Cavour

 

 

 

La vita del conte Camillo Benso di Cavour: la storia del più grande statista italiano. Una vicenda umana e politica che si sviluppa attraverso i momenti salienti del processo di unificazione nazionale. Dalla politica interna alle relazioni internazionali, dalle battaglie parlamentari al giorno della sua improvvisa e inaspettata morte. Il ritratto di un grande protagonista dell’Italia unita. 

 

 

 

 

Il conte Camillo Benso di Cavour (1810 - 1861) nacque a Torino da una famiglia di antica nobiltà il 10 agosto del 1810. Attraverso il padre Michele, già funzionario napoleonico, quindi capo della polizia di Torino fino al 1847 e al tempo stesso proprietario terriero e uomo d’affari, si collegava a quel settore dell’aristocrazia piemontese che, per le sue aperture al mondo economico, tendeva a saldarsi agli interessi e al mondo borghesi. Per parte di madre, una ginevrina di origini calviniste, era invece legato ad un ambiente familiare di varia caratterizzazione, nel quale si andava da posizioni di un liberalismo assai temperato fino a quelle del legittimismo borbonico francese.

Formatosi nel Piemonte conservatore degli anni ’20, Cavour dimostrò ben presto una personalità indipendente. Nella sua giovinezza si era impegnato negli affari, dopo essersi sottratto alla carriera militare alla quale era destinato per la sua posizione di cadetto. Affari, studi e viaggi lo tennero lontano dalla militanza politica ma non dalla partecipazione ad alcune tra le più importanti imprese che accompagnarono lo sforzo collettivo di sostenere lo sviluppo economico del Regno prima del ‘48. Fu infatti, nel 1842, tra i promotori dell’Associazione agraria, uno degli organismi più impegnati nella discussione dei problemi economici del Regno. La sua scelta politica fu influenzata, come quella di moltissimi della sua generazione, dai moti francesi del 1830, che gli indicarono la via del liberalismo moderato. Contrario al metodo rivoluzionario, egli era per il juste milieu, favorevole al progresso conquistato gradualmente, senza sconvolgimenti politici e sociali; era anzi convinto che le agitazioni rivoluzionarie o semplicemente i tentativi di forzare le tappe non potessero che ritardare e rendere più difficile il cammino verso il progresso.

Fervente sostenitore del liberismo economico e idealmente partecipe della battaglia che la scuola di Manchester condusse per il libero scambio, egli assimilò a fondo i principi dell’economia classica inglese e seguì le controversie che le dottrine - in particolare quelle ricardiane - avevano suscitato tra gli studiosi di economia. Egli era convinto che l’adozione del libero scambio da parte dei paesi non ancora industrializzati - accompagnata dalle necessarie riforme legislative ed amministrative e da un’adeguata politica economica - fosse il mezzo per fare entrare questi paesi nell’area dello sviluppo capitalistico, per stimolare la trasformazione e l’ammodernamento del loro sistema produttivo. Quanto al problema dell’indipendenza italiana, la posizione di Cavour non si discostò, fino al ’48, da quella degli altri moderati piemontesi di indirizzo laico; tuttavia sollecitò con calore la dichiarazione di guerra all’Austria durante le cinque giornate di Milano. Egli non credeva all’effettiva possibilità di una rivoluzione democratica in Italia ed ebbe sempre un atteggiamento di assoluta ostilità nei confronti delle forze democratiche che a loro volta lo considerarono, almeno all’inizio della sua carriera politica, un rappresentante della vecchia aristocrazia. In realtà il suo impegno nel 1850 a sostegno delle leggi Siccardi - che limitavano i privilegi ecclesiastici e sancivano l’obbligo dell’autorizzazione del governo per gli acquisti di beni da parte degli enti ecclesiastici -, la sua attività come ministro dell’agricoltura in favore della liberalizzazione degli scambi con l’estero ed il suo atteggiamento nei confronti del Parlamento lo fecero ben presto apparire per quello che effettivamente era: il rappresentante più duttile e aperto, oltre che il più dotato politicamente, dello schieramento moderato subalpino.

L’impegno di Cavour nell’attuazione di una politica liberistica, che si realizzò in una serie di trattati con l’Inghilterra, il Belgio, l’Austria e la Francia, ebbe alla Camera una positiva accoglienza anche da parte dell’opposizione, specialmente dal gruppo di centro-sinistra capeggiato da Urbano Rattazzi. Fu sulla base di un accordo parlamentare tra il gruppo liberale di centro-destra e la sinistra moderata, voluto e realizzato da Cavour, che il Piemonte entrò in una nuova e più dinamica fase della sua vita politica. Grazie a questa operazione, che i conservatori definirono “connubio” e che con questa definizione è passata alla storia, si formò una nuova maggioranza parlamentare che portò Cavour alla presidenza del Consiglio nel novembre del 1852. Il ministero d’Azeglio era caduto su un progetto di legge che istituiva il matrimonio civile e che era fortemente osteggiato dal Re e dalle forze conservatrici. La questione del matrimonio fu messa da parte e non fu più ripresentata nel Parlamento piemontese. A prezzo di questa concessione alla volontà del Re ed alla destra - che era senza dubbio un preannuncio degli ostacoli che il nuovo governo avrebbe incontrato nel suo cammino - Cavour si aprì la strada verso la realizzazione di un vasto programma di riorganizzazione dello Stato e di iniziative politiche, che avrebbero fortemente stimolato l’ascesa economica del Piemonte e gli avrebbero assegnato una funzione decisiva nel Risorgimento italiano.

Quando nel 1861, nel regno appena unificato, fu avviata la nuova legislazione che doveva dare al  paese le basi istituzionali e giuridiche della sua vita unitaria e tracciare le linee della sua evoluzione economica e culturale, venne tragicamente a mancare l’apporto di Cavour. Morì infatti quasi improvvisamente il 6 giugno del 1861, “assassinato dalla stupidità dei medici”, come fu detto, con il pensiero rivolto ai grandi problemi che l’Italia doveva ancora risolvere, ai rapporti con la Chiesa ed alle difficoltà di inserimento dell’Italia meridionale nel tessuto unitario. Egli aveva comunque già tracciato, nella fase del compimento dell’unità, tra il 1859 ed il 1861, le linee dell’organizzazione del nuovo Stato, alle quali si adeguarono la maggioranza moderata del Parlamento ed i ministeri. In sostanza il nuovo ordinamento fu il risultato dell’estensione al Regno d’Italia di istituti già esistenti nel Regno di Sardegna, che avevano come modello il sistema amministrativo napoleonico e assicuravano il rigido controllo del governo, attraverso i prefetti, su tutta la vita locale.

Nonostante ciò la sua improvvisa ed inaspettata morte fu un grave danno per l’Italia, poiché tante erano le file del potere concentrate nelle sue mani e tante le decisioni che dipendevano da lui, vera forza vitale di ogni ministero. Né Cavour aveva ritenuto necessario preparare qualcuno a succedergli. Il barone Ricasoli, nuovo primo ministro, era infatti un uomo orgoglioso e rigido, apprezzato per la sua onestà, ma con scarsa capacità di manovrare le persone nonché scarsa abilità per i compromessi e i piccoli inganni, propri del governo parlamentare. Toscano di nascita, non aveva mai completamente approvato la politica livellatrice e centralizzatrice della burocrazia torinese, da lui definita, in un momento di rabbia, “un giogo più detestabile di quello austriaco”. Tuttavia cercò di portare avanti la politica di Cavour servendosi di quanto riusciva a capire delle sue tecniche. Sebbene i primi ministri che succedettero a Cavour - Ricasoli, Rattazzi, Farini, Minghetti - fossero dunque molto meno capaci di lui, riuscirono però a consolidarne i risultati.