Elsa Morante

  

 

 

Il 25 novembre del 1985 moriva a Roma la scrittrice Elsa Morante, autrice di “L’isola di Arturo” e “Menzogna e sortilegio”. Nata nell’agosto del 1912, era stata sposata con Alberto Moravia. 

 

 

 

 

 

Elsa nasce a Roma il 18 agosto del 1912. La madre, Irma Poggibonsi, è ebrea, maestra elementare come la Ida Ramundo della “Storia”il padre, quello vero, è Francesco Lo Monaco, padre anche dei figli che seguiranno (Aldo, Marcello, Maria; il primogenito, Mario, muore neonato). Augusto Morante, il marito di Irma, che lavora in un riformatorio per minorenni, ai figli ha dato solo il cognome. Su questa ambigua situazione la scrittrice ha alzato, con una frase piena di pudore, una barricata difensiva: “Mia madre è stata la più casta delle donne”.

Essendo un pò anemica, a 6 anni va a vivere presso la sua madrina. Nella bella villa di Donna Maria Guerrieri Gonzaga Maraini la piccola Elsa sviluppa un rapporto di amore e odio, di umiliata ammirazione, per quelli che lei chiama “i patrizi”. E anni dopo, per descrivere gli effetti di quella convivenza sulla sua anima bambina, dirà: “L’anima mia era una cosa grossa e nera, piena di occhi curiosi e di tortuosi, cupi vicoli. Era un mostro ipocrita e spietato”.

Dopo il liceo classico, Elsa si iscrive all’Università, che interromperà presto, e va a vivere da sola. Si mantiene con una furiosa attività di scribacchina: scrive, scrive indefessamente, come del resto ha fatto fin da piccola, articoli, racconti, fiabe, tesi di laurea.

Nel 1936 incontra Alberto Moravia, e l’anno successivo ha inizio la loro lunga storia: dopo una serata al ristorante con amici, lei lo saluta mettendogli nelle mani le proprie chiavi di casa. È un gesto forte, una consegna di sé; ma l’amore di Moravia non corrisponderà mai ai desideri totalizzanti di Elsa. “Non ero innamorato, ma affascinato da qualcosa di estremo, di straziante, di passionale che c’era nel suo carattere. Diciamo la verità, io non provavo un violento desiderio per lei”.

Elsa aveva allora un corpo slanciato ed elegante, e una faccetta piena, dal broncio un pò infantile, sotto una massa di capelli precocemente imbiancati. Eppure, in modo selvatico e pieno di grazia ombrosa, la Morante era bella.

Il matrimonio con Moravia, celebrato con rito religioso nel 1941, la mette al riparo dal bisogno; e infatti, da quella data la Morante di colpo smette di scrivere per giornali e riviste, e si abbandona con intensità quasi esclusiva alla sua vocazione di romanziere.

 

In un’intervista confesserà: “Io volevo scrivere l’ultimo romanzo possibile, l’ultimo romanzo della terra”.

Ma il tema che torna, sotterraneo e centrale, di libro in libro, è quello della maternità. Da figlia, lei che mai è stata madre, ha svelato con teatralità qual è l’unica perfetta felicità concessa in terra agli umani, la beatitudine fusionale in cui ci culliamo, bambini, prima di sapere che siamo soli, smarriti nel mondo. Da quella breve parentesi di felicità ignara scaturisce anche tutto il nero, l’ostinata ricerca di quell’ora perduta e sempre reinventata, il dolore del sé, l’orrore dello specchio che ci rimanda un’immagine solitaria, vile e inadeguata perché mai abbastanza amata; e il desiderio insaziato che si nutre di illusioni, di menzogne, rifiutando la miseria del reale.

“Menzogna e sortilegio”sorprendente romanzo che sembra nato antico, incollocabile per la critica (uscì nel 1948, in pieno neorealismo) è la saga di una famiglia piccolo-borghese i cui furori snobistici slittano dal travisamento consapevole dei fatti, fino alla inconsapevole follia. Edoardo, il cugino nobile, di irresistibile e capricciosa bellezza, il cui destino è la morte precoce, è una di quelle figure maschili morantiane dal fascino efebico, che non si possono raggiungere, per cui si può solo spasimare in solitudine.

 

Con la sua capacità di riempire di sé i propri libri senza mai raccontarsi direttamente, la Morante ha adombrato in questi personaggi la sua identificazione impossibile con il “fanciullo divino”, e i suoi impossibili innamoramenti per Luchino Visconti o l’artista americano Bill Morrow.

A lungo Elsa subì una doppia e opposta attrazione per una femminilità primitiva, puerile e materna, portatrice di forme arcaiche di inculturazione e di civiltà, e la grazia leggera, acerba e libera (libera dalla schiavitù tutta femminile del corpo) dei giovani maschi, adolescenti o poco più, di ambigua leggiadria. Il culmine felice di questa duplice fascinazione è segnato da “L’isola di Arturo”, con cui nel 1957 vince il Premio Strega.

L’isola è un radioso punto di equilibrio, oltre il quale il mondo narrativo morantiano si incrina e si scompone, conosce il degrado di un’età adulta che può essere solo dolorosa, perché, come è scritto nella Dedica iniziale, “fuori del limbo non v'è eliso”.

Nel 1962 Bill Morrow muore precipitando dalla finestra di un grattacielo di New York, Alberto Moravia va a vivere con Dacia Maraini, ed Elsa compie cinquant’anni. La tragedia, l’improvvisa solitudine, l’incombente maturità, aprono un processo che Cesare Garboli ha descritto con illuminante acutezza in un saggio ripubblicato nella raccolta “Il gioco segreto”: “Elsa cominciò allora, o subito dopo, a cambiare, subendo una metamorfosi anche fisica. Sembrava invasa da una forza estranea al suo corpo e contraria, ostile anche alla sua anima. Si può invecchiare restando uguali o simili a se stessi; ma Elsa non ebbe questo non so se privilegio o destino comune: diventò un’altra persona; e smarrì, o uccise in sé, la gioia della sua grazia”.

Già nel “Mondo salvato dai ragazzini”che esce nel fatidico 1968, in empatica (ma distante) coincidenza con l’utopia sovversiva degli studenti, circola, anche nell’apparente levità di alcuni tra i testi che compongono il volume, un’aria amara. I ragazzini chiamati a salvare il mondo sono i “Felici Pochi”, innocenti di pasoliniana inconsapevolezza. Sono coloro a cui l’eterna adolescenza, la semplicità d’animo, negano ogni possibile realismo d’accatto, ogni mercimonio con il potere, coloro il cui sguardo resta sempre capace di incanto. È questa la natura anche dei protagonisti-vittime della “Storia”che esce nel 1974.

Anche questo romanzo viene pubblicato, come tutti gli altri, da Einaudi, ma subito nella collana economica “Gli struzzi”. È l’autrice a volere fortemente che il libro non segua il solito percorso editoriale, ma si ponga con immediatezza come un’azione politica, uno squillo di tromba, un appello diretto ai lettori. Ne segue un diffuso malinteso interpretativo per cui, come scrive ancora Garboli, “la figura e la persona della Morante si è venuta fissando nello stereotipo del grande narratore morale, con tratti di maestà ed autorevolezza quasi di maestro e di vate, infagottato in lane e scialli da contadina”. A delineare questa immagine contribuisce il ritratto abbozzato da Pasolini, ma soprattutto l’idea del pubblico, che ormai riconosce nella scrittrice colei che ha denunciato “lo scandalo che dura da diecimila anni”, la storia.

In realtà il libro non parla di storia ma di natura; non di responsabilità ma di inconsapevolezza. La potenza materna regredisce rispetto al romanzo precedente; lo scandalo è l’assenza di pietà che distrugge le relazioni naturali, e che è insito nella costituzione di ogni potere.

Il libro, mal digerito dalla critica, diventa, con il suo enorme successo, un caso editoriale, oggetto di accese discussioni politiche forse più che letterarie. Siamo nel pieno degli anni Settanta: gli intellettuali marxisti, pochissimo convinti, storcono il naso, ma i lettori si commuovono, partecipano, se ne infischiano della correttezza ideologica della Morante, e scrivono alle redazioni dei quotidiani più politicizzati accorate lettere in sostegno dell’amato romanzo.

Intanto, la Morante, dopo un breve viaggio in Andalusia, comincia a scrivere “Aracoeli”, che uscirà nel 1982.  

Una sera del 1980, mentre è a cena con alcuni amici, cade e si rompe il femore. Il processo che stravolge e mina il fisico della scrittrice ha un punto di non ritorno: da questo momento si trascinerà da una clinica a un’altra, con brevi e talvolta insostenibili ritorni a casa, tra ricadute ed effimeri momenti di ripresa, operazioni chirurgiche e cure mediche.

 

Due anni dopo cerca di uccidersi con il gas e i barbiturici, oppressa dall’invalidità che la costringe a letto e le rende penosi i più semplici gesti quotidiani; la salva, con sensitivo tempismo, la domestica Lucia Mansi.

Elsa passerà i suoi ultimi anni in una clinica romana, vivendo, sempre secondo Garboli, “come se fosse un’altra persona, irriconoscibile per chi l’avesse frequentata anche solo un po' intimamente nel passato: sparite le collere, le dolcezze, le battaglie; sparita la sua eterna discussione con il mondo”.

In questo atteggiamento di consapevole abbandono la coglie la morte, il 25 novembre del 1985.