La vicenda Moro: i 55 giorni che cambiarono l’Italia.

 

 

L'agguato, la prigionia, la condanna a morte. Tutto in 55 giorni - i più lunghi della storia della Repubblica italiana - che hanno segnato il passaggio tra due epoche e il tramonto di un progetto politico che, forse, avrebbe potuto scrivere un futuro diverso per il Paese.

 

 

Nel panorama dei cosiddetti “anni di piombo” il 1977 aveva segnato una decisa svolta verso lo scontro violento sul piano politico e sociale, combattuto tra i gruppi eversivi di sinistra e di destra e tra questi e le forze dell'ordine. Il 1978 non era iniziato sotto migliori auspici.

Sul piano politico vi era una situazione instabile, che a meno di due anni dalle elezioni aveva già portato alla caduta del governo monocolore della Democrazia Cristiana, guidato da Giulio Andreotti. Di fronte a questa impasse e per dare una risposta convincente al Paese, attraversato da una profonda crisi sociale, il presidente della DC Aldo Moro sostenne l'ipotesi di un governo di “solidarietà nazionale”, con la partecipazione dei comunisti.

Si trattava di un gesto politico di considerevole portata, i cui echi oltrepassarono i confini nazionali. Il PCI del segretario Enrico Berlinguer si diceva pronto al compromesso storico, rivendicando lo strappo con Mosca. Le resistenze però erano forti sia all'interno della DC, sia tra gli alleati internazionali dei due principali partiti italiani.

Da un lato gli USA timorosi che, nell'ottica della guerra fredda, un partito filosovietico al governo avrebbe potuto minare i piani militari della NATO. Dall'altro l'URSS giudicava tale prospettiva una forma di emancipazione dal modello sovietico, in favore di quello americano. In questo quadro destò molti sospetti il coinvolgimento di Moro nello scandalo Lockheed, dal nome dell'azienda americana che ammise di aver pagato tangenti a politici e militari stranieri per vendere a Stati esteri i propri aerei. Tuttavia ne uscì con una piena assoluzione il 3 marzo, tredici giorni prima che accadesse l'irreparabile.

 

La mattina di giovedì 16 marzo 1978 Moro era atteso alla Camera, dove Andreotti avrebbe dovuto presentare il nuovo governo con il sostegno, per la prima volta, dei comunisti. Alle 9 scese dalla sua abitazione romana e salì a bordo della Fiat 130 blu di ordinanza, seguita dall'Alfetta bianca della scorta. Ad attenderlo, all'incrocio tra via Fani e via Stresa, un commando di brigatisti armati di mitragliette automatiche e pronti a far scattare l’agguato.

Bloccando il corteo con due auto all'inizio e alla fine dello stesso, e ostruendo le vie di fuga laterali con altri veicoli parcheggiati, i terroristi entrarono in azione facendo fuoco sulla scorta e sulle due guardie del corpo dell'auto blu. Lo scenario che si parò davanti alle prime persone accorse sul posto era agghiacciante: sulla strada un tappeto di bossoli e sangue, nei due abitacoli crivellati di colpi i corpi senza vita di Domenico Ricci (appuntato dei Carabinieri), Oreste Leonardi (maresciallo dell'Arma), Francesco Zizzi (vice brigadiere di Polizia), Giulio Rivera e Raffaele Jozzino (entrambi agenti di Polizia).

 

Passarono 48 ore prima che le Brigate Rosse rivendicassero l'attentato e il sequestro di Moro, attraverso una foto dello stesso, ritratto con alle spalle la "stella a cinque punte" e un comunicato in cui si annunciava che il presidente della DC sarebbe stato processato da «un tribunale del popolo». La reazione dei cittadini si tradusse in cortei e manifestazioni per gridare il proprio dissenso alla violenza brigatista.

Le istituzioni reagirono approvando una serie di "leggi speciali" volte a dare più poteri alle forze dell'ordine e agli investigatori nell'attività di contrasto al terrorismo. Sul piano politico emersero forti divisioni tra chi era per “trattare” con i sequestratori, come il PSI, e la maggioranza (DC e PCI in testa) che era invece per la “linea della fermezza”. Nonostante il dispiegamento di forze, con migliaia di blocchi stradali e perquisizioni, le indagini sembravano non portare da nessuna parte.

Nei 55 giorni che seguirono ci fu uno stillicidio di comunicati delle BR, ipotesi giornalistiche e polemiche politiche. Il conflitto sociale non si fermò e alcuni episodi lo esacerbarono ulteriormente. Nel frattempo le speranze di vedere liberato Moro si facevano sempre più deboli, nonostante gli accorati appelli di personalità di rilievo mondiale, come Papa Paolo VI e il Presidente degli Stati Uniti d'America Jimmy Carter.

 

Il 6 maggio le BR comunicarono l'esecuzione della condanna a morte. Tre giorni dopo il corpo di Moro fu rinvenuto in via Caetani, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata, simbolicamente, tra via delle Botteghe Oscure e Piazza del Gesù (dove avevano sede rispettivamente il PCI e la DC).

Della strage di via Fani e dell'omicidio Moro furono accusati e processati 14 brigatisti, la maggior parte dei quali oggi è in regime di semilibertà.

Inchieste giornalistiche successive fecero emergere il possibile coinvolgimento nella vicenda di altri soggetti, tra cui la loggia P2, la rete clandestina della NATO e i servizi segreti di diversi paesi. A supportarle gli innumerevoli ritardi e punti oscuri nelle indagini svolte all'epoca dei fatti e alcuni aspetti nella dinamica del sequestro e della prigionia, secondo alcuni, non riconducibili al modus operandi tipico delle Brigate Rosse.

A distanza di oltre 40 anni, “il caso Moro” è ancora aperto.