"Il Mito azzurro"
Dino Zoff aveva sogni grandi come tutti i ragazzi della sua età. Da grande avrebbe voluto fare il calciatore. Ma conosceva il significato di certi valori: la fatica, il lavoro. Glieli aveva trasmessi papà Mario, che alla mattina partiva per i campi e tornava solo dopo il tramonto per tenere in piedi la famiglia. Avrebbe voluto fare il portiere di calcio, il piccolo Dino. Ma venne su senza smanie, senza viaggiare troppo con la fantasia. Prima il lavoro, la scuola. Poi il calcio, e se davvero un giorno fossero venuti fuori i numeri allora sì, se ne sarebbe parlato. Era il verbo del Mario, e Dino non fece fatica ad accettare perché era in sintonia. Così, arrivarono i tempi dell'officina.
Nato a Mariano del Friuli il 28 febbraio del 1942, Dino partiva ogni mattina in bicicletta verso Gorizia per andare a sistemare motori. Altra vocazione. Ci sapeva fare, il ragazzo, e il mestiere gli piaceva. Portava a casa i primi soldi, sessantamila al mese, e i padroni gli permettevano anche di andare a giocare a pallone. Tra i pali, naturalmente. A faticare, anche lì, perché quello era il credo e lo sarebbe sempre stato. I suoi idoli di ragazzo, del resto, erano sportivi che si arrampicavano quotidianamente sui muri alti del sacrificio.
Fausto Coppi e Abdon Pamich, eroi di modestia, uomini veri. Campioni nel ciclismo e nell'atletica, discipline in cui non puoi barare quando resti solo con te stesso a misurare i limiti della tua resistenza.
Fatica, sacrificio. Parole ricorrenti, nel vocabolario di un ragazzo del Friuli che imparava a farsi uomo e ad esprimersi con poche frasi, con l'arte dei gesti e dei silenzi, degli sguardi e delle pause. Fatica, sacrificio. Nella vita, nel lavoro e anche nello sport. Nel calcio. Il “portierino” cresceva, sudava, giocando nella Marianese, praticamente sottocasa.
Ma era, appunto, un “portierino”. Piccolo e gracile, a quindici anni. Si parlava di lui, vennero a vederlo gli osservatori di Inter e Juve. Ma ai provini lo scartarono, nell'ordine, Giuseppe Meazza e Renato Cesarini.
Lui non si abbatté. Si rimboccò le maniche, in officina e sui campi. E nel frattempo maturò, anche fisicamente. Avrebbe potuto diventare un buon meccanico, il figlio del Mario. Diventò calciatore. Diventò leggenda.
Alla fine, qualcuno finalmente notò il portiere della Marianese. Racconta Luigi "Cina" Bonizzoni, che lo fece esordire in Serie A nell'Udinese e lo lanciò definitivamente nel Mantova, che «il vero scopritore di Dino si chiamava Comuzzi, girava tutto il Friuli come osservatore e lo portò all'Udinese». Dove iniziò la leggenda, l'avventura. Una brutta domenica di fine estate: è il 24 settembre del 1961, Dino ha diciannove anni e mezzo, Bonizzoni lo mette in campo contro la Fiorentina e lui incassa cinque reti. Le ricorda ancora oggi: «Andai al cinema qualche giorno dopo. Nell'intervallo c'era la Settimana Incom, fecero vedere i gol di quella partita e io sprofondai sotto le poltroncine».
Poi la retrocessione, la prima stagione da numero uno in Serie B. Nonostante questo, Dino non riuscì a essere profeta in patria. Due anni difficili, gelo intorno e poca propensione al perdono da parte dei tifosi. Per ogni errore, un processo. Meglio cambiare aria. E l'aria nuova, pulita, la trovò a Mantova.
Con Bonizzoni allenatore, appunto.
«Lo vidi arrivare con una 600 elaborata che filava velocissima. Il cofano era legato con una cinghia, perché rischiava di alzarsi controvento. Sì, Dino non aveva dimenticato come si curano i motori. Ma quella macchina gliela proibii. Mi sembrava un rischio assurdo».
Mantova fu la tranquillità, la maturità. Tre stagioni in A e una in B, una progressione costante. Accanto a compagni di squadra che si chiamavano Gigi Simoni, Gustavo Giagnoni, e poi Tomeazzi, Cancian, Nicolè, Sormani, Schnellinger. E Santarelli, il portiere arrivato da Bologna con un ginocchio malandato, che si fece da parte e prese il giovane Zoff sotto la sua ala protettrice.
Mantova fu la famiglia, anche. L'incontro con Anna, l'amore, il matrimonio. Quattro anni indimenticabili, prima di quel trasferimento rocambolesco: doveva essere Milan, all'ultimo momento (addirittura qualche minuto oltre quello che allora era il tempo massimo) fu Napoli. E Napoli fu un altro passo nella costruzione della leggenda.
Cinque stagioni in cui il calcio italiano imparò a conoscere Dino Zoff. Fino ad aprirgli le porte della Nazionale, dove iniziò la convivenza con il più grande dei suoi rivali, Ricky Albertosi, esattamente l'opposto di Dino dal punto di vista tecnico e caratteriale. All'ombra di Ricky, Zoff visse l'avventura mondiale di Messico '70 dalla panchina.
Ma l'Europeo '68, quello della doppia finale con la Jugoslavia, fu un'emozione tutta sua. E dietro alle prime gioie azzurre, l'azzurro di Napoli.
Napoli e Dino Zoff, un amore apparentemente strano e incomprensibile. Città estroversa, uomo chiuso e riflessivo. Così vicini, così lontani. Fatti l'uno per l'altra, nonostante tutto. E che squadra, poi, davanti alla porta di Zoff. Altafini e Sivori, Juliano e Panzanato, Canè e Montefusco, Barison e Bianchi. Un gruppo che avrebbe potuto andare oltre il secondo della stagione '67-68. Si parlava di scudetto, in quegli anni napoletani. Se non arrivò, fu per certi problemi che si vivevano fuori dal campo: le lotte al vertice della società, la frenesia che agitava i dirigenti e inevitabilmente si ripercuoteva sui giocatori.
È già una stella, Dino Zoff. E il bello deve ancora arrivare. Anno 1972, il campione ha trent'anni precisi quando si chiude il ciclo di Napoli. Quando arriva il richiamo della Signora del calcio italiano. Lassù, a Torino, la Juventus sta rifondando e rinascendo intorno a un gruppo di giovani che faranno Storia. Ci sono Bettega, Causio, Anastasi, Altarini, Capello. C'è posto anche per Zoff. Che chiude in valigia i ricordi migliori e parte per una nuova avventura.
Durerà undici stagioni, e forse all'inizio neppure lui l'avrebbe immaginato. Lo inseguiva da tre stagioni, la Juventus.
Era un altro Zoff, così diverso da quel ragazzino scartato al famoso provino del '58. Era un portiere che dava sicurezza. Certo, i grandi "numeri uno" del passato forse non lo hanno mai amato del tutto: troppo lontano dal concetto di uomo volante, mai percorso da quella vena di follia che per tradizione portava i portieri alla bravata, al gesto spettacolare. In un mondo di adorabili pazzi, Dino Zoff porta la sua saggezza antica. Niente fuochi d'artificio, tanta concretezza. La prima Juve di Zoff, quella del '72-73, vince subito lo scudetto. Lui la ricorderà sempre come la più bella, la più spettacolare.
«C'erano Causio, Haller, Bettega. La velocità insieme alla fantasia, la classe mescolata al dinamismo. Dopo arrivò gente come Benetti e Boninsegna, che aumentò forza fisica ed esperienza del gruppo. Ma quella prima Juve mi è rimasta nel cuore».
Arrivò altro, dopo. Cabrini, Tardelli. E soprattutto gli stranieri. Il primo fu Brady, a ruota arrivarono Platini e Boniek. Gli anni di Trapattoni, per capirci, e di un calcio italiano che riapriva le frontiere e si faceva più scaltro, più scafato. Undici stagioni e almeno due cicli bianconeri. Che finalmente riempirono la bacheca di Zoff di trofei. Sei scudetti, una Coppa Uefa, due volte la Coppa Italia. E una serie di record difficili da battere. Di fedeltà, di longevità.
Negli anni della Juventus, Dino Zoff diventa il Mito. SuperDino, per tutti. E gli anni bianconeri sono anche i migliori anni azzurri, quelli in cui Zoff diventa inamovibile e insostituibile tra i pali della Nazionale e tutti gli eredi non possono che accomodarsi ad aspettare che il re abdichi.
Quattro Mondiali vissuti intensamente: quello della panchina a Messico '70, quello delle delusioni e dei rimorsi per un'Italia incompiuta nel '74, in Germania.
E poi, i più importanti. Argentina '78, la condanna e il declino annunciato. Spagna '82, la rivincita e il trionfo del campione che risorge senza troppi proclami, non con le parole ma con il lavoro duro.
In Argentina, Zoff sale sul banco degli imputati.
Il quarto posto dell'Italia è considerato una mezza debacle, attribuita soprattutto a lui, alla sua incertezza nel respingere i tiri da lontano. Zoff, si dice, sta diventando vecchio, ha i riflessi appannati.
Lui incassa le critiche, non le approva ma tace.
E riparte. Quattro anni dopo, più ancora che quelle della finale contro la Germania, l'immagine del trionfo mondiale degli azzurri è quella della mano di Zoff che al 90° della semifinale tra Italia e Brasile inchioda sulla linea di porta il pallone colpito di testa da Paulo Isidoro, salva il vantaggio azzurro e trascina la squadra in finale.
E il campione che si rialza guarda dritto davanti a sé, e il suo sguardo sembra rivolgersi a quelli che lo avevano condannato prima del tempo in Argentina. “Ditelo adesso” - c'è scritto in quello sguardo - “che sono vecchio e appannato”. Un attimo. Perché Dino Zoff non è un uomo in cerca di rivincite. Quello che gli interessa è andare oltre, migliorarsi. Anche a quarant'anni. E a quarant'anni, infatti, diventa campione del mondo.
Altra immagine. La carezza a Bearzot dopo la vittoria in finale, prima di alzare la coppa al cielo, da capitano. Un sorriso aperto, finalmente, e quella carezza leggera a un uomo della sua stessa terra, come lui e più di lui spesso ingiustamente criticato.
Un uomo a cui Dino Zoff sente di dovere molto, dal punto di vista tecnico e soprattutto da quello umano.
Dino Zoff chiude la carriera azzurra dopo 112 partite, per lungo tempo record assoluto per un giocatore italiano.
La sua faccia tranquilla e sicura è finita sulle copertine di Time e di Newsweek, le sue mani che alzano la Coppa su un francobollo commemorativo dopo il trionfo mondiale.
Ha giocato con Burgnich e Facchetti, con Castano e Guarneri, ha visto nascere in azzurro Antognoni, Tardelli, Scirea, Graziani, Cabrini, Paolo Rossi e Bergomi. Ha vinto un titolo europeo e un Mondiale.
Auguri Dino!