Giosuè Carducci
La vita e le opere di Giosuè Carducci (1835-1907): il ritratto di uno dei padri della letteratura italiana moderna, primo scrittore italiano ad ottenere l’ambito Premio Nobel per la Letteratura.
Giosuè Carducci nasce a Valdicastello, in provincia di Lucca, il 27 luglio del 1835 e trascorre l'infanzia e l'adolescenza nella Maremma. Il padre, medico condotto di professione, "carbonaro mazziniano" in politica e "manzoniano" in letteratura, fu costretto a trasferirsi in molti paesi della Versilia, a causa di disavventure politiche, finché venne definitivamente licenziato e costretto a raggiungere Firenze nel 1849. Qui Carducci inizia gli studi classici presso i padri Scolopi, e nel 1853 vince il concorso per l'ammissione alla Scuola Normale di Pisa. In questo periodo fonda la società degli "Amici pedanti", una sorta di club letterario che propone il ritorno al classicismo. Difensori della grande tradizione letteraria italiana, dispregiatori del romanticismo, considerato una teoria straniera, si oppongono, sia in letteratura sia in politica, ai moderati ed è proprio su questa linea di recupero delle forme e dei modi della tradizione letteraria italiana che avviene l'esordio poetico di Carducci, nel 1857, con il primo volume di "Rime".
Laureatosi nel 1856, inizia la carriera di insegnante al ginnasio di San Miniato, vicino a Pisa, ma vi resta solo un anno: a causa dei debiti contratti è costretto ad andarsene. Vince, nel '57, la cattedra di greco ad Arezzo ma le autorità granducali non ratificano la nomina, considerandolo un oppositore politico, con l'aggravante di essere ateo. Seguono anni difficili, di studio e di miseria, rattristati da gravi lutti familiari: nel 1857 muore suicida il fratello Dante e l'anno successivo, per il dolore si spegne il padre, lasciandolo unico sostegno della famiglia. Nel 1859 sposa Elvira Menicucci, dalla quale avrà quattro figli: Bice, Laura, Libertà e Dante. Nel 1860 Terenzio Mamiani, primo ministro italiano della Pubblica istruzione, gli affida la cattedra di eloquenza dell'università di Bologna, che terrà fino al 1904. Carducci durante gli anni d'insegnamento affianca, all'attività di docente solerte ed autorevole, quella di polemista e saggista, creando la cosiddetta "scuola storica" della critica, che dava spazio sia al rigore dell'informazione e alla ricerca erudita, sia all'attenzione stilistica.
I primi dieci anni a Bologna rappresentano un periodo di evoluzione: da un ideale tutto letterario di repubblica, passa a una concezione giacobina con sfumature anarchiche e socialiste; dal classicismo un po' chiuso dei primi anni allarga gli orizzonti culturali assimilando atteggiamenti e forme del romanticismo straniero. Giunge all'aperta professione dell'ateismo ("A Satana" del 1863 ed in seguito le "Polemiche sataniche" del 1869) mentre i suoi furori giacobini sono presenti in "Giambi ed epodi" in cui il poeta esprime uno stato d'animo irritato e sarcastico, avendo l'intenzione esplicita di convincere il lettore che il nuovo Stato ha tradito le attese di coloro che l'avevano realizzato, disapprovando i compromessi con la Prussia e l'Austria.
Il Papato è al centro delle violente polemiche del poeta che teorizzava una Società di persone libere ed uguali, disposta a concedere pochi poteri allo Stato. In questa fase Carducci manifesta il suo forte patriottismo, sostenendo che il poeta deve essere impegnato politicamente e moralmente responsabile delle proprie azioni.
Giosuè Carducci è uno dei pochi poeti che con i suoi scritti e i suoi comportamenti influenzerà notevolmente gli intellettuali italiani: a Bologna le sue lezioni attrassero molti studenti e le odi "Sicilia e rivoluzione" e "Dopo Aspromonte" furono molto apprezzate.
Nel 1868, a causa delle violente polemiche letterarie e politiche, è sospeso dall'insegnamento universitario. Al rammarico si uniscono altri gravi lutti: nel 1870 muoiono la madre e il figlio Dante. Due anni dopo inizia la lunga e tormentosa passione per Carolina Cristofori Piva, la Lina di "Primavere elleniche" e la Lidia delle altre poesie. Pubblica in questo periodo, con lo pseudonimo di Enotrio Romano, "Levia gravia", "Poesie", "Nuove poesie" che confluiranno successivamente nelle "Rime nuove" consacrandone la fama di poeta e confermando la già vasta popolarità di cui gode negli ambienti letterari di Francia, Germania, Austria e Russia.
Dopo il 1874 scomparsi dalla scena politica i maggiori esponenti della democrazia risorgimentale, si pone, politicamente, in posizioni più moderate, aderendo, come molti altri uomini della sinistra, alla monarchia sabauda: l'ode "Alla regina d'Italia" dedicato a Margherita di Savoia suscita polemiche ed è accusato dai suoi amici di aver abbandonato gli ideali giacobini e repubblicani. Ciò non gli vieta comunque di capeggiare le proteste, nel 1882, contro l'impiccagione di Oberdan, accusato di aver organizzato un attentato contro l'imperatore Francesco Giuseppe.
In questi anni, spenta la polemica giacobina che infiammava le sue opere, il Carducci perfeziona lo stile; affiorano nelle sue poesie i temi dell'evocazione del paesaggio maremmano, la malinconia, l'accorata nostalgia della passata grandezza. L'espressione più significativa di questo periodo si ha nelle opere "Rime nuove" (1861 - '87) e "Odi barbare" (1877 - '89). Nella prima raccolta il poeta tratta alcuni dei temi fondamentali della propria lirica: il canto delle memorie autobiografiche, le poesie dedicate al figlio morto, i ricordi maremmani e la contemplazione ammirata delle grandi memorie storiche. In "Odi barbare" si aggiungono altri temi: il mito della romanità, il senso religioso congiunto ad una misteriosa presenza superiore (Canto di marzo, La madre) ed infine poesie in cui alla realtà si affiancano il mistero e l'imponderabile a cui questa realtà è sempre unita (Nevicata, Alla stazione in una mattina d'autunno). L'ultima raccolta poetica "Rime e ritmi" (1899) rivela la duplice veste del poeta ufficiale e di uomo solo e profondamente deluso: il Carducci decadente.
La vecchiaia del grande poeta fu triste anche se carica di onori. Fu nominato senatore nel 1890 ed appoggiò pienamente la politica di Francesco Crispi; fu il primo scrittore italiano insignito del premio Nobel, nel 1906, e riconosciuto vate dalla terza Italia.
Costretto a lasciare l'insegnamento a causa di una grave malattia, il Parlamento gli assegna una pensione annuale, definendolo "il glorioso poeta dell'Italia rigenerata".
Si spegne a Bologna, il 16 febbraio del 1907 a causa di una polmonite, all’età di 71 anni.