Sibilla Aleramo 

 

Il 3 novembre del 1906 esce per la casa editrice Sten di Torino il romanzo di Rina Faccio “Una donna”, firmato con lo pseudonimo Sibilla Aleramo, nome che da allora assumerà per sempre. Spregiudicata avventuriera, scrittrice di talento, la Aleramo (1876-1960) ha rappresentato l’emblema novecentesco dell'emancipazione femminile.

 

Il III Municipio di Roma le ha dedicato una via nel quartiere Talenti.

 

Nata ad Alessandria il 14 agosto del 1876 da famiglia piccolo borghese, il suo vero nome è Rina Faccio e il padre un ingegnere, che prima avvia la carriera dell'insegnamento e poi quella commerciale, con un'impresa assai poco redditizia, che comporta il trasferimento a Milano.

Oltre a Rina erano nati altri tre figli, Cora, Jolanda e Aldo, che mettono a dura prova la salute della madre, sognatrice e fragile di nervi (morirà in manicomio), mentre il padre, che la primogenita venera, si darà ad altri amori, avendo cercato miglior fortuna - ma gli esiti sono mediocri - nella direzione di una vetreria di Porto Civitanova. Ed è qui, nella remota provincia marchigiana, che Rina consuma, bruciati anzitempo, i turbamenti dell'adolescenza: la “prima vita”.

Dopo le scuole elementari, frequentate nel capoluogo lombardo, non ha altra guida negli studi se non quella del padre autoritario, ateo e positivista, che tuttavia asseconda la sua nativa curiosità. Legge innumerevoli romanzi senza però diventare né un Don Chisciotte né una Bovary poiché saprà servirsi della cultura come di un'arma e di un'arma più di attacco che di difesa. Quanto le accade avrebbe potuto infatti fare di lei la vittima dell'oppressione maschile, ma Rina, al contrario, alzerà la testa per scegliere liberamente, a ogni costo, il proprio destino.

Appena quindicenne, lavora come contabile nella fabbrica del padre. È bella, vivace, estroversa e ancora ignora il potere di seduzione che esercita sugli uomini quando un impiegato, Ulderico Pierangeli, le usa la violenza che si protrae nel matrimonio riparatore (1893) e nella nascita di un figlio (1895) dato che mai accetterà il ruolo, impostole a forza, di moglie e di madre. È vero che Rina tenta il suicidio, ma la lettura e, ancor più, la scrittura (per il momento un assiduo diarismo) la sorreggono dandole la forza che già si delinea come un vero e proprio potere da sommare a quello seduttivo della sua avvenenza.

Sono gli anni, sullo scorcio dell'Ottocento, del riscatto dei deboli e degli oppressi; gli anni del nascente femminismo di cui diviene subito protagonista. Mette a frutto ciò che ha appreso dall'Europa giovane di Guglielmo Ferrero e dalle Menzogne convenzionali di Max Nordau, e al suo attivo sono i classici oltre a ciò che le giunge d'Oltralpe, da Nietzsche a Ibsen ad Amiel, dalla poesia simbolista alla narrativa postverista. Intitola Riflessioni un quaderno che dovrebbe accogliere null'altro che sfoghi consolatori e invece la scrittrice in erba comincia via via a prescindere dai suoi casi disgraziati per discutere quanto va apprendendo. Viene così delineata la traccia degli articoli che pubblicherà a Milano, dov'è al seguito del marito nel biennio 1898-1900. Comincia ora a collaborare con numerosi periodici fino a dirigerne uno, il settimanale socialista Italia femminile, con instancabile energia.

Firma già prestigiosa, è giunto il tempo, per la venticinquenne, di spezzare la pesante catena coniugale: abbandona il marito e il figlio avventurandosi, come dice, in una “seconda vita”. Il poeta Felice Damiani le ha fatto conoscere il trasporto amoroso e il piacere, ma sarà Giovanni Cena il Pigmaglione dell'esordiente. È lui a suggerirle il nome d'arte che la rende celebre con il primo romanzo, Una donna, steso fra il 1902 e il 1906. La esorta a comporlo sorreggendola pagina dopo pagina, intervenendo nel vivo del racconto autobiografico e imponendole tagli e correzioni. Direttore della Nuova Antologia, con lui Rina si trasferisce a Roma, anche se la convivenza, che dura otto anni, non è per lei un approdo. Quella che ormai tutti conoscono come Sibilla Aleramo subisce - ne è consapevole - una violenza, nella creatività, pari alla violenza un tempo subita nel corpo.

La relazione con Lina Poletti sembra consentirle, una volta licenziato il romanzo, la nuova ribellione che le fa tronca re il legame con l'illustre letterato. Al quale, comunque, molto deve il suo itinerario culturale, sia per gli incontri stimolanti e le intense letture condotte sotto una guida esperta, sia per l'impegno sociale profuso al suo fianco. Combatte l'analfabetismo promuovendo le istituzioni scolastiche nell'Agro romano e nel Mezzogiorno e intensificando su vari giornali gli interventi intorno alla questione femminile.

Con il giovane Vincenzo Cardarelli intreccia il primo di una lunga serie di amori che faranno di lei un Casanova in gonnelle. Passioni brevi e intense, collezionate all'insegna di una vita (è ormai la terza) “inimitabile”, segnata da interlocutori celebri o che lo diverranno: Papini, Boine, Rebora, Boccioni, Franchi, Campana. Alla volubilità erotica si somma quella logistica che induce Sibilla a spostarsi da un luogo all'altro, a suo agio nella Corsica selvaggia, dove compone le prime poesie, come nella Parigi delle avanguardie che le rende onore.

A Firenze è la Musa degli scrittori che si raccolgono intorno alla Voce e inaugura nel 1912 il secondo romanzo - Il passaggio, edito nel 1919 - che integra, sempre in chiave autobiografica, Una donna (risarcisce i tagli imposti a suo tempo da Cena) e lo protrae con la narrazione, indulgente a un lirismo narcisistico, degli incontri più recenti.

È evidente l'influenza di D'Annunzio, che Sibilla ha conosciuto nel 1913 a Parigi, e non tanto per la ricercatezza stilistica che spesso le sfugge di mano; piuttosto è il tentativo di far coincidere arte e vita a condurla sulle orme del vate, come risulta chiaramente in Trasfigurazione, lunga lettera non spedita, indirizzata nel 1914 alla moglie di Papini (in volume nel 1922) per persuaderla a non ostacolare la passione del marito.

Benché resti lontana dall'eccellenza del modello, è forse nei carteggi con gli amanti e nelle note di taccuino che la sua scrittura raggiunge gli esiti migliori.

È il caso di Amo dunque sono (1927), raccolta di lettere, anche queste non spedite, a Guido Parise, o del Frustino (1932), storia della relazione con Boine, e delle note frammentarie del diario ininterrotto che stende di giorno in giorno e che in gran parte resta ancora inedito. E non diversamente da un diario si configurano anche gli articoli che consegna al Tempo, alla Fiera letteraria, al Giornale d'Italia, all'Italia che scrive, a Pegaso, al Popolo di Roma o al Piccolo di Trieste negli anni fra le due guerre (riproposti in Gioie d'occasione del 1930 e Orsa minore del 1938).

Felicissima, la sua vena lirica la segnala fra i poeti più significativi del secolo (Momenti 1921, Poesie 1929, Sì alla terra 1935, Selva d'amore 1947 e Aiutatemi a dire 1951, Luci della mia sera 1956), mentre il tentativo di drammaturgia, i tre atti di Endimione (1923), travestimento mitico, improntato a D'Annunzio e a Maeterlinck, della vicenda amorosa con il giovane Tullio Bozza (atleta olimpionico), morto tragicamente, riscuote successo nella rappresentazione parigina ma non in quella torinese, fischiata al teatro Carignano.

Nuova Alatiel, gli amori innumerevoli le consentono di conservare una sorta di verginità, come appunto la conserva, con sottile ironia, l'eroina della novella di Boccaccio che, non parlando la lingua dei suoi amanti, fa leva su questa diversità per concedere un' “altra” da sé. Così, a ogni incontro, Sibilla rinasce: diviene un' “altra”, capace com'è di azzerare il passato in una sorta di gioco d'azzardo in cui la posta è sempre più alta. E compone il suo gioco metamorfico e ambiguo, che trae le estreme conseguenze dalla «diversità» femminile, anche sul piano ideologico, se si considera che, firmataria nel 1925 del Manifesto crociano degli intellettuali antifascisti, dovrebbe patirne le conseguenze, in termini di emarginazione e di censura, che invece si traducono in una serie di vantaggi.

Poiché conosce Anteo Zaniboni, l'attentatore del duce, verrà persino arrestata, ma poi, messa in atto tutta la sua protervia per ottenere un colloquio con Mussolini, esce da quell'incontro vincitrice. Le viene concesso un mensile di mille lire e un premio di cinquantamila lire dell'Accademia d'Italia. Nel 1933 si iscrive all' “Associazione nazionale fascista donne artiste e laureate” e con Gioie d'occasione, tradotto in quell'anno in francese, vince il Premio Latinità.

Il compromesso con il fascismo non le impedisce di avviare la “quarta vita”, che Sibilla data al 1936, giusto quando compie sessant'anni. È la volta dell'ennesima passione: per Franco Matacotta, poeta ventenne, insieme con il quale avvia, nel dopo guerra, la militanza nelle file del partito comunista: «tutta la mia opera» dice «è stata ispirata dalla fede in un più giusto e più umano avvenire della nostra specie», e insiste sulla sua «visione antica di un mondo in cui ogni persona viva e operosa sarà in grado di sentire l'esistenza e lo stesso lavoro sotto specie di poesia». Scrive per l'Unità e per Noi donne gli articoli che raccoglie nel 1949 in Il Mondo adolescente, mentre si intensifica il diarismo di sempre: Diario di una donna. Inediti 1945-1960 esce postumo nel 1978 integrando Dal mio diario (1940-1944) edito nel 1945.

Negli ultimi anni Sibilla non si risparmia. Continua a scrivere e soprattutto a parlare in pubblico per onorare con l'intensa propaganda la sua nuova militanza. Il femminismo di un tempo diviene ora il vagheggiamento di un matriarcato che renda giustizia alle donne, quella giustizia che Sibilla è riuscita a ottenere facendo di sé un'eccezione. Più visionaria che profetessa, come vorrebbe il suo nome d'arte, ha coltivato in primo luogo il proprio mito, via per lei obbligata se l'obiettivo era quello di affrancarsi dal ruolo subalterno a cui il suo sesso l'avrebbe destinata.

Si spegne a Roma, ottantaquattrenne, il 13 gennaio del 1960.