, alleata con tedeschi e austriaci, il 24 maggio 1915 entra in guerra contro i vecchi alleati.

A terribili e sanguinose battaglie, si alterna il logorante conflitto in trincea. Ma nel 1917, mentre gli Stati Uniti entrano in guerra a fianco di inglesi e francesi, gli austriaci rompono il fronte italiano.

 

È la disfatta di Caporetto: all’alba del 24 ottobre 1917 Luigi Cadorna, nella sede del Comando Supremo di Udine, viene informato del pesante bombardamento sulla linea Plezzo-Tolmino. Fedele alle sue convinzioni, il generale la ritiene una simulazione per distogliere l’attenzione dal fronte carsico. Contemporaneamente sul monte Krasij, a nord di Caporetto, si trova la terza linea difensiva formata da alcuni battaglioni alpini, tra cui quello comandato dal volontario interventista Carlo Emilio Gadda. Lui ed i suoi uomini vengono svegliati alle due del mattino dai bombardamenti massicci che proseguono fino all’alba. Non subendo però alcun attacco e non ricevendo alcun ordine, rimangono nelle loro posizioni, isolati e completamente avvolti nella nebbia. Verso le 12 vedono alcuni soldati italiani inseguiti da quelli austro-germanici e, alle 15, sentono le esplosioni dei ponti sull’Isonzo. Capiscono allora di essere bloccati, ed attendono con rassegnazione l’attacco nemico. Il bilancio finale è catastrofico per gli italiani: 11 mila morti, 30 mila feriti e circa 300 mila prigionieri. Il presidente del Consiglio dei Ministri Vittorio Emanuele Orlando rimuove pertanto Cadorna dall'incarico e lo sostituisce con il generale napoletano Armando Diaz.

 

Dopo Caporetto, tuttavia, l’Italia trova le risorse e la forza per rovesciare le sorti della guerra.

Il nostro esercito crea sul fiume Piave e sul monte Grappa un muro umano contro l’avanzata austriaca che, alla fine, si esaurisce.

Anche la Germania tenta il colpo finale con le grandi offensive del marzo-luglio 1918, ma alla fine viene piegata dagli americani, dagli inglesi e dai francesi, in una serie di campagne culminanti con la seconda battaglia della Marna.

Il 24 ottobre del 1918, sul fronte italiano, il generale Diaz scatena la controffensiva e, a Vittorio Veneto, dà il colpo finale agli eserciti imperiali.

Il kaiser Guglielmo II è costretto ad abbandonare il trono e a fuggire dalla Germania dove viene proclamata la repubblica. La stessa cosa accade in Austria.

 

Finalmente, dopo cinque anni di massacri, dopo la morte di milioni di soldati e le sofferenze di tante popolazioni, scocca l’ora della pace e folle di combattenti possono tornare dalle loro famiglie.

Ma la pace è durissima per gli sconfitti. L’impero austriaco viene smembrato, mentre sulla Germania si abbattono una serie di condizioni economiche e politiche che la metteranno in ginocchio per oltre dieci anni.      

 

23/10/2017


L'omaggio 

 

Giorgio Perlasca

 

 

A 25 anni dalla scomparsa, ripercorriamo la straordinaria esistenza di Giorgio Perlasca (1910-1992): il suo nome compare nell’elenco dei 525 italiani Giusti tra le Nazioni, ossia i “non ebrei” che hanno rischiato la propria vita per salvare quella dei perseguitati dal genocidio nazista

 

 

Giorgio Perlasca nasce a Como il 31 gennaio del 1910. Dopo qualche mese, per motivi di lavoro del padre Carlo, la famiglia si trasferisce a Maserà, in provincia di Padova.

Negli anni Venti aderisce con entusiasmo al fascismo, in particolar modo alla versione dannunziana e nazionalista. Tanto che per sostenere le idee di D’Annunzio litiga pesantemente con un suo professore che aveva condannato l’impresa di Fiume, e per questo motivo viene espulso per un anno da tutte le scuole del Regno.

Coerentemente con le sue idee, parte come volontario prima per l’Africa Orientale e poi per la Spagna, dove combatte in un reggimento di artiglieria al fianco del generale Franco.

Tornato in Italia al termine della guerra civile spagnola, entra in crisi il suo rapporto con il fascismo. Essenzialmente per due motivi: l’alleanza con la Germania, contro cui l’Italia aveva combattuto solo vent’anni prima, e le leggi razziali entrate in vigore nel 1938 che sancivano la discriminazione degli ebrei italiani. Smette perciò di essere fascista, senza però mai diventare un antifascista.

Scoppiata la Seconda guerra mondiale, è mandato  come incaricato d’affari con lo status di diplomatico nei paesi dell’Est per comprare carne per l’Esercito italiano.

L’Armistizio tra l’Italia e gli Alleati (8 settembre 1943) lo coglie a Budapest: sentendosi vincolato dal giuramento di fedeltà prestato al Re rifiuta di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, ed è quindi internato per alcuni mesi in un castello riservato ai diplomatici.

Quando i tedeschi prendono il potere (metà ottobre 1944) affidano il governo alle Croci Frecciate, i nazisti ungheresi, che iniziano le persecuzioni sistematiche, le violenze e le deportazioni verso i cittadini di religione ebraica.

Si prospetta il trasferimento degli internati diplomatici in Germania. Approfittando di un permesso a Budapest per visita medica Perlasca fugge.

Si nasconde prima presso vari conoscenti, quindi grazie a un documento che aveva ricevuto al momento del congedo in Spagna trova rifugio presso l’Ambasciata spagnola, e in pochi minuti diventa cittadino spagnolo con un regolare passaporto intestato a Jorge Perlasca. Inizia dunque a collaborare con Sanz Briz, l’Ambasciatore spagnolo che assieme alle altre potenze neutrali presenti (Svezia, Portogallo, Svizzera, Città del Vaticano) sta già rilasciando salvacondotti per proteggere i cittadini ungheresi di religione ebraica.

A fine novembre Sanz Briz deve lasciare Budapest e l’Ungheria per non riconoscere de jure il governo filo nazista di Szalasi che chiede lo spostamento della sede diplomatica da Budapest a Sopron, vicino al confine con l’Austria.

Il giorno dopo, il Ministero degli Interni ordina di sgomberare le case protette perché é venuto a conoscenza della partenza di Sanz Briz.

È qui che Giorgio Perlasca prende la sua decisione: “Sospendete tutto! State sbagliando! Sanz Briz si è recato a Berna per comunicare più facilmente con Madrid. La sua è una missione diplomatica importantissima. Informatevi presso il Ministero degli Esteri. Esiste una precisa nota di Sanz Briz che mi nomina suo sostituto per il periodo della sua assenza”.

È creduto e le operazioni di rastrellamento vengono sospese.

Il giorno dopo, su carta intestata e con timbri autentici compila di suo pugno la sua nomina a rappresentante diplomatico spagnolo e la presenta al Ministero degli Esteri, dove le sue credenziali vengono accolte senza riserve.

Nelle vesti di diplomatico regge pressoché da solo l’Ambasciata spagnola, organizzando l’incredibile “impostura” che lo porta a proteggere, salvare e sfamare giorno dopo giorno migliaia di ungheresi di religione ebraica ammassati in “case protette” lungo il Danubio.

Li tutela dalle incursioni delle Croci Frecciate, si reca con Raoul Wallenberg, l’incaricato personale del Re di Svezia, alla stazione per cercare di recuperare i protetti, tratta ogni giorno con il Governo ungherese e le autorità tedesche di occupazione, rilascia salvacondotti che recitano “parenti spagnoli hanno richiesto la sua presenza in Spagna; sino a che le comunicazioni non verranno ristabilite ed il viaggio possibile, Lei resterà qui sotto la protezione del governo spagnolo”.

Li rilascia utilizzando una legge promossa nel 1924 da Miguel Primo de Rivera che riconosceva la cittadinanza spagnola a tutti gli ebrei di ascendenza sefardita (di antica origine spagnola, cacciati alcune centinaia di anni addietro dalla Regina Isabella la Cattolica) sparsi nel mondo.

La legge Rivera è la base legale dell’intera operazione organizzata da Perlasca, che gli permette di portare in salvo 5218 ebrei ungheresi.

 

Fino alla Prima guerra mondiale gli ebrei si sentivano ed erano pienamente integrati (nel 1910 erano 911.227 il 4,3% della popolazione della Grande Ungheria) con un volontario processo di “magiarizzazione” in tutti i campi. Questa fedeltà alla nazione e fervente patriottismo ottenne in cambio un’attenzione particolare nel reprimere ogni atteggiamento antisemita. Questo rapporto di amicizia con il popolo ungherese iniziò ad incrinarsi subito dopo la sconfitta del 1918. L’Ungheria con il Trattato di Trianon dovette cedere oltre i due terzi del suo territorio e circa 14 milioni di abitanti. In tale atmosfera maturarono una serie di movimenti ultranazionalistici il cui scopo principale fu quello di trovare un colpevole a cui attribuire le responsabilità di tale situazione. Il capro espiatorio fu trovato negli Ebrei. Venne introdotto nel 1920 il “Numerus clausus”, stabilendo che la percentuale degli ebrei ammessi a frequentare le scuole superiori e le università non potesse superare il 6% del totale degli iscritti. Negli anni ’30 vi fu un sostanziale avvicinamento con la Germania nazista e nel triennio 1938-41 furono promulgate tre leggi razziali sul modello delle leggi di Norimberga. La politica verso gli Ebrei si caratterizzò da accelerazioni e rallentamenti determinati innanzitutto dagli interessi della politica ungherese che li usava come merce di scambio per ottenere “favori” da Hitler. L’Ungheria, dopo aver recuperato la quasi totalità dei territori perduti con il Trattato di Trianon, esauriva il desiderio di collaborare pienamente con i Tedeschi e di fare alla Germania ulteriori concessioni sulla “questione ebraica”. Ma quando nel giugno 1941 l’Ungheria entrò in guerra alleata alla Germania, le condizioni degli Ebrei peggiorarono notevolmente. I cittadini ebrei dai 22 anni in sù dovettero prestare servizio nei “Battaglioni di lavoro” in abiti civili e con un collare al braccio che li identificasse come ebrei. Peggiorando le sorti della guerra, l’Ungheria tentò di riprendersi una autonomia consumando la rottura totale nel settembre 1943, quando riconobbe la legittimità del governo italiano di Badoglio ma soprattutto quando prese posizione in difesa degli Ebrei. A quel punto l’unica soluzione valida per la Germania fu quella di rovesciare il governo ungherese e l’operazione “Margarethe I” fu il nome in codice scelto per l’occupazione del Paese (12 marzo 1944) e il 22 venne nominato un governo gradito ai Tedeschi. In quei giorni Eichmann e i suoi più fidati collaboratori arrivarono in Ungheria e il 28 aprile partirono i primi convogli: in meno di tre mesi Eichmann riuscì a deportare oltre 300.000 persone verso i campi di sterminio. Il 6 giugno lo sbarco in Normandia degli Alleati apriva un nuovo fronte di guerra: Horthy, il Reggente, sempre più preoccupato chiese il ritiro delle truppe tedesche senza risultato. Il 28 agosto l’Armata rossa raggiungeva la Transilvania minacciando direttamente l’Ungheria. Horthy tentò di trattare una pace separata. L’11 ottobre accettava le condizioni imposte dai Russi e il 15 annunciò l’armistizio alla radio. I nazisti ungheresi, le croci frecciate, spalleggiati dai tedeschi, occuparono la sede della radio annunciando che Horthy era stato deposto incitando la popolazione ungherese a continuare la lotta a fianco dei Tedeschi. A Budapest si trovavano tra i 150.000 e i 160.000 Ebrei ed altrettanti sopravvivevano ancora nel resto dell’Ungheria utilizzati nei “Battaglioni di lavoro”. Il 17 Eichmann tornava a Budapest per riprendere l’opera lasciata interrotta pochi mesi prima. Il 21 le squadre di nylas iniziavano a rastrellare casa per casa gli Ebrei di Budapest. Molti vennero impegnati in lavori disumani in città, altri organizzati in 70 “Battaglioni di lavoro” e mandati in Germania, a piedi, oltre 200 chilometri in 7 giorni, al freddo e senza cibo. Chi non resisteva veniva ucciso. Altri inviati nei campi di sterminio, altri uccisi e gettati nel Danubio, altri concentrati nel Ghetto a morire di stenti. Alla liberazione dei 786.555 ebrei ungheresi (censimento del 1941) solo 200.000 sopravvissero.

 

Dopo l’entrata in Budapest dell’Armata Rossa, Giorgio Perlasca viene fatto prigioniero, liberato dopo qualche giorno, e dopo un lungo e avventuroso viaggio per i Balcani e la Turchia rientra finalmente in Italia.

Da eroe solitario diventa un “uomo qualunque”: conduce una vita normalissima e chiuso nella sua riservatezza non racconta a nessuno, nemmeno in famiglia, la sua storia di coraggio, altruismo e solidarietà.

Grazie ad alcune donne ebree ungheresi, ragazzine all’epoca delle persecuzioni, che attraverso il giornale della comunità ebraica di Budapest ricercano notizie del diplomatico spagnolo che durante la Seconda guerra mondiale le aveva salvate, la vicenda di Giorgio Perlasca esce dal silenzio.

Le testimonianze dei salvati sono numerose, arrivano i giornali, le televisioni, i libri, e lo stesso Perlasca si reca nelle scuole per raccontare quel che aveva compiuto. Non certo per protagonismo, ma proprio perché ritiene necessario rivolgersi alle giovani generazioni affinché tali follie non abbiano mai più a ripetersi.

 

Giorgio Perlasca si spegne il 15 agosto del 1992. È sepolto nel cimitero di Maserà, a pochi chilometri da Padova. Ha voluto essere sepolto nella terra con al fianco delle date un’unica frase: “Giusto tra le Nazioni”, in ebraico.