Storia della scuola in Italia

     

 

Nel 1861 l’Italia è finalmente una nazione, ma il 70 % dei suoi cittadini sono analfabeti.

In cinquant’anni l’analfabetismo scende al 46%: gli alunni, appena dodicimila nel 1871, sono già ventisettemila trent’anni dopo.

Oggi l’analfabetismo si attesta a meno del 2%. 

 

 

Il primo provvedimento legislativo che istituisce l’obbligo scolastico è rappresentato dall’estensione al Regno d’Italia del decreto promulgato dal Regno di Sardegna il 13 novembre 1859, su iniziativa del Ministro Gabrio Casati. La legge prevede l’obbligatorietà e la gratuità delle prime due classi del biennio elementare. Tuttavia, pur trattandosi di una legge avanzata, rimane largamente inapplicata per la mancanza di insegnanti e di scuole sul territorio nazionale.

La legge Casati rimane in vigore, salvo lievi modifiche, fino al 1923, quando verrà varata la riforma Gentile. I primi programmi scolastici vengono approvati dal Ministro Mamiani nel 1860: includono la religione fra le materie fondamentali e si propongono di assicurare un’alfabetizzazione culturale di base per tutta la popolazione. Nel 1867 i programmi subiscono una prima revisione che riflette una profonda crisi fra Stato e Chiesa: diminuisce lo spazio dedicato alla religione a favore dell’educazione civica.

Nel 1877 la legge Coppino ribadisce l’obbligo dell’istruzione elementare già sancito dalla legge Casati, specificando anche le sanzioni che colpiscono gli inadempienti. Si stabilisce l’obbligo scolastico dai 6 ai 9 anni d’età. La durata della scuola elementare viene fissata in cinque anni. In questo periodo l’istruzione elementare è a carico dei Comuni. Nel 1911 con la legge Daneo-Credarole le scuole elementari passeranno al controllo Statale.

Fino agli inizi del Novecento la cultura educativa italiana è sostanzialmente simile a quella del resto d’Europa, figlia di quel principio introdotto dalla Rivoluzione Francese secondo cui il cittadino è parte attiva della nazione, e perché lo sia ci deve essere uguaglianza anche nel livello di istruzione.

La scuola dell’obbligo viene realizzata anche perché lo sviluppo dell’industrializzazione richiede personale che sappia manovrare macchine utensili per le quali è necessario un grado minimo di istruzione. Nel 1910 diventa poi vincolante per legge la notazione dell’adempimento dell’obbligo scolastico sul libretto di lavoro per poter assumere un minore.

 

La riforma Gentile (1923). Il Ministro della Pubblica Istruzione del primo governo Mussolini è il filosofo Giovanni Gentile. Rimane in carica dal 31 ottobre 1922 al 1 luglio 1924: in questi venti mesi trasforma radicalmente tutta la scuola italiana. Per descrivere la riforma scolastica di Gentile si usa l’espressione “sistema scolastico a canne d’organo”: scuole parallele separate tra loro con indirizzi separati, di lunghezza diversa, non comunicanti tra loro, con una tendenziale corrispondenza tra indirizzo di scuola e un certo ceto sociale.

La riforma fu varata con la legge n. 3126 del 31 dicembre 1923. L’insieme della riforma privilegia il liceo classico: ma non il liceo ottocentesco di tipo classico letterario, quello di Gentile è un liceo storico e filosofico con una forte svalutazione degli indirizzi scientifici. Un liceo in cui si insegnano la storia e la filosofia e in cui si formano i figli della classe dirigente del Paese. Soltanto il classico dà infatti libero accesso a tutte le facoltà universitarie, mentre i diplomati del liceo scientifico sono esclusi dalle facoltà di Lettere e Filosofia e di Giurisprudenza e l’istituto magistrale dà accesso solo a Magistero (scuola superiore ancora non del tutto universitaria). Vengono anche istituiti due canali scolastici senza sbocco: la scuola complementare, destinata ai “modesti cittadini”, e il liceo femminile, destinato a ragazze “senza particolari ambizioni”.

La riforma Gentile introduce una fortissima selezione, sia per il numero di esami - ogni segmento scolastico si apre con un esame di ammissione e uno conclusivo - sia per la riduzione di certi tipi di scuole sul territorio così da renderne difficile la frequenza. La riforma prevede anche l’obbligo a 14 anni di età, sancito soprattutto per aderire ad una convenzione internazionale firmata dall’Italia qualche anno prima, ma in realtà rimase lettera morta per la maggioranza degli italiani fino al 1962-63, quando fu istituita la scuola media unica.

Nel 1928 il ministro Giuseppe Belluzzo con il Testo Unico n. 577 istituisce la Scuola di avviamento professionale al posto dei corsi post-elementari e la scuola complementare.

 

Il libro unico per le scuole elementari (1928). Una tappa importante nel percorso di “fascistizzazione” dello Stato italiano è l’imposizione del “libro unico” per l’insegnamento elementare; approvato dal governo il primo novembre del 1928, a partire dall’anno scolastico 1930-31, diviene obbligatorio anche nelle scuole private. Lo scopo del libro unico deve essere l’indottrinamento fin dalla più tenera età del fanciullo frequentante una scuola in cui la competenza del Ministero dell’Educazione Nazionale (questo il nuovo nome del ministero della Pubblica Istruzione) si intreccia con quello dell’Opera Nazionale Balilla, l’ente preposto all’educazione fascista della gioventù. Nel 1935, quando diviene Ministro dell’Educazione Nazionale Cesare Maria De Vecchi, viene introdotta una nuova materia obbligatoria in tutte le scuole secondarie, inferiori e superiori: la “cultura militare”. Trenta ore di insegnamento all’anno, impartite da ufficiali della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, per forgiare lo spirito guerriero. Fra il ‘36 e il ‘38 vengono pubblicati da Mondadori “Il primo e il secondo libro del fascista”: un vero e proprio catechismo politico per le scuole elementari e medie. Il primo elenca tutto ciò che un bambino deve sapere sulla storia e le istituzioni del regime; il secondo si concentra sull’ordinamento razzista. Sullo schema dei formulari del catechismo cattolico, una comunicazione semplice e autoritaria organizza dunque il consenso popolare di massa secondo un modello fideistico-dogmatico.

 

La Carta della scuola (1939). La riforma Gentile non fu comunque particolarmente amata dai fascisti per il suo carattere fortemente selettivo ed elitario che escludeva la media e la piccola borghesia. E soprattutto perché si riteneva che fosse una riforma di matrice liberale e che quindi avrebbe rallentato il processo di “fascistizzazione” della società e dello Stato. Intanto le leggi razziali del 1938 hanno allontanato dalla scuola tutti gli studenti di origine ebraica e inasprito i controlli sui libri di testo. È Giuseppe Bottai l’autore di una riforma della scuola davvero fascista. Nel 1939, quando era Ministro da già due anni, Bottai presenta a Mussolini e al Gran consiglio del fascismo la Carta della Scuola, un vero e proprio piano regolatore del sistema scolastico. Insieme alla “Carta del lavoro” e alla “Carta della Razza” doveva essere uno dei documenti fondamentali su cui si doveva fondare il modello sociale fascista. La principale novità rispetto al sistema gentiliano è l’introduzione di nuove scuole. Al biennio superiore della scuola elementare viene cambiato nome in “Scuola del lavoro”. La scuola media invece prevede tre filoni:1) la scuola professionale per chi era destinato ad essere inserito nel ceto impiegatizio; 2) la scuola artigiana per gli alunni dagli 11 ai 14 anni, destinata ai bambini provenienti dalle classi operaia e contadina; 3) l’istituzione della scuola media con l’insegnamento del latino, per chi doveva essere avviato agli studi superiori.

Il progetto di Bottai prevede anche l’equiparazione tra liceo classico e scientifico. Anche a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale, i principi espressi nella Carta rimasero largamente inattuati, ad eccezione della legge del 1940 che creava la Scuola media triennale, unificando i corsi inferiori dei Licei, degli Istituti Tecnici e degli Istituti Magistrali, ma lasciando permanere un secondo canale costituito dalla Scuola di Avviamento professionale.

 

Il secondo dopoguerra. Negli anni tra il 1943 e il 1945 non esiste sul territorio italiano una sola autorità per il sistema scolastico: abbiamo il Regno d’Italia al Centro Sud, con il suo ministro dell’Istruzione ma anche la Commissione Alleata di Controllo del colonnello Washburne; al Nord coesiste la Repubblica Sociale Italiana che ha il suo ministro dell’Educazione Nazionale. Nella seconda metà degli anni Quaranta, con una serie di provvedimenti rimasero in vita la legislazione gentiliana e quella di Bottai, e si venne a delineare un’architettura scolastica ibrida. La scuola elementare tornava ad essere secondo il modello strutturale di Gentile ma con programmi dettati dalla Commissione Alleata di Washburne, che rimasero in vigore dal 1945 al 1955. I programmi del 1955 si occuparono anche di scuole post-elementari (classi VI, VII e VIII), giuridicamente inesistenti ma di fatto promosse dai ministri democristiani dell’epoca. La scuola secondaria inferiore rimase sostanzialmente quella delineata dalla riforma Bottai, con una scuola d’avviamento triennale senza sbocchi, l’istituzione di una scuola d’arte ugualmente triennale e senza sbocchi e una scuola media che dava accesso alla secondaria superiore.

 

La Costituente. La scuola è uno dei temi più importante all’interno dell’Assemblea Costituente. Gli schieramenti in campo vedono da una parte i cattolici, forti della tradizione millenaria educativa della Chiesa, e dall’altra il partito comunista che vuole prolungare l’obbligo scolastico, difendere la scuola pubblica e favorire la presenza dello Stato anche negli istituti privati.

Il punto di scontro più accesso è sul finanziamento della scuola privata, ma a sorpresa l’educazione religiosa e l’obbligo scolastico non danno adito a nessun contrasto. La sintesi finisce negli articoli 33 e 34 della Costituzione che prevedono l’obbligo scolastico e la parità tra scuola pubblica e privata senza che quest’ultima debba avere contributi dallo Stato.

La Costituzione prevede poi una selezione basata sul merito, e non più di censo. In sintesi la legislazione scolastica italiana si fonda sugli articoli 30, 33, 34 e 38 che fissano i principi secondo i quali deve orientarsi l’attività legislativa.

 

Nel 1951, l’analfabetismo in Italia è ancora un grave problema a quota 13%, contro il 4% della Francia, il 2% della Gran Bretagna, l’1% della Germania. Nel 1955 la scuola elementare viene dotata di nuovo programmi maggiormente ispirati al cattolicesimo. L’educazione religiosa diventa fondamento e coronamento di tutta l’istruzione elementare. Per la maggior parte degli alunni l’orario scolastico inizia e finisce con una preghiera. Vengono istituiti corsi di cultura popolare sia per gli analfabeti veri e propri, sia per chi vuole conseguire una licenza d’istruzione; ma dalla fine degli anni Cinquanta in poi con lo sviluppo della televisione e del costume, l’istruzione popolare comincia a decollare. Nel 1951 il ministro Gonnella istituisce una commissione nazionale con il compito di riformare la scuola. È il primo tentativo di modifica dopo la riforma Gentile del 1923 e la carta della scuola di Bottai del 1939.

 

La scuola media unica (1962). La riforma della scuola media viene approvata nel dicembre del 1962 dal primo governo di centro-sinistra. Viene istituita la scuola media unica obbligatoria e gratuita, anche se con compromessi riguardanti lo studio del latino, facoltativo nella terza classe, ma che consente di accedere al ginnasio-liceo. Il problema fu risolto solo dopo 15 anni, nel 1977, quando il latino fu definitivamente soppresso dal piano di studio della scuola media. Ulteriore novità della legge fu l’introduzione del dopo-scuola a carico dello Stato e non dei Patronati scolastici. La scuola secondaria superiore rimase sostanzialmente quella che era, con gli Istituti d’Arte immessi nel sistema secondario superiore e con delle parziali revisioni degli accessi all’Università, liberalizzati rispetto alla situazione precedente. È una delle riforme più importanti della scuola nel dopoguerra perché innalza l’obbligo scolastico e unifica in un’unica scuola tutte le scuole post-elementari precedenti. Una scuola comune a tutti gli ordini, al fine di evitare una scelta precoce al termine della quinta elementare.

 

La televisione. A cambiare tutto arrivano l’automobile e il televisore. Questi strumenti più di altri cambieranno l'Italia. Quando la Rai inizia le sue trasmissioni (3 gennaio 1954) gli abbonati sono solo ottantottomila; nel giro di quattro anni saranno più di un milione. La televisione è un monopolio dello Stato e diventa in breve uno strumento straordinario di unificazione linguistica del Paese, specie per i ceti meno istruiti, contribuendo alla diffusione di una lingua media, un compito che la scuola non è riuscita a realizzare. Già agli inizi degli anni Sessanta la televisione è così popolare e diffusa in Italia che il Ministero della Pubblica Istruzione decide di utilizzarla per supplire alle carenze del sistema scolastico. Nasce Telescuola (1954) per tutti coloro che, per mancanza di scuole secondarie nei luoghi di residenza, sono stati costretti a interrompere gli studi dopo la quinta classe elementare. Grazie a Telescuola gli studenti possono inviare gli elaborati a una commissione e dopo un esame conseguire un diploma di scuola media. La diffusione degli apparecchi televisivi non è ancora capillare. Per ovviare a questo problema e al contempo per creare un supporto di mediazione tra le videolezioni e gli studenti, vengono istituiti 1.626 posti di ascolto di telescuola (PAT) in cui un coordinatore segue e supporta lo svolgimento delle lezioni via etere. Accanto a Telescuola arriva il successo di un programma televisivo come “Non è mai troppo tardi”, con l’indimenticabile maestro Manzi che offre corsi di istruzione popolare per adulti analfabeti. Il successo e l’efficacia di questo programma sono straordinari. Nel 1968 la trasmissione viene sospesa in quanto è notevolmente aumentata, rispetto a otto anni prima, la frequenza alla scuola dell’obbligo.

 

La scuola materna. Negli anni Sessanta la scuola materna riceve una nuova attenzione come periodo che deve avviare il primo processo di crescita e di scolarizzazione del bambino. La scuola materna non è considerata una scuola vera e propria: per molti è una custodia, un’assistenza.

Il più delle volte si trova all’interno di strutture private: enti morali e religiosi. Le scuole materne sono più presenti nell’Italia settentrionale che al sud. Quanto al modello pedagogico il riferimento è a nomi illustri: Ferrante Aporti, le sorelle Agazzi, Maria Montessori.

La scuola materna deve essere il primo momento di socializzazione e scolarizzazione, ma i cattolici sono contrari a una scuola materna gestita dallo Stato.

Nel dicembre del 1964 il secondo governo Moro presenta un disegno di legge sull’istituzione della scuole materne, ma le posizioni in campo sono talmente contrastanti da sfociare in una crisi politica. Il testo ripresentato nel maggio del 1966 verrà approvato soltanto due anni più tardi; è la legge 444 del marzo 1968, una legge che non indica programmi ma orientamenti quasi a ribadire che la scuola dell’infanzia non è una scuola vera e propria. Ma grazie a questa legge oggi gli istituti cattolici e laici possono occuparsi dell’istruzione dell’infanzia in modo più compiuto.

L’educazione dell’infanzia da marginale diventa centrale e le scuole materne dell’Emilia e della Toscana diventano modelli non solo per il resto dell’Italia ma del mondo intero.

 

E allora...non resta che augurare buona scuola a tutti!