La terribile storia dei frati di Mazzarino. 

 

Una storia terribile ai limiti dell'inverosimile. Nel 1960 la Procura di Caltanisetta emette l'ordine di cattura per quattro frati del convento francescano di Mazzarino: estorsioni, violenze. omicidi, simulazione di reato per dei frati che avevano fatto voto di povertà, di castità e obbedienza. 

 

Corte d' Assise di Messina, 12 marzo 1962. Tra gli spintoni dei paparazzi sfilano davanti ai giudici quattro frati cappuccini: Vittorio, Venanzio, Agrippino e Carmelo. Al secolo, rispettivamente, Ugo Bonvissuto, 41 anni, Liborio Marotta, 46, Antonio Jaluna, 39, Luigi Galizia, 83.

Sono «i monaci di Mazzarino», barbe incolte e aria stralunata. Si sono già fatti due anni di carcere e portano il peso di accuse gravissime: associazione per delinquere, concorso in omicidio ed estorsione continuata.

Ma facciamo un passo indietro: Mazzarino, 5 novembre 1956. Il convento, a strapiombo su una vallata d' ulivi, è silenzioso come ogni sera. I monaci se ne stanno chiusi nelle loro celle. Improvvisamente un urlo rimbomba nel corridoio. E dopo un istante due colpi: vengono dalla stanza di Agrippino che, atterrito, fissa come un ebete i pallettoni conficcati nel muro.

I carabinieri aprono le indagini, i frati vengono interrogati e sette mesi dopo il caso è già archiviato. Ma non per sempre: tre anni più tardi viene riaperto, dopo che sul paese si abbatte una raffica di incendi intimidatori, estorsioni, ricatti e omicidi. Allora tutto sembra chiaro. Chi accusa i frati è convinto che sotto il saio si nascondono dei briganti che hanno messo in scena un finto attentato (dalle colonne de «L' Ora» Mauro de Mauro li chiama «monaci-banditi, i don Abbondio della estorsione»). Chi li difende, invece, dice che le canne mozze d' una doppietta sono entrate per davvero nella cella di Agrippino, per costringere lui e gli altri tre confratelli a coprire misfatti compiuti da altri.

Certo è che per trenta mesi Mazzarino vive nel terrore: da quella sera maledetta d' autunno parte un' angosciante catena di delitti. Un rosario di estorsioni sgranato a forza di minacce di morte.

È un incubo che finisce in tragedia, perché al tramonto del 25 maggio 1958, la 600 su cui viaggia il cavaliere Angelo Cannada insieme alla moglie Eleonora Sapio e al figlio, viene bloccata in contrada Prato. Quattro uomini mascherati trascinano dietro un cespuglio il facoltoso possidente e lo fanno fuori in due minuti. Prima le intimidazioni, poi le estorsioni, ora anche l' assassinio.

A Mazzarino nessuno fiata. Si procede «a carico d' ignoti» fino al 5 maggio dell' anno successivo, quando due fucilate raggiungono il vigile urbano Giovanni Stuppia e nel giro di una notte finiscono in caserma Giuseppe Salemi, 40 anni, Girolamo Azzolina, 27 anni, e Filippo Nicoletti, 16 anni. È il trio dei cosiddetti "laici", più tardi imputati assieme ai religiosi al processo di Messina. 

Il 16 febbraio 1960 i frati finiscono in manette. Vittime o complici?

Il processo si apre a Caltanissetta. I difensori dei monaci partono subito all' attacco. Sperano che il giudice assolva i loro assistiti giustificandone l' operato con lo «stato di necessità», o che almeno ne distingua le responsabilità dai laici, accollando a questi l' intera colpa dei delitti più gravi, primo fra tutti l' omicidio, sia pure preterintenzionale, del cavaliere Cannada. 

A difesa dei frati scende in campo anche il grande Francesco Carnelutti, insieme a Francesco Siciliano. I tre vengono interrogati e i carabinieri risalgono al mandante: Carmelo Lo Bartolo, di anni 43, giardiniere del convento, rude e temuto, che viene arrestato a Genova, dove nel frattempo è fuggito, e che poi, condannato a 30 anni, si toglie la vita impiccandosi in una cella del carcere di Caltanissetta. Interrogati, i religiosi raccontano di avere agito a fin di bene e di non avere mai intascato una lira delle somme riscosse, consegnate ogni volta al Lo Bartolo.

Perché, si chiede l' accusa, i frati non hanno denunciato i fatti ai carabinieri? Perché non si sono confidati con i loro superiori? Perché non hanno chiesto trasferimento?

La sentenza di primo grado di Messina assolve tuttavia i frati per avere agito in «stato di necessità». E i frati vengono scarcerati. Ma si chiude un processo e se ne apre un altro: quello alla sentenza, depositata in 193 pagine. Scoppia il finimondo (rovente, tra le altre, la polemica fra Carnelutti e il presidente della Camera, il penalista Giovanni Leone).

Dopo un anno il verdetto viene riformato dalla Corte d' Assise di Messina, che condanna i frati a 13 anni. Due anni dopo, la sentenza viene annullata per difetto di motivazione. E un nuovo processo d' appello si apre a Perugia. Ma la corte riduce la pena da 13 a 8 anni e riafferma la correità dei religiosi. Per i monaci non c' è niente da fare. 

 

1/4/2018