70 anni fa, l’alluvione del Polesine. 

 

Il 14 novembre del 1951, dopo giorni di pioggia incessante, il fiume Po esonda travolgendo il Polesine. Gravissimo il bilancio dell’alluvione, che causa 200 morti e lascia senza casa oltre 160.000 persone. 

 

 

Il Po dichiara guerra alla sua gente. Il cielo rovescia le sue nuvole, il fiume in piena rompe gli argini e il Polesine va sott’acqua in tre giorni, dal 14 al 17 novembre del 1951.

Il grande fiume porta rovina, angoscia, miseria, lutto, terrore. Al po al va in dè cal vò, dice un proverbio di soli monosillabi: il Po va dove vuole. La sua rotta travolge uomini, animali, case. Terre allagate, colture invase, fattorie sommerse, bestiame perduto.

Frantumato l’argine maestro nella zona di Ferrara, si scatena un mare nero e schiumoso: trasporta tronchi divelti, detriti, macerie e carogne di animali, precipita con onde tumultuose verso la bassa pianura vanificando la fuga disperata di chi cerca la salvezza.

L’atmosfera è da cataclisma e la paura corre con l’acqua. Rovigo è minacciata, i soccorsi sono travolti, non esiste nessun piano di difesa, lo sfascio è generale, i profughi si stringono l’uno all’altro, gli sciacalli battono le strade per rubare nelle case abbandonate. Nel paesaggio spettrale emergono dalle acque i campanili delle chiese, i tetti delle case, le cime degli alberi. Si scatena la battaglia della sopravvivenza.

Sull’acqua sporca navigano i battelli dei pompieri e barche a remi cariche di masserizie; passano i cadaveri di uomini, poi i tronchi d’albero, fascine, mobili spaccati, strappati dalle case spezzate come cartone. Povere cose che scivolano via sulle onde, portando via i ricordi del passato e il pane del domani.     

La pioggia colpisce come un grande straccio bagnato, la pianura diventa mare, le acque coprono la terra come ai tempi di Noè stendendosi fino a toccare la lontana curva del cielo.

Il colore dominante è il grigio, grigio fango dell’acqua, grigio del cielo, come un panno sporco.

Sulle bocche degli italiani girano i nomi di Adria, Cavarzere, Grignano, Borea, Pontecchio, Contarina, Donada: i paesi della tragedia. La gente li recita come i nomi dei Santi nelle veglie per i morti.

Quattro quinti del Po sono sott’acqua, 106 mila ettari di terra. I morti sono 200, i danni 250 miliardi di lire, i profughi 160 mila, uomini, donne, e bambini spossati, affamati, tremanti di fatica e di freddo, con i fagotti delle poche cose salvate.

È un disastro gigantesco, una nuova Caporetto, un mondo di vinti con la dignità nel dolore, davanti alla disgrazia, davanti alla morte fredda e bagnata.

La gente sugli argini, i fuochi dei bivacchi, le cime dei campanili che sembrano oscillare, una specie di muffa nell’aria e acqua a perdita d’occhio che segue il gioco dei venti. Sembra un paesaggio da approdo dell’Arca.

Una foto che diventerà celebre mostra una fila di buoi che tentano di nuotare, con gli occhi terrorizzati iniettati di sangue.

I rotocalchi dedicano ampi servizi alla “tragedia del secolo”. I flash impietosi frugano tra la gente. E per una striscia d’Italia, già povera e affamata da secoli, si preparano anni di miseria.

Quella miseria che sul grande fiume, come dicono i personaggi di Riccardo Bacchelli, viene in barca. Da sempre.