Karol Wojtyla

 

 

  

Un uomo venuto da lontano 

 

 

 

 

 

Figlio di un ex ufficiale dell’esercito, Karol Wojtyla (1920-2005) è nato nel sud della Polonia, in un paese che dista solo 30 chilometri da Auschwitz, il 18 maggio del 1920.

A Wadowice, all’epoca, vivevano settemila abitanti, duemila dei quali ebrei. Un’infanzia difficile la sua, segnata dalla morte prematura della madre, avvenuta quando lui ha appena nove anni e, tre anni dopo, da quella del fratello ventiseienne. E mentre in Europa si sviluppa il germe nazista, il giovane Karol vede crescere nel padre il sentimento religioso: “La violenza dei colpi che aveva subito - ricorda Wojtyla - aveva aperto in lui immense profondità spirituali”. “Mi capitava di svegliarmi di notte e di trovare mio padre in ginocchio”. 

L’infanzia a Wadowice è la chiave che consente di leggere e di comprendere molte delle azioni del Pontefice. La visita al Muro del Pianto, emblema dell’ultima fase del pontificato, sarebbe forse inimmaginabile senza l’adolescenza passata accanto a Ginka Beer, compagna di scuola e “complice” nelle recite del giovane Karol e con Jerzy Kluger, futuro avvocato, figlio del presidente della Comunità ebraica locale, al quale rimarrà legato per tutta la vita. E anche la lettera del 1998 sui “colpevoli silenzi” dei cristiani durante la Shoah, Wojtyla deve averla avuta in mente sin da quando, a 19 anni, assistette alla deportazione dei suoi amici, alla distruzione di intere famiglie. “Chiunque viveva allora in Polonia venne, anche solo indirettamente, in contatto con tale realtà. Tale fu, dunque, anche la mia personale esperienza”, disse con schiettezza anni più tardi, senza nessuna concessione a quanti, anche all’interno della Chiesa, avevano scelto di trincerarsi dietro ai “non sapevamo, non immaginavamo”. 

Primo Papa ad aver calcato in gioventù le scene di un palcoscenico, Wojtyla ha sempre conservato il gusto dell’improvvisazione maturato nell’esperienza giovanile del “teatro della parola viva”, nel quale aveva manifestato eccellenti doti di voce, gestualità, passione, memoria. Un’esperienza anche in questo caso bruscamente troncata dall’invasione nazista della Polonia nel 1939, che lo costrinse, per salvarsi dalla deportazione, al lavoro nelle cave di pietra. “Sono sempre vicino agli operai anche perché lo sono stato anch’io”, dirà il 25 gennaio 1979 sull’aereo che lo porta in Messico, ricordando quando nel 1940 cominciò a lavorare nella fabbrica chimica Solvay.

“Avevo dovuto interrompere gli studi che avevo iniziato all’università Jagellonica di Cracovia. Vivevamo tempi difficili. E posso dire che il lavoro fisico fatto da operaio, il contatto con il mondo del lavoro mi sono serviti molto di più, per la mia formazione, che il dottorato in Teologia”. 

È difficile comprendere il pontificato di Giovanni Paolo II senza ricordare quanto la sua storia personale sia strettamente intrecciata a quella dei due totalitarismi del XX secolo.

Seminarista clandestino, con una “vocazione sacerdotale adulta” maturata durante l’occupazione nazista della Polonia e la devastazione della guerra, Wojtyla venne profondamente influenzato dall’insegnamento dell’arcivescovo Adam Stephan Sapieha, chiamato “il Principe indomito” per le origini aristocratiche e per la nobile fermezza con cui aveva respinto i tentativi dei nazisti di essere ricevuti con onori a Cracovia. Fu lui a ordinare Wojtyla sacerdote, il primo novembre 1946. Wojtyla celebrò la sua prima Messa nella cripta di san Leonardo della cattedrale del Wawel, la “Ara patriae” della Polonia.Trascorse poi due anni a Roma per il dottorato, conseguito con una tesi sul mistico san Giovanni della Croce. Viaggiò in Belgio e in Francia per incontrare i preti-operai e tornò in patria nell’estate del 1948, trovando il proprio paese schiacciato da un’altra dittatura, quella del comunismo. All’incubo dei lager si era sostituito quello dei gulag, mentre la Chiesa era ridotta al silenzio e le libertà fondamentali erano cancellate. E ancora una volta, l’esperienza diretta del sacerdote Wojtyla spiega l’azione del papa Wojtyla: la scelta di dedicare la propria missione alla causa dell’uomo, nella sua unitarietà di diritti spirituali e bisogni materiali. 

 

Una missione che è stata subito compresa dai giovani, ai quali ha saputo parlare come forse nessun suo predecessore aveva fatto prima. Nell’aprile 2001, pochi mesi dopo la XV Giornata della Gioventù a Tor Vergata, a Roma, che con i suoi due milioni di ragazze e ragazzi è stato il più grande raduno europeo di tutti i tempi, volle ringraziarli per avere in oltre vent’anni “accompagnato e quasi sostenuto il Papa lungo il suo peregrinare apostolico attraverso i Paesi della Terra”. E ancora a Toronto, a fine luglio 2002, confidò loro: “Il Papa è vecchio e un po' stanco, ma si identifica con le attese e le speranze dei giovani. La giovinezza arriva e passa, ma resta per tutta la vita”.

Un sodalizio maturato nei primi 10 anni di sacerdozio, quando per tre anni fu anche parroco (dal 1948 al 1951 a Niegowise e nella Chiesa di san Floriano a Cracovia). Wojtyla dedicò le migliori energie ai giovani, mentre da loro imparava a rispondere dal versante della fede agli interrogativi sulla libertà, l’amore, le conseguenze della liberazione sessuale, le questioni dell’educazione e del lavoro. 

Papa Wojtyla è stato anche il primo Pontefice che si è formato dalla grande scuola teologica ed ecclesiale del Concilio Vaticano II. Docente di Etica sociale nel seminario di Cracovia dal 1952 al 1958, dal 1956 all’università di Lublino dove si afferma come uno dei più significativi pensatori polacchi, Wojtyla ha appena 38 anni quando viene nominato vescovo ausiliare di Cracovia: la nomina lo raggiunge mentre è in vacanza in canoa assieme ad alcuni giovani amici nel luglio 1958.

Mentre in Polonia cresce la pressione dell’alleato sovietico, spaventato dalle aperture di Wladislaw Gomulka, che tra i suoi primi atti reintegra il cardinal Stefan Wyszynski rimasto incarcerato per 37 mesi, a Roma il 28 ottobre viene eletto al soglio pontificio il 77enne patriarca di Venezia Angelo Roncalli. È l’inizio di un papato che sarà caratterizzato dall’attenzione nei confronti dei paesi del Patto di Varsavia. Nasce, con mons. Agostino Casaroli, futuro segretario di Stato proprio con Wojtyla, l’Ost-politik. 

Il Concilio Vaticano II rappresenta per Karol Wojtyla un’occasione di maturazione teologica e pastorale e il giovane vescovo di Cracovia diventa un punto di riferimento per coloro che appoggiano le aperture della Chiesa cattolica al mondo moderno. Collabora alla stesura della “Gaudium et spes”, documento fondamentale, con la “Lumen gentium” e la “Nostra aetate”, del Concilio. Anche il successore di papa Roncalli, Giovanni Battista Montini, apprezza l’arcivescovo polacco, tanto da attingere alle sue opere “Amore e responsabilità” e “Persona e atto” (entrambe del 1966) per l’enciclica “Humanae vitae”.

E questo nonostante il saggio sull’etica coniugale avesse suscitato scalpore, in Vaticano, per la celebrazione della sessualità umana come dono di Dio. In quegli anni Wojtyla matura la convinzione che ruolo della Chiesa non è quello di imporre la verità ma contribuire alla costruzione del mondo, facendo in modo che siano gli uomini a scoprire la verità. Una rotta che ha caratterizzato il suo pontificato e che il papa ha articolato nell’Enciclica “Fides et ratio”, pubblicata il 15 ottobre 1998. 

 

Il 30 dicembre 1963, Wojtyla è nominato da Paolo VI arcivescovo di Cracovia. E meno di tre anni dopo, il 26 giugno 1967, lo stesso pontefice lo nomina cardinale. Un riconoscimento per il contributo offerto al Concilio. È in questa fase che Wojtyla inizia a viaggiare e a maturare la convinzione che la divisione del mondo in due sfere di influenza politico-militare e i rischi di una guerra nucleare, non siano una realtà immutabile. Sostenuto in questo dal primate polacco cardinal Stephan Wyszynski, fiero avversario del regime. Ed è in questa fase della vita di Wojtyla che si trovano le premesse della sua vittoria, da Papa, nei confronti del comunismo.

Emblematico, in questo senso, l’episodio della “battaglia” di Nowa Huta. In questa città, fiore all'occhiello dell’industria siderurgica polacca, il regime negava la costruzione di una Chiesa. La notte di Natale del 1963 Wojtyla sfida le autorità celebrando la Messa all’aperto, sotto una pioggia battente. Questa, dice “è la nuova grotta di Betlemme”. Il braccio di ferro si conclude sei anni dopo, con la capitolazione delle autorità polacche. La Chiesa si farà. E il 15 maggio 1977, inaugurando l’edificio, Wojtyla può affermare: “Questa non è una città di persone che non appartengono a nessuno, con cui potete fare quello che vi piace; che possono essere manipolate secondo le leggi della produzione e del consumo. Questa è una città di figli di Dio”. 

Quando pronuncia queste parole, Wojtyla sa di avere di fronte un potere ormai debole, lontano dal paese reale, nel quale l’opposizione sta riorganizzando le fila e l’autorevolezza della Chiesa non è più in discussione. E nel 1976, chiamato a predicare gli esercizi spirituali davanti alla Curia romana e a Paolo VI, parla del pericolo del consumismo dell’Occidente ma condanna anche l’altra forma di “contraddizione a Cristo”, quella dei Paesi dove l’ateismo è eretto a sistema.

“Tu porterai la Chiesa nel Terzo millennio”, gli dice il vecchio cardinal Wyszynski dopo il Conclave che elegge Wojtyla papa. Quasi una profezia che si è realizzata. Ma l’elezione al Soglio di Pietro è stata anche un’operazione di alta ingegneria politica. Suo grande elettore è stato il cardinale di Vienna Franz Konig, che ha fatto in modo di far convergere sul nome del cardinale di Cracovia i voti dei porporati anglofoni e francofoni e ha faticato a vincere le resistenze di quanti manifestavano dubbi a votare per un candidato non italiano. Un lavorio sommerso quanto efficace, se è vero che all’ottava votazione Wojtyla raccolse 99 voti su 111 votanti. 

Wojtyla accetta l’incarico serenamente. I timori della vigilia, quando si era confidato con il suo vecchio amico Wyszynski dicendo di avere un vivo presentimento, sono definitivamente superati. Ad aiutarlo nei momenti di incertezza è la fede, una fede profonda, mistica. Di lui si racconta che spesso abbia passato le sue notti raccolto in preghiera. E chi lo ha visto dire Messa è rimasto colpito per la concentrazione e la spiritualità dei suoi gesti, dai quali traspare la visione della Croce quale fulcro della Storia. Una spiritualità della quale ha parlato lo stesso Wojtyla in un colloquio con George Weigel, autore dell’unica biografia “autorizzata” tra le centinaia che sono state scritte su di lui: “Cercano di capirmi dal di fuori. Ma io posso essere capito solo dal di dentro”. 

Che il suo pontificato sarebbe stato caratterizzato dal richiamo costante alla fede lo si comprese fin dal primo momento, da quel 16 ottobre 1978 quando salutò i fedeli in piazza San Pietro con l’esclamazione “Sia lodato Gesù Cristo!”, desueta da anni. E il discorso di inaugurazione, sei giorni più tardi, suonò come un manifesto: “Non abbiate paura. Aprite - disse - spalancate le porte a Cristo!”. “Aprite i confini degli Stati, i sistemi economici, quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa cosa c’è dentro l’uomo. Solo lui lo sa!”.

E tutto il suo pontificato, dalla lotta al comunismo a quella contro le dittature del Terzo mondo, ha rappresentato l’attuazione del programma enunciato quel giorno. 

Il 13 maggio 1981 Wojtyla viene ferito in Piazza San Pietro dai colpi di pistola sparati da Ali Agca. Una vicenda che, malgrado i processi che si sono celebrati, mantiene contorni ancora oscuri. Ad oggi non è dato sapere chi abbia armato la mano dell’attentatore. Ma tra le ipotesi ha preso sempre più vigore quella che interpreta l’attentato come un tentativo di porre termine a un papato “destabilizzante degli equilibri internazionali”.

Pontefice dotato di una visione strategica, Wojtyla è stato dunque un papa fuori dagli schemi, non adattandosi mai a subire imposizioni formali legate a un protocollo secolare. Uomo tra gli uomini ha infranto la tradizione che voleva il successore di Pietro inaccessibile, figura ieratica e quasi sacrale. Nei suoi viaggi, nelle udienze in Vaticano, negli incontri con i fedeli non sono mai mancati momenti di “normalità”, improvvisazioni e gestualità al di fuori di ogni schema: dagli abbracci ai moribondi ospitati negli istituti di Madre Teresa di Calcutta alle conversazioni improvvisate con i giornalisti, alle battute in romanesco, quasi una prosecuzione di quel suo primo “se sbaglio mi corrigerete”.

Energico, deciso, poco incline al compromesso, incurante delle difficoltà anche a causa delle vicissitudini subite fin dall’infanzia, Wojtyla è stato inoltre un interlocutore scomodo per i governi di quella parte del mondo dove da mezzo secolo venivano repressi i diritti umani, primi fra tutti i diritti politici, la libertà di opinione e di religione.

 

Testimone del suo tempo, ma anche testimone della fede. Il suo pontificato “itinerante” è stato infatti contraddistinto dalla visione strategica di rilanciare il messaggio cristiano in tutti i contesti storici e geografici possibili. “Il Papa deve avere una geografia universale” spiega ai giornalisti durante uno dei suoi primi viaggi. “Io vivo sempre in questa dimensione, nella preghiera del mattino, spostandomi idealmente lungo il globo. Ogni giorno c’è una geografia spirituale che percorro. La mia spiritualità è un pò geografica”. 

 

Dagli otto viaggi nella sua Polonia ai numerosi viaggi in Europa (Francia, Portogallo, Germania, Paesi Bassi, scandinavi e Repubbliche baltiche), in America Latina e Stati Uniti, in Asia (Giappone, Corea, Filippine, Indonesia), in Oceania (Australia, Papua Nuova Guinea). Solo in Africa, Giovanni Paolo II compie 14 viaggi in poco più di vent'anni, dal primo viaggio nel maggio 1980 in Zaire, Congo, Kenya, Alto Volta, Costa d’Avorio, a quello in Egitto e sul Sinai del febbraio 2000, visitando oltre 40 Paesi e più di un centinaio di città. E per la prima volta nella storia della Chiesa un Papa ha visitato anche l’isola atlantica di Gorée (febbraio 1992), per vedere quella “Casa degli schiavi” dalla quale decine di milioni di indigeni vennero imbarcati sui galeoni fra il XVI e il XIX secolo e deportati in America.

 

“Occorre che si confessi in tutta verità e umiltà - dice dopo aver fissato per sette lunghi minuti in silenzio l’oceano sul quale si era consumata l’orribile aberrazione di coloro che hanno ridotto in schiavitù i fratelli e le sorelle - questo peccato dell’uomo contro l’uomo e contro Dio. Da questo santuario del dolore nero imploriamo il perdono del Cielo'”. Così come chiede perdono per le conversioni forzate che in Africa e in America erano state imposte dai missionari alle popolazioni indigene. Accade nella Giornata del perdono da lui voluta il 12 marzo 2000 per “purificare la Chiesa dalle colpe del passato”, contro una parte della Curia romana contraria alla richiesta di perdono per errori non personalmente commessi dai contemporanei: fra gli altri, l’Inquisizione, la discriminazione verso le donne e verso gli ebrei, i processi contro scienziati come Galileo Galilei. 

Giovanni Paolo II va in Turchia, Romania e Georgia per parlare agli ortodossi; in India per parlare alle grandi religioni non cristiane. Visita Cuba facendo cadere un altro muro e spingendo il Paese a superare la rivoluzione ideologica di Fidel Castro. Ma è forse il viaggio in Terra Santa a caricarsi di una straordinaria simbologia con il discorso tenuto al mausoleo dell’Olocausto di Yad Vashem. 

Quel 22 marzo 2000 a Gerusalemme, il Papa chiude nel segno di una riconciliazione di portata storica la polemica secolare con gli ebrei, riconoscendo le responsabilità della Chiesa e manifestando il suo pentimento, invitando a guardare al futuro per costruire insieme un mondo di pace in cui non si ripetano gli orrendi crimini del nazismo. Al Muro del Pianto, depositando tra le antichissime fessure di pietra il “mea culpa” recitato a San Pietro, realizza uno degli atti più alti del suo pontificato, invitando ancora una volta gli ebrei a camminare insieme come figli del comune padre Abramo. 

 

Tutto proteso verso una visione strategica del messaggio cristiano, il pontificato di Wojtyla riserva meno cure alle riforme della Curia vaticana. Giovanni Paolo II si limita a proseguire l’opera iniziata da Paolo VI nel 1967 definendo alcune riforme con la Costituzione apostolica “Pastor bonus”, del 1988: tra le novità, la trasformazione del Consiglio per gli Affari pubblici della Chiesa in Segretariato per i rapporti con gli Stati; l’unificazione dei dicasteri per il culto divino e la disciplina dei sacramenti; l’istituzione di una serie di pontifici Consigli al posto dei segretariati e delle Commissioni. Con la Costituzione apostolica “Universi dominici gregis” del 1996 vengono poi stabilite le norme del Conclave: numero chiuso a 120 per i cardinali con diritto di eleggere il Papa (sfondato nei Concistori del 2001 e del 2003, quando il numero degli elettori è stato portato a 135); perdita del diritto di voto per chi compie 80 anni. 

 

A Wojtyla non sfugge però che si pone il problema di una maggiore collegialità nel governo della Chiesa, malgrado l’internazionalizzazione della Curia. Così come si pongono con forza altre questioni: la maggiore valorizzazione del ruolo della donna nella società e nella Chiesa, la sessualità e le sfide della bioetica in un mondo secolarizzato. E, ancora, il dialogo ecumenico, prima di tutto con gli ortodossi e i protestanti. Ma forse, con maggiore urgenza dopo il traumatico cambiamento dello scenario mondiale causato dagli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti e dall’esplosione del terrorismo internazionale da New York a Madrid a Bali, c’è la grande sfida lanciata alle religioni per un'alleanza strategica per la pace fra Cristianesimo, Ebraismo e Islam. 

 

Wojtyla lancia la sfida nel corso del Giubileo durante il viaggio in Medio Oriente. E torna a parlarne a Damasco, il 6 maggio 2001, impegnando i cristiani a non entrare “mai più in conflitto” con i musulmani ma ancor più spingendo per rapporti di convivenza e collaborazione reciproca fra i membri delle tre grandi religioni monoteistiche.

Gli attentati alle Torri Gemelle di New York imprimono una ulteriore intensificazione agli appelli del Papa per una coalizione delle fedi mondiali, nella assoluta condanna di un “terrorismo in nome di Dio” che altro non è che “profanazione della religione e bestemmia”. Proprio per questo Wojtyla invita ad Assisi, 16 anni dopo il primo storico incontro, i capi delle grandi religioni, per una preghiera comune, senza nessun sincretismo, per la fine dei conflitti mondiali. 

 

La Chiesa di Wojtyla è stata una chiesa che si è posta la questione della riconciliazione con la modernità. Il pontificato dell’ “uomo venuto da lontano” ha impresso una accelerazione in questo senso, pur nella valorizzazione della religiosità popolare. La devozione del Papa alla Madonna, il “Totus tuu” a lei dedicato scelto come motto, sono un preciso segnale in questo senso. Karol Wojtyla non si è mai stancato di invocare la protezione della Madonna sul mondo né di affermare la propria fiducia incrollabile circa la presenza di Dio nella Storia, come quando, con la rivelazione del terzo segreto di Fatima, ha spiegato il “suo” Novecento. 

 

Il pontificato di papa Wojtyla si chiude con due sogni irrealizzati. Il papa che ha sconfitto il comunismo non ha potuto visitare Mosca e Pechino. Nella capitale russa era stato invitato dall'allora presidente Michail Gorbaciov, il 18 novembre 1990. Ma il colpo di Stato che nell’agosto dell’anno successivo portò alle dimissioni dell’uomo della “glasnost” bloccò il progetto. E i successori di Gorbaciov, Eltsin e Putin hanno preferito soprassedere, anche a causa della inflessibile contrarietà di Alessio II, patriarca di tutte le Russie. Una contrarietà che si è tramutata in aperta ostilità dopo l’erezione in diocesi, nel gennaio 2002, delle quattro amministrazioni apostoliche esistenti in Russia. Decisione cui ha fatto seguito l’espulsione, in pochi mesi, di alcuni sacerdoti e di un vescovo cattolico dal territorio russo. Altrettanto incompiuto rimane il viaggio in Cina, nonostante gli sforzi diplomatici e la richiesta di perdono del Papa, il 24 ottobre 2001, per i torti e gli errori commessi dalla Chiesa cattolica in Estremo Oriente.

 

Giovanni Paolo II muore in Vaticano il 2 aprile del 2005. I funerali vengono celebrati l’8 aprile davanti a milioni di pellegrini confluiti a Roma da ogni parte del mondo: code chilometriche di persone che attendono anche 12 ore per vedere il feretro del pontefice. Il pianeta sembra fermarsi e le televisioni modificano i loro palinsesti per trasmettere quasi unicamente celebrazioni liturgiche, dirette da San Pietro e speciali sul Papa.

 

Beatificato dal suo successore Benedetto XVI, il 27 aprile del 2014 viene proclamato Santo da Papa Francesco