Gli anni di piombo: la storia del terrorismo in Italia.

 

Durante gli anni Settanta la “strategia della tensione” e l’emergenza terroristica, che comincia a manifestarsi anche nella sua matrice di sinistra attraverso le Brigate rosse, rendono drammaticamente difficile la vita politica, sociale e civile del nostro Paese.  

 

È in atto la cosiddetta “strategia della tensione”. Dopo il grave attentato di Piazza Fontana a Milano - il 12 dicembre 1969 una bomba collocata presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura provoca 16 morti e 90 feriti - la scia degli atti eversivi si va paurosamente ingrossando. Nella notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970 Valerio Borghese, già comandante militare nella Repubblica di Salò, con forze neofasciste e la complicità di corpi “deviati” dello Stato tenta un “golpe”, penetrando nel Ministero degli Interni. Sempre nel 1970, le rivolte esplose a Reggio Calabria e a l’Aquila per protesta contro la mancata attribuzione del ruolo di capoluogo di regione, vengono alimentate prevalentemente da gruppi dell’estrema destra e dallo stesso MSI.

Le azioni terroristiche di destra continuano ancora per anni, culminando nella strage di piazza della Loggia a Brescia, il 28 maggio 1974, dove nel corso di una manifestazione sindacale una bomba uccide 8 persone e ne ferisce un centinaio, nella strage del treno Italicus, il 4 agosto 1974, in cui a causa di un’esplosione perdono la vita 12 persone, fino ad arrivare alla strage della stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, il cui tragico bilancio è di 83 morti e oltre 200 feriti.

A considerare con avversione lo Stato democratico, e a nutrire il progetto di abbatterlo con la violenza, non sono soltanto le forze eversive di destra e i loro complici negli apparati “deviati” dello stesso Stato e nei settori politici reazionari di destra, ma anche le forze della sinistra extraparlamentare. Di conseguenza agli inizi degli anni ’70 matura un terrorismo di sinistra che contribuisce, sommandosi a quello di segno opposto, a creare una situazione sempre più drammatica nel Paese. Sorge così un vero e proprio “partito armato” di sinistra formato da una serie di organizzazioni, fra le quali sopra tutte emergono le Brigate rosse, protagoniste di innumerevoli azioni di sequestro, ferimenti e assassini.

Nel 1974, con il sequestro del giudice genovese Mario Sossi - rapito il 18 aprile e rilasciato il 23 maggio - le Br raggiungono la notorietà nazionale. Costituite da Renato Curcio e Alberto Franceschini nel 1970, esse derivano da due gruppi della Nuova sinistra: Potere operaio e Lotta continua, nati nell’autunno del 1969 dall’assemblea operai-studenti della FIAT a Torino.

Le Brigate rosse si finanziano mediante ricatti e rapine. Prima del ‘74 hanno svolto un’azione di propaganda contro il sistema politico, danneggiando sporadicamente qualche fabbrica: il rapimento del giudice Sossi rappresenta una escalation nella loro strategia.

Le Br dunque decidono di concentrarsi su obiettivi specifici, scegliendo la maggior parte delle vittime tra i magistrati - l’8 giugno 1976 uccidono a Genova il procuratore generale della Repubblica Francesco Coco e i due carabinieri della scorta -, gli uomini politici, i dirigenti, le forze di polizia, i sindacalisti. È il caso di Guido Rossa, operaio dell’Italsider, sostenitore dell’antiterrorismo, barbaramente ucciso il 24 gennaio 1979 per aver denunciato un compagno di lavoro, Francesco Berardi, che distribuiva in fabbrica volantini delle Br.

I terroristi rossi inoltre cercano collegamenti sia con la base del PCI, sia con i gruppi e i movimenti della sinistra extraparlamentare, come Autonomia operaia, Avanguardia operaia, e in seguito Prima linea[1].

Nei giorni bui e violenti degli “anni di piombo” le piazze, le strade, le scuole, le fabbriche del Paese e soprattutto delle grandi città, diventano pertanto teatro di sanguinosi scontri. Nel solo 1977 si contano più di duemila attentati, undici persone uccise e trentadue “gambizzate”. Quasi ogni giorno nelle città italiane sfilano cortei di giovani che ritmano ossessivamente invocazioni di morte: “Fanfani fascista, sei il primo della lista”, “Agnelli, Pirelli, Fanfani, Colombo, le nostre riforme saranno di piombo”, “Attento poliziotto, è arrivata la compagna P. 38”. 

Un fermo immagine - uno scatto di Paolo Pedrizzetti - è divenuto l’icona di questo periodo storico.  È il 14 maggio 1977. A Milano un corteo sfila in Via De Amicis. Un ragazzo con il capo avvolto in un passamontagna impugna una pistola con entrambe le mani: il suo nome è Giuseppe Memeo, un militante di Autonomia operaia. Ha le braccia tese e le gambe larghe, in pieno assetto da guerriglia urbana. Il giovane spara, e la manifestazione in corso si trasforma rapidamente in tragedia. Molti tra i manifestanti sono armati. Un sottufficiale di polizia, il brigadiere Antonio Custra, viene colpito alla testa: morirà il giorno seguente. 

Sembra che queste spinte irrazionali e violente possano avere la meglio su un costume antico fatto di rispetto, di tolleranza, di dignità, di civile convivenza, che ha resistito anche nei momenti più difficili della storia della nostra Repubblica. Vanno quindi ricordate alcune cifre che mostrano la reale entità del fenomeno rappresentato dal “partito armato” di sinistra. Un gruppo di fuoco di circa duecento persone per Prima linea, con duemila simpatizzanti; trecento “regolari” delle Brigate rosse, con quasi tremila “irregolari”. Contro di loro 80.000 carabinieri e 100.000 poliziotti: ma il vero pericolo si annida nella debolezza di alcuni organismi dello Stato.

È in questo clima che si giunge al 16 marzo 1978, quando un commando di brigatisti rossi rapisce a Roma, in via Fani, il presidente della DC Aldo Moro dopo aver assassinato gli uomini della sua scorta, nel giorno in cui in Parlamento si apre il dibattito sulla fiducia al nuovo governo di “solidarietà nazionale” guidato da Giulio Andreotti. Il Paese vive con sgomento e paura i 55 giorni del sequestro Moro, mentre le forze politiche sentono l’esigenza di superare gli antichi contrasti ponendosi a difesa delle istituzioni minacciate dal terrorismo, adottando la linea della fermezza di fronte al ricatto nei confronti dello Stato democratico. Vani risultano gli appelli rivolti ai brigatisti da autorità come il Papa e il segretario delle Nazioni Unite. Il 9 maggio 1978, il corpo di Aldo Moro viene ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa posteggiata in via Caetani, al centro della vecchia Roma, in un luogo simbolico, tra le sedi storiche della DC e del PCI. Si consuma così uno dei delitti più tragici nella storia del nostro Paese, che ferisce profondamente l’animo e la pietà di un popolo che, al di là delle diverse posizioni, respinge i disegni di una criminalità politica che tenta di introdurre una nuova barbarie nel tessuto civile del Paese. Un delitto destinato perciò a segnare una sconfitta per il “terrorismo rosso”, accentuando il suo isolamento e la sua estraneità dal contesto sociale e politico.

La stagione degli “anni di piombo” comincia lentamente a declinare, pur non mancando violenti colpi di coda che mietono nuove vittime: il magistrato Emilio Alessandrini, ucciso il 29 gennaio 1979 a Milano da un commando di Prima linea di cui fa parte Marco Donat Cattin, figlio di Carlo, l’esponente della DC più volte ministro, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Vittorio Bachelet, ucciso dalle Br il 12 febbraio 1980 all’Università “La Sapienza” di Roma, il giornalista del “Corriere della Sera” Walter Tobagi, assassinato a Milano il 28 maggio 1980 da un commando di Prima linea, Giuseppe Taliercio, direttore dello Stabilimento Petrolchimico di Porto Marghera, all’epoca una delle roccaforti del capitalismo italiano, sequestrato dalle Br il 20 maggio 1981 e trovato cadavere dopo 47 giorni di prigionia, Ezio Tarantelli, docente di economia politica e collaboratore della CISL, freddato dalle Br il 27 marzo 1985 nel parcheggio della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma, ed infine il senatore democristiano Roberto Ruffilli, consigliere dell’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Ciriaco De Mita, ucciso a Forlì il 16 aprile 1988 da un nucleo armato delle Br, l’ultimo delitto delle Brigate rosse “formato prima Repubblica”.

Ma le “riesumate” Nuove Brigate Rosse colpiranno con cieca ferocia anche nella seconda Repubblica, uccidendo tra il 1999 e il 2003 il docente di diritto del lavoro Massimo D’Antona (20 maggio 1999), il giuslavorista Marco Biagi (19 marzo 2002), autore della nota riforma, e il sovrintendente di polizia Emanuele Petri (2 marzo 2003). 



[1] Prima linea nasce nel dicembre del 1976, quando rivendica a Milano i primi due attentati: all’Associazione industriali di Monza e al “Corriere della Sera”. La scelta del nome deriva dal fatto di schierarsi in testa ai cortei dei movimenti della sinistra extraparlamentare occupando, appunto, la “Prima linea.