Franco Fabrizi 

 

Un ritratto di Franco Fabrizi (1916-1995): per l’immaginario collettivo il “vitellone” rubacuori di felliniana memoria. 

 

Franco Fabrizi era figlio di un barbiere di Cortemaggiore e di una cassiera di cinema a cui nacque il 15 febbraio del 1916, ma già nel provino de I Vitelloni (1953) si “calava” dieci anni. Conobbe i sogni di campagna di quella pianura, e le bravate, i sonni improvvisi, e desiderò le cravatte che non poteva permettersi. Eppure “benissimo” vestito arrivò a Milano dove si confuse tanto da dimenticare gli umili, ma di bella presenza, mestieri che fece; e anche il militare. Addirittura nel dopoguerra tornò a mostrarsi a Cortemaggiore, dicendosi finalmente attore di fotoromanzi e indossatore. Un po’ minimizzando, perché era proprio vero. Biasimava certo i colleghi dal comportamento «sessualmente ambiguo» come li chiamava.

Nel 1948 fu con Walter Chiari, con la compagnia della Silvana Pampanini, quindi esordì nel cinema come generico di scarso rilievo. Ma era attratto dai “vani desideri” più potenti di quegli anni, dunque da via Veneto dove sfilava la sera, ben vestito all’americana per farsi vedere e, per finta distratto, sentire le mogli degli altri dire di lui: «guarda che bell’uomo». Ma restava furbo di campagna, e al teatro degli Avignonesi si era addirittura arrampicato fino a una finestrella e attraverso un bagno aveva assistito a tutti i provini de I Vitelloni, tanto da credere di capire quello che si voleva per il suo film. Fellini lo scritturò per la bella cifra di ottocento mila lire d’allora. In fondo perché? Per bighellonare nell’amata e odiata identica provincia.

Nel 1955 fu l’autista Roberto, uno dei tre truffatori de Il bidone; ma un attrezzo da luna park mal manovrato lo sparò fuori. Cadde in un prato, minimizzando zoppicò per settimane. Ma furono quelli gli anni più felici: lui e quella sua aria di gagà, seduttore a tempo pieno, sorridente mentre salutava da auto sportive, con al fianco ragazze vistose. Gettò Cabiria nel Tevere nel 1957.

Era ormai diventato l’antipatico più riprovevole di quello che era. Perciò fu perfetto anche in Un maledetto imbroglio di Pietro Germi. Da equivoco medico Valdarena esibì un cipiglio drammatico levitato dalla strafottenza naturale, una dote molto ben compresa dal duro commissario Ingravallo che lo schiaffeggiava violentemente. E del resto era quello che si aspettava il pubblico. Pure quello del boom, quando Dino Risi lo mise accanto ad Alberto Sordi in Una vita difficile per recitare la parte del compagno Franco Simonini, non più tale, e che si adatta, perciò da esecrare.

Eppure nel Fabrizi di quel film c’era una così grande morbidezza che evolveva in umanissima complice comprensione, per la follia dell’amico estremista. Un desiderio di proteggerlo sempre, che fuggisse per sposarsi nel film la Massari o restasse senza soldi. A lui certo i macchinoni e le ragazze da esibire, e la parte dell’ ipocrita; però via via una più grande compassione degli altri, e di sé. C’era in lui quella padana sollecitudine - come un pentirsi nel malfare - del greve contadino che deve radunare di che mangiare, non solo per sé. Ma al cinema questa sua pacificatrice inclinazione provvidente non interessava. Dovette ritornare a qualcuno dei giovanili espedienti. Del resto, essendo l’archetipo perfetto di un vizio nazionale, più di tanto e soprattutto a fondo non poteva essere esibito. Fu il barbiere in Morte a Venezia 1971 con Luchino Visconti, con il quale aveva già lavorato nel dopoguerra. E nel 1985 riuscì a ritornare con Federico Fellini, conduttore televisivo in Ginger e Fred. Invecchiò, togliendosi decenni, e coltivando i vezzi del divo molto appagato che non era, pavoneggiandosi, come riesce a chi ha peccato ed è stato molto ammirato.

Morì il 18 ottobre del 1995 nella sua Cortemaggiore, in provincia di Piacenza, non privo di “vani desideri”. Quegli stessi che prosperano sempre in Italia, e che Astolfo ritrovò nella valle della luna perduti assieme con le «Le lacrime e i sospiri degli amanti, l’inutil tempo che si perde a giuoco, e l’ozio lungo d’uomini ignoranti, vani disegni che non han mai loco, i vani desideri sono tanti». Ariosto, Orlando Furioso, canto XXXIV, 75.