Luciano Pavarotti

  

 

Ripercorriamo la vita e la carriera del tenore Luciano Pavarotti (1935-2007), conosciuto e apprezzato in tutto il mondo sia per le sue straordinarie qualità vocali che per l’impegno in campo sociale. Il ritratto di un grande artista internazionale. 

 

 

 

Nato a Modena il 12 ottobre del 1935, figlio di Fernando Pavarotti, un fornaio dell’esercito appassionato di canto, e di Adele Venturi, Luciano studia con il tenore Arrigo Pola e il Maestro Ettore Campogalliani. Debutta il 29 aprile 1961 nel ruolo di Rodolfo in “La Boheme”, all’Opera di Reggio Emilia.

Nel febbraio 1965 trionfa negli Stati Uniti, a Miami, con Joan Sutherland, nella “Lucia di Lammermoor”. Ma l’exploit arriva il 17 febbraio 1972 al Metropolitan di New York, dove nella “Fille du Régiment” di Donizetti manda in visibilio il pubblico con nove Do di petto perfetti. Suo il record di 17 chiamate ed ovazioni al sipario. Da allora il suo nome è noto al grande pubblico anche grazie alla televisione.

Negli anni ‘90 Pavarotti cura molto i concerti all’aperto, che si rivelano grandi successi. Ad Hyde Park, a Londra, attira oltre 150.000 persone. Nel giugno 1993 in più di 500.000 si accalcano in Central Park (New York), mentre in milioni lo seguivano in Tv. A settembre dello stesso anno, all’ombra della Torre Eiffel, canta per circa 300.000 persone.

Tra i più famosi i concerti dei “Tre tenori”, con Plácido Domingo e José Carreras. Ma è intensa anche l’attività di organizzatore del “Pavarotti and friends”, con il quale riunisce nella sua città natale, a scopo di beneficenza, le star del pop internazionale.

La carriera di Luciano Pavarotti è stata una delle più lunghe tra quelle dei cantanti lirici, vissuta tutta fuori dal coro, attraverso innovazioni spesso discusse e - come nella migliore tradizione - nella netta divisione tra feroci detrattori e appassionati sostenitori.

Una carriera cominciata nel coro della sua Modena, quando la formazione corale, nella quale militava anche suo padre, vinse un premio internazionale in Galles: Pavarotti capì allora che il canto sarebbe stata la sua scelta di vita.

Di mestiere fa l’insegnante: ma è anche allievo, sotto la guida di Arrigo Pola e di Ettore Campogalliani. Vive quegli anni di formazione nello stesso ambiente di Mirella Freni, con la quale stringerà un duraturo sodalizio artistico. L’anno della svolta arriva nel 1961, quando il ventiseienne Luciano vince il Concorso Internazionale di Reggio Emilia, dove debutta come Rodolfo nella “Boheme”. La sua voce estesa di tenore chiaro, calda e suggestiva nei fraseggi più teneri, scevra dai rischi di “strillo” negli acuti più impegnativi, lo consacra ad un’ascesa che lo porterà in pochi anni nei più grandi teatri del mondo: Opera di Amsterdam, Staatsoper di Vienna, Covent Garden di Londra, Liceu di Barcellona e Festival di Glyndebourne.

Il 1965 è un anno fortunato: il debutto alla Scala in “Boheme” con Mirella Freni e Karajan è un trionfo. E nel ‘67, con la stessa opera, ormai cavallo di battaglia in un repertorio sempre più vasto - che spazierà da “Luisa Miller” a “Rigoletto”, dal “Trovatore” al “Ballo in maschera”, dalla “Gioconda” all’ “Elisir d’amore”, da “Aida” a “Lucia di Lammermoor”, da “Turandot” a “Idomeneo”, da “Ernani” a “Otello” e ai “Pagliacci” -, affronta con identico successo il Metropolitan.

 

Ormai è fatta, e gli anni Settanta sono tutti facili per il cantante che, però, in una hit parade stilata a Londra venti anni più tardi sarà all’11° posto nei gusti dei melomani, dopo Gobbi, Bergonzi e Corelli.

Per Pavarotti, tuttavia, si aprono le porte dei teatri di Europa, Usa e Australia, dove è accolto da caldi consensi. Lo star system della lirica ruota ormai attorno al corpulento tenore modenese, che nel 1982 è protagonista di un film costato 18 milioni di dollari: “Yes, Giorgio”.

Intanto attacca Placido Domingo dalle pagine di Playboy e alla vigilia della prima dà forfait all’Opera di Chicago: un teatro con il quale il cantante italiano avrà un rapporto difficile, segnato da rotture e polemiche e da molte rinunce motivate da problemi di salute.

Nel 1985 rinuncia anche al “Ballo in maschera” a Parigi. E la stessa opera non andrà in scena a Firenze, per uno sciopero che farà arrabbiare Gavazzeni.

La “sua” Scala lo fischia nel 1983 in “Lucia di Lammermoor” e a Salisburgo, per “Idomeneo”, la stampa lo critica perché non adatto a ruoli mozartiani. “Ma - replica - sono il primo italiano che ci ha provato”.

Il teatro milanese lo ritroverà due anni dopo, con uno splendido Radames in “Aida”.

È ancora “Boheme” a portargli fortuna a Pechino nel 1986, e con l’opera pucciniana è ancora festa all’Arena di Verona nell’87.

È a metà degli anni Ottanta che per Pavarotti maturano nuovi orizzonti: lui, al quale viene assegnato il Disco di Platino dopo i due d’Oro, risultato di un indiscusso matrimonio con la Decca, rompe gli schemi e canta “44 gatti” per i 30 anni dello Zecchino d’oro; poi debutta nella regia a Venezia con “La Favorita” di Donizetti.

La grande festa di “Italia 90” per i mondiali di calcio vede la nascita del fenomeno “Tre tenori” che si trasforma in un clamoroso record discografico: a Caracalla con Domingo e Carreras canta arie celebri, ma anche “Cielito lindo”, “La vie en rose” e “O’ sole mio”. La platea è di un miliardo di telespettatori. C’é chi pensa subito di duplicare il fenomenale show: “Non sfidiamo la sorte. Non tutte le ciambelle riescono col buco”, commenta scaramantico Pavarotti, che non si separa mai da un chiodo torto - il suo portafortuna - e lancia un appello pubblico per ritrovare il suo inseparabile foulard Hermes smarrito a Firenze.

I “Tre tenori”, invece, continueranno ad essere uno dei fenomeni musicali e discografici degli anni ‘90, segnando per “Big Luciano” un progressivo allontanamento dall’opera in favore dei recital, dei palasport e dei megaconcerti all’aperto: 150.000 persone sotto la pioggia lo ascoltano a Hyde Park e addirittura saranno mezzo milione, nel ‘93, a Central Park. Lo spettacolo con i due colleghi di lingua spagnola avrà poi diverse repliche, suscitando apprezzamenti e stroncature. “Ma i tre tenori sono un puro fenomeno commerciale - commenterà anni dopo - solo così si può giungere ad avere un miliardo e mezzo di spettatori davanti alla Tv. È questo, e nient’ altro, che vogliamo”.

In teatro torna a Reggio Emilia per festeggiare i 30 anni dal debutto e a New York per “Rigoletto”, dove non gli viene perdonata una clamorosa stecca nella “Donna è mobile”. Poi tutto si alterna, tra vistosi successi all’estero e clamorosi forfait.

Si dedica alla formazione di giovani interpreti e come partners sceglie musicisti e cantanti blues e rock: incide “Miserere” con Zucchero. Su invito della sua amica Diana, principessa di Galles, canta per i bambini malati a Cardiff e, nel 1994, dedica il “Requiem” di Verdi ai morti della strage di via dei Georgofili di Firenze.

Si rafforza l’impegno umanitario a favore dei malati e dei più deboli, e del suo “Pavarotti and friends”: all’insegna della contaminazione musicale sfilano Elton John, Liza Minnelli, Eric Clapton, Ligabue e i Litfiba. Con Michael Jackson fanno a turno: prima il “Peter Pan” americano assiste al suo concerto, poi “Big Luciano” ricambia la cortesia. Con “gioia e serietà” guida una delle giurie del Festival di Sanremo.

Con gli Usa, di gran lunga la piazza più difficile ma anche più lusinghiera, per Pavarotti il rapporto prosegue in modo alterno. Nel 1996 è un successo a New York con “Andrea Chenier”, ma nel 1997 la critica è severa per il “Ballo in maschera”. Due anni prima lo era stato anche il pubblico americano, dopo una stecca mirabolante al primo do di petto nella “Figlia del reggimento”. Alla vigilia aveva annunciato che avrebbe fatto tutti e otto i do di petto racchiusi in 50 battute dell’opera, in risposta a chi sosteneva che era un tenore finito: “O muoio in palcoscenico, o sarà un trionfo”.

Fu invece una debacle che, come in altri casi, Pavarotti ebbe la forza di superare anche con l’arma dell’ironia: “Ho 60 anni e me ne sto in questo albergo, tentando di dimagrire: e questo - confidò ad un giornale tedesco - è un vero fiasco”.

Negli ultimi anni “Big Luciano” ha gustato le gioie di un nuovo amore e di una nuova paternità; ma anche la sofferenza e la delusione per una salute che sempre più spesso gli ha impedito di onorare i suoi impegni artistici.

Nel 2004 è partito da Tokio il suo “giro d’addio”, che è andato avanti per anni e non sempre con il successo sperato. Ma ormai la figura del tenore  apparteneva già alla leggenda.

Si è spento nella “sua” Modena il 6 settembre del 2007.