L’Italia dal 1943 al 1945  

 

 

Dal crollo del Fascismo alla Liberazione 

 

 

 

Il 1943 è il quinto anno di guerra, quello della svolta: dodici mesi senza respiro che danno un nome ai vincitori e ai vinti. Un anno tragico, lungo un secolo, con due date che sono ancora dentro di noi: il 25 luglio e l’8 settembre, il crollo del fascismo e il crollo del Paese, l’Italia spezzata in due e la gente costretta a scegliere da che parte stare.

Per gli italiani il 1943 è una stagione fatta di paura, fame, bombe, tedeschi, americani, fascisti e partigiani. È la ritirata di Russia, una tragedia che non lascerà più la nostra coscienza, è la dolorosa scoperta che la guerra è perduta, la decadenza fisica e morale del Duce, il crollo di un mito. È lo sbarco in Sicilia, con i contadini che vanno incontro agli americani offrendo loro ceste di frutta come ai tempi di Garibaldi, è il “golpe” del 25 luglio in cui i gerarchi abbattono Mussolini e il re ne rimuove l’ingombrante cadavere politico, è l’esplosione di gioia popolare alla caduta del regime: il fascismo che cade di schianto, vent’anni cancellati in un giorno.

Il 1943 è lo squallido “tutti a casa” dell’8 settembre: un Paese che si sfalda, un esercito senza ordini che diserta compatto. È la calata dei tedeschi, l’ombra lunga dei carri armati Tigre di Rommel. Scappa il re, scappano i generali, cadono molte maschere dall’aspetto marziale. Anni di retorica sono spazzati via in poche ore, i soldati aspettano ordini che non verranno, un abito borghese e un cascinale sono l’unica salvezza. Le caserme sono deserte; i fucili giacciono abbandonati nelle pozzanghere di olio e di vino. Militari sbandati tagliano per i campi dormendo nei fienili e cercando aiuto dai contadini. Sono senza stellette, hanno le giubbe sbottonate e in mano una valigia di cartone pressato. Le stazioni sono piene di gente che fugge, di polvere, di grida, di fagotti: su tutto domina l’istinto della sopravvivenza. Le motocarrozzette della Wehrmacht sollevano nuvole di polvere sulle strade deserte. Seicentomila ragazzi finiscono nei Lager tedeschi, sul dorso portano una scritta: Italien.

Il 1943 è la dolorosa scoperta che l’Italia non è come diceva il Duce. È il martirio delle nostre città: la guerra che diventa un incubo infinito, le bombe che cadono sibilando, le traccianti che frugano il cielo, i rifugi in cui ogni notte un’umanità indifesa rinnova la sfida al destino, Pio XII che a San Lorenzo apre le braccia alla folla piangente, il crollo del fronte interno, l’Italia prostrata, la speranza che tutto finisca, l’illusione che sia stato solo un brutto sogno. “Siamo già morti, eppure non ce ne accorgiamo”, afferma Galeazzo Ciano guardando dentro il giocattolo rotto del fascismo. Il 1943 tuttavia è anche il ritorno del fascismo, il rientro nella Storia del grande attore al tramonto, i primi giorni di Salò, regno dell’ultimo disperato Mussolini. È la guerra civile che consuma i primi fuochi e detta la sua legge. La guerra civile: la peggiore di tutte.

Ma il 1943 dell’Italia fascista non nasce dal caso, è figlio di un’avventura scatenata da Hitler nel 1939 e cavalcata da Mussolini il 10 giugno 1940 con il rauco “Vincere!” urlato da Palazzo Venezia. Il Patto d’Acciaio è dinamite: la guerra che doveva essere lampo durerà una vita, l’Italia imperiale andrà a fondo, l’euforia di oggi sarà la disperazione di domani. “Qualche migliaio di morti per sedermi al tavolo della pace” aveva chiesto cinicamente Mussolini, e mai previsione fu stimata così tragicamente per difetto. Un’avventura che finirà cinque anni dopo con lo squallido epilogo di Piazzale Loreto.

All’alba del 1945 dunque la Repubblica di Mussolini sta morendo bambina. Una repubblica per molte bandiere: quelle dell’onore, della violenza, della pura sopravvivenza. L’ultimo colpo di testa del fascismo; l’ultima spiaggia per uomini senza futuro guidati da un malinconico dittatore. Su Mussolini e sulle sue speranze frustrate tirano folate da viale del tramonto: la Repubblica di Salò infatti porta con sé il proprio destino. Il fascismo ha conosciuto giorni solari, ora si sta facendo sera. “Le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera” cantano i suoi militi, e anche questi versi un po’ sbruffoni sono parole di sconfitta. Niente è più come prima. Hitler sta perdendo una guerra che sembrava già vinta. El Alamein, Stalingrado, Kursk, lo sbarco in Normandia, i sommergibili U-Boote in fondo al mare, la caduta di Roma e di Parigi, il rullo compressore di Stalin, le bombe americane che fanno a pezzi il Reich “millenario” sono i simboli della disfatta tedesca. Nessuno può fermare la ruota che gira. La grande Germania è solo un ricordo e per il piccolo regime fascista, confinato nel cul-de-sac del Garda, inizia una breve, sanguinosa agonia. Li chiameranno i Seicento giorni di Salò.

Maggio 1945, la guerra è finita. Mussolini è morto. Dietro di sé lascia un’Italia prostrata, devastata, un Paese che esce estenuato da una guerra perduta e da una guerra civile crudele. L’ebbrezza della Liberazione dura un attimo, ma al di là delle immancabili delusioni sta nascendo un’Italia nuova che conosce una sofferta normalità, un Paese che pare i resti di una battaglia, un Paese senza epopea e senza retorica. È un’Italia che, tra mille dolori e le colonne crollate della romanità di cartapesta, scopre di non essere popolata di balilla e di camicie nere con il pugnale tra i denti ma di “sciuscià”, di “ladri di biciclette”, di barboni che attendono “il miracolo a Milano”, di contadini affamati di terra, di mondine trasportate nelle risaie su carri bestiame, di milioni di analfabeti. Esce prepotente il Paese reale con i suoi bisogni e le sue esigenze spicciole quotidiane. Un Paese che ricomincia da capo e per cui l’unico investimento possibile è in “speranza”. Ricostruzione è la parola magica di questi primi scampoli di pace. Gli italiani si proiettano verso il domani, scommettono sul futuro.

La ricostruzione si farà in pochi anni, su poche basi: gli aiuti americani, gli investimenti pubblici e privati, la rivoluzione tecnologica, l’apertura dei mercati, la qualità e lo spirito degli imprenditori e dei lavoratori. Incominciano gli anni che Zavattini, De Sica e Rossellini tradurranno in cinema come “pedinamento della realtà” e che Luigi Einaudi chiamerà “della grande speranza”. Nasce così l’Italia di Stalin da una parte e delle Madonne pellegrine dall’altra, l’Italia della doppiezza di Togliatti e della forza della Chiesa, del grande movimento intellettuale che va da Sforza a Garosci, da De Gasperi a Einaudi, da Salvemini a Don Sturzo. L’Italia di Dossetti, di Vanoni, di Saraceno, del giovane Andreotti, del fascino freddo di Pio XII e delle prediche oceaniche di padre Lombardi. L’Italia dei “rossi” e dei “democristi”: quell’Italia sconfitta e povera che, travolta dalla guerra e dall’avventura fascista, vuole risollevarsi dalle miserie e dalla vergogna. L’Italia che, demolito il fascio, cerca altri simboli: le bandiere rosse spiegate al vento e le chiese gremite di gente alla ricerca di elementari protezioni.

Poi verrà il “boom” e sarà un’altra Storia: l’Italia ha un “miracolo” nel cassetto e si tuffa nella grande avventura che trasformerà un popolo povero, arcaico e contadino in una comunità di cittadini, operai, impiegati, automobilisti, vacanzieri e patiti della TV. Pochi anni e ci sarà lavoro per gli uomini di “buona volontà” insieme a paghe decorose, sufficienti per sfamare la famiglia e togliersi qualche piccola soddisfazione. Ci scapperanno la moto, la gita al mare, la cucina nuova e due giorni a Venezia, per godersi finalmente quel viaggio di nozze che, dieci anni prima, sotto le bombe, era rimasto un sogno proibito. Vinta la miseria, gli italiani voltano pagina per scrivere la storia dell’Italia moderna.