La genesi degli "opposti estremismi" in Italia. 

 

Durante i primi anni Sessanta, mentre avanza la crisi inflazionistica destinata ad interrompere il processo di sviluppo conosciuto dall’economia italiana negli anni del “boom” economico, matura un diverso e più incisivo ruolo del movimento sindacale.

Le tre maggiori confederazioni (CGIL, CISL, UIL) ottengono, tra l’altro, oltre a spazi ed uffici nelle fabbriche anche un’autonomia economica, ricevendo la quota di iscrizione al sindacato attraverso una trattenuta operata dall’azienda sullo stipendio dei lavoratori. Queste innovazioni consentono ai sindacati una maggiore autonomia rispetto ai partiti ai quali sono legati, e una progressiva tendenza verso un’azione comune.

Questo quadro sindacale in movimento deve gestire le agitazioni operaie esplose nell’autunno del 1969, il cosiddetto “autunno caldo”, con scioperi e metodi di lotta molto duri: dagli “scioperi selvaggi” alle interruzioni di linee ferroviarie all’occupazione delle fabbriche.

I sindacati ufficiali che non condividono questi metodi vengono contestati nelle assemblee. Tuttavia le tre confederazioni riescono a riprendere in mano la situazione e a condurre le trattative con il governo Rumor e con i datori di lavoro, giungendo a risultati significativi.

In particolare si ottengono aumenti salariali di oltre il 18%, la riduzione a 40 ore della settimana lavorativa, un aumento degli indici della scala mobile, una riduzione del distacco salariale tra operai specializzati e non qualificati, regolamenti meno rigidi.

L’autunno caldo rappresenta pertanto un notevole successo delle confederazioni sindacali che accentuano il loro peso non solo nel mondo del lavoro ma nel più ampio quadro economico, sociale e politico del Paese. Il sindacato supera infatti i suoi confini - divenendo quasi un organo della politica sociale dello Stato - intervenendo nella legislazione che riguarda la sanità, l’istruzione, la casa, i trasporti, la sicurezza sociale, l’ordine pubblico ed assumendo notevoli capacità di pressione politica, non mancando di far sentire il proprio peso contro ogni tentativo di involuzione democratica.

Il successo più significativo prodotto dall’azione sindacale è comunque l’approvazione da parte del Parlamento nel 1970 dello Statuto dei lavoratori - il cui artefice Gino Giugni verrà gambizzato a Roma dalle Br il 3 maggio 1983 -, che fissa precise norme a tutela del mondo del lavoro.

Ma nel corso del 1969 al clima politico e sociale profondamente turbato dall’autunno caldo si somma l’emergere della violenza e di un terrorismo politico che appare, per la sua chiara connotazione di estrema destra, una risposta alle lotte e alle conquiste sindacali, con l’evidente obiettivo di mettere in crisi le istituzioni democratiche. La miccia della “strategia della tensione” infiamma dunque l’Italia da nord a sud.

Il 25 aprile 1969 l’esplosione di due bombe alla Fiera di Milano provocano 19 feriti; il 9 agosto esplodono alcuni ordigni su otto treni; il 27 ottobre a Pisa uno scontro tra dimostranti e polizia provoca la morte di uno studente; il 19 novembre a Milano nel corso di incidenti durante una manifestazione viene ucciso l’agente Antonio Annarumma; il 12 dicembre a Milano una bomba collocata presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana provoca 16 morti e 90 feriti; nello stesso giorno altre bombe a Roma provocano 16 feriti.

A tutto ciò si aggiunge a Roma nel dicembre del 1970 un velleitario tentativo di golpe da parte di Valerio Borghese, ex comandante nell’esercito della Repubblica di Salò. Sempre nel 1970 le rivolte esplose a Reggio Calabria e a l’Aquila, per protesta contro la mancata attribuzione del ruolo di capoluogo di regione, in vista dell’entrata in vigore del decentramento regionale, sono alimentate prevalentemente da gruppi dell’estrema destra e dallo stesso MSI. Soprattutto a Reggio Calabria la rivolta si protrae a lungo mettendo a dura prova le istituzioni democratiche e le forze dell’ordine.

L’eversione reazionaria, il cui obiettivo è la costituzione in Italia di un regime neofascista del tipo di quello instaurato dai colonnelli in Grecia, continua per molti anni culminando nella strage di piazza della Loggia a Brescia, il 28 maggio 1974, nella strage del treno Italicus, il 4 agosto 1974, fino ad arrivare alla strage della stazione ferroviaria di Bologna, il 2 agosto 1980.

Ma a considerare con avversione il debole e poco efficiente Stato democratico e a nutrire il progetto di abbatterlo con la violenza, non sono soltanto le forze eversive di destra e i loro complici negli apparati “deviati” dello stesso Stato e nei settori politici reazionari di destra, ma anche le forze della sinistra extraparlamentare. Di conseguenza, agli inizi degli anni Settanta matura un terrorismo di sinistra che contribuisce, sommandosi a quello di segno opposto, a creare una situazione sempre più drammatica nel Paese.

Il terrorismo di sinistra affonda le sue radici in settori studenteschi, operai, intellettuali, inizialmente di una notevole ampiezza. Il suo “terreno di coltura” è rappresentato da settori della sinistra extraparlamentare e organizzazioni come Lotta continua, Avanguardia operaia, Potere operaio, Autonomia operaia.

L’inefficienza riformistica dei governi, la diffusa corruzione politica, l’eversione di destra e la complicità con essa di influenti settori degli stessi apparati dello Stato agiscono quindi congiuntamente come elementi che favoriscono lo svilupparsi del terrorismo rosso.

Sorge così un vero e proprio “partito armato” di sinistra, formato da una serie di organizzazioni, fra le quali sopra tutte emergono le Brigate rosse. Costituite nel 1970 da Renato Curcio e Alberto Franceschini - composte da 300 elementi regolari e circa 3000 irregolari - le Br diventeranno in breve tempo protagoniste di innumerevoli azioni di sequestro, ferimenti e assassini, con il loro seguito di “processi” rivoluzionari e agitazioni ideologiche che segneranno, lasciando un solco sanguinoso, circa un ventennio della nostra Storia.