Uomini e fabbriche

 

 

 

Quale destino per la classe operaia?

 

 

 

 

 

 

Nel 1994 la sociologa Nicoletta Bosco ha scritto: “Negli anni Ottanta l’attenzione rivolta alla classe operaia registra una parabola discendente. Diminuiscono gli operai dell’industria, tradizionalmente ritenuti per definizione la “classe operaia”. Al tempo stesso resta difficile definire i caratteri di categorie come i lavoratori precari o gli operai del terziario”[1]. Ha poi aggiunto: “Ma oggi, al di là delle letture ideologiche, quali sono i contorni di questa classe che si trasforma in un contesto di profonda recessione nazionale ed internazionale?”[2].

Sono passati oltre vent’anni, tuttavia la domanda è ancora pertinente. La risposta la troviamo sulle prime pagine dei quotidiani: oggi infatti è la cronaca a dirci che la classe operaia “esiste”, perché degli operai si parla quando muoiono sul lavoro, o quando il lavoro lo perdono. E in Italia ne muoiono tanti, uccisi da condizioni professionali spesso fuori da ogni regola.

Eppure gli operai sono portatori, nel tempo, di una delle più grandi storie di vita del nostro Paese. Una storia di povertà, sacrificio, emigrazione, speranza, miseria, che si fa negli anni orgoglio di appartenere ad un anello fondamentale del sistema produttivo italiano.

Ricordarli vuol dire rendere omaggio al loro lavoro, ai loro gesti. Un mosaico di voci, di dialetti, un ritratto della grande e della piccola fabbrica che ci restituisce al tempo stesso una fotografia dell’Italia. Una storia che inizia dai cancelli di una delle tante fabbriche degli anni Cinquanta.

Il quadro è pressoché invariato. Dietro il portone una massa di lavoratori si prepara ad entrare, alcuni a piedi, altri trascinando una bicicletta o un motorino. È da queste fabbriche dell’immediato dopoguerra che dovrebbe iniziare un viaggio attraverso la “coscienza operaia” del Novecento, per comprenderne tutte le trasformazioni: dall’Italia contadina a quella del “miracolo economico”, per arrivare alla più stretta e complessa attualità.

 

Le preziose immagini d’archivio - trasmesse purtroppo raramente dalle reti nazionali - ci raccontano i passaggi fondamentali della politicizzazione degli operai, che si accompagna alla consapevolezza della propria condizione di sfruttati.

Si susseguono pertanto senza soluzione di continuità le lotte sindacali e gli scioperi: dal cosiddetto “autunno caldo” del 1969 ai 35 giorni di sciopero serrato alla FIAT del 1980 (10 settembre - 14 ottobre), durante il quale fulcro della protesta diventano i cancelli dei “nevralgici” stabilimenti di Mirafiori.

Ma proprio dagli anni Ottanta, dalla storica “marcia dei quarantamila” che attraversa silenziosamente le vie di Torino il 14 ottobre ‘80, ponendo fine a quell’acuto conflitto sindacale, sugli operai si spengono i riflettori. La classe operaia perde improvvisamente la centralità politica e di conseguenza crolla nei suoi confronti l’attenzione dell’opinione pubblica e degli scienziati sociali. Al punto che nel 1988 un libro sugli operai FIAT come sottotitolo recita: “Viaggio all’interno della FIAT. La vita, le case, le fabbriche di una classe che non c’è più”[3].

Ci auguriamo, invece, che la classe operaia continui ad esistere e che ricominci a far sentire la propria voce, perché il ruolo degli operai all’interno del sistema capitalistico rappresenta, oggi più che mai, una sfida cruciale della modernità.  

 


[1] N. Bosco, Dove va la classe operaia, in P. Ginsborg (a cura di), Lo Stato dell'Italia, Il Saggiatore, Mondadori, Milano,1994.

[2] Ibidem.

[3] G. Lerner, Operai. Viaggio all’interno della FIAT. La vita, le case, le fabbriche di  una classe che non c’è più, Feltrinelli, Milano 1988. Nuova ed. Feltrinelli, Universale economica, Milano, 2010.