Vajont

 

Alle 22.39 di mercoledì 9 ottobre 1963 una spaventosa frana precipita nel bacino della diga del Vajont. La diga resiste all’onda d’urto della frana, ma un’ondata di cento metri tracima e si riversa nella valle. I centri abitati di Longarone, Erto e Casso vengono spazzati via. Quasi 2000 le vittime. 

 

La storia del Vajont è quella di una “tragedia annunciata”. Quella diga era stata voluta dal conte Volpi di Misurata, ex ministro fascista, fondatore e presidente della SADE, Società Adriatica per l’Energia Elettrica, uno dei monopoli elettrici più potenti dell’epoca.

Nel 1940 vengono effettuati i primi sopralluoghi dal geologo Giorgio Dal Piaz e dal progettista Carlo Semenza, che individuano nella valle del Vajont (nel bellunese) il luogo più adatto per costruire la diga più alta del mondo.

I controlli geologici iniziano nel 1949 e con essi i primi atti di protesta delle amministrazioni coinvolte dal progetto: la costruzione della diga, infatti, avrebbe provocato l’esproprio di case e terreni degli abitanti della valle.

Nonostante le proteste e i forti dubbi degli organi preposti al controllo del progetto, i lavori per la costruzione della diga iniziano nel 1956 senza l’effettiva autorizzazione ministeriale.

A lavori iniziati si producono alcune scosse sismiche: la SADE fa effettuare ulteriori rilievi geologici, rilevando la pericolosità dell’impianto e il rischio di slittamento del terreno verso il bacino artificiale formato dalla diga. Nonostante ciò, la SADE non invierà mai i rapporti di questi rilievi agli organi di controllo.

I lavori continuano e il 4 novembre del 1960 si produce la prima frana: 700 mila metri cubi di terra e roccia franano nel bacino.

Dopo la prima frana viene commissionata all’Istituto di Idraulica e Costruzioni Idrauliche dell’Università di Padova una simulazione del disastro. Lo studio riproduce in scala una possibile frana di 40 milioni di metri cubi di ghiaia. In base a questa approssimativa simulazione si determina l’innalzamento del livello dell’invaso a quota 700 metri.

Dal 1961 al 1963 vengono praticate varie modifiche del livello dell’invaso per limitare il più possibile le possibilità di smottamento del terreno circostante la diga: il 4 settembre 1963 il livello della diga tocca quota 710.

Si decide di andare avanti. Con il consenso degli apparati statali, con la complicità di una scienza assoggettata, con il compromesso del potere politico. Si decide di correre un rischio annunciato: fino alla tragica sera di quel 9 ottobre 1963.

Tre giorni dopo il disastro, il Ministro dei Lavori Pubblici, in accordo con il Presidente del Consiglio, nomina la Commissione di inchiesta sulla sciagura che si insedia il 14 ottobre. Suo compito è quello di accertare le cause, prossime e remote, che hanno determinato la catastrofe. La Commissione finirà il suo lavoro tre mesi dopo.

L’ing. Pancini - uno degli imputati - si suicida  il 28 novembre 1963, alla vigilia del processo.

Il giorno dopo inizia dunque il Processo di Primo Grado, che si celebra a L’Aquila e che si conclude il 17 dicembre del 1969 con una condanna a 21 anni di reclusione per tutti gli imputati coinvolti, per “disastro colposo” ed “omicidio plurimo aggravato”.

Nell’elenco spuntano: il direttore del servizio costruzioni della SADE, il direttore dell’Ufficio Lavori del cantiere del Vajont, l’ingegnere capo del Genio Civile di Belluno, il direttore generale ENEL-SADE, il direttore dell’Istituto di Idraulica della facoltà di Ingegneria dell’Università di Padova, in qualità di esperto idraulico e di consulente della SADE, i componenti della Commissione di collaudo della diga del Vajont, già appartenenti al Consiglio Superiore del Ministero dei Lavori Pubblici.

Il 26 luglio 1970 si tiene all’Aquila il Processo d’Appello: la pena verrà ridotta, ed alcuni imputati saranno assolti per “insufficienza di prove”.  

Tra il 15 e il 25 marzo del 1971 si svolge a Roma il Processo di Cassazione: ad appena 15 giorni dalla prescrizione il verdetto rimane pressoché invariato.

Il 16 dicembre 1975 la Corte d’Appello dell’Aquila rigetta la richiesta del Comune di Longarone di rivalersi in solido contro la Montedison, società in cui è confluita la SADE, condannando l’ENEL al risarcimento dei danni subiti dalle pubbliche amministrazioni, condannate a pagare le spese processuali alla Montedison.

Sette anni dopo, il 3 dicembre 1982, la Corte d’Appello di Firenze ribalta la sentenza precedente, condannando in solido ENEL e Montedison al risarcimento dei danni sofferti dallo Stato, e la Montedison per i danni subiti dal Comune di Longarone.

Il ricorso della Montedison non si fa attendere, ma il 17 dicembre del 1986 la Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso alla sentenza del 1982.

Infine, il 15 febbraio 1997 il Tribunale Civile e Penale di Belluno condanna la Montedison a risarcire i danni subiti dal Comune di Longarone per un ammontare di lire 55.645.758.500, comprensive dei danni patrimoniali, extra-patrimoniali e morali, oltre a lire 526.546.800 per spese di liti ed onorari e lire 160.325.530 per altre spese.

La sentenza ha carattere immediatamente esecutivo.

Nello stesso anno viene rigettato il ricorso dell’ENEL nei confronti del Comune di Erto-Casso e del neonato Comune di Vajont, obbligando così l’ENEL al risarcimento dei danni subiti, che verranno quantificati dal Tribunale Civile e Penale di Belluno in lire 480.990.500 per beni patrimoniali e demaniali perduti; lire 500.000.000 per danno patrimoniale conseguente alla perdita parziale della popolazione e conseguenti attività; lire 500.000.000 per danno ambientale ed ecologico. La rivalutazione delle cifre raggiunge così il valore di circa 22 miliardi di lire.