L’attentato a Togliatti

 

 

Il 14 luglio 1948 improvvisamente il Paese si ferma all’annuncio della radio: “Hanno sparato a Togliatti”. A tre mesi dalle elezioni che hanno sgretolato il Fronte popolare, la notizia fulmina gli italiani intorpiditi dal caldo. Sono momenti chiave che possono decidere della vita di un uomo e condizionare il futuro della politica italiana. 

 

 

Mercoledì 14 luglio 1948 è una giornata calda e afosa. A Montecitorio, alla vigilia delle ferie parlamentari, si discute di ordinaria amministrazione. Alle 11.35 Palmiro Togliatti lascia Montecitorio dalla porta secondaria che dà su via della Missione. Con lui c’è Nilde Jotti, ufficialmente sua segretaria, in realtà sua compagna. “Una monelleria - come scriverà Indro Montanelli - di cui tutti sanno ma nessuno parla”.

L’obiettivo è quello di andare a prendere un gelato al bar Giolitti, in via Uffici del Vicario. La ragione della porta secondaria è quella di eludere i controlli della scorta.

La scena è vivida. Togliatti “scivola via” con la Jotti e sbocca in via della Missione. Un giornalista del “Corriere Mercantile” segue i due nella speranza di strappare un’intervista al capo del Pci. Un carabiniere è fermo all’altezza della scalinata di piazza del Parlamento. Togliatti, tenendo la solita borsa sotto il braccio, scende tre scalini e si incammina lentamente conversando con la Jotti. Hanno fatto pochi passi quando alle spalle del carabiniere sbuca un giovane magro e bruno in abito scuro. Si avvicina alla coppia, estrae dalla tasca destra della giacca una rivoltella e da brevissima distanza spara tre colpi in rapida successione.

È una scena da film d’azione: Togliatti resta un attimo come sorpreso, poi, colpito alla testa e al torace, si accascia a terra con gli occhi sbarrati. La Jotti lancia un urlo e si getta su di lui per soccorrerlo e proteggerlo. L’attentatore esplode un quarto colpo, che va a vuoto. Piombano due carabinieri, lo afferrano, la Jotti singhiozza: “Assassino, assassino…arrestatelo”. Il giovane non oppone alcuna resistenza, in un istante lo portano via. Togliatti è a terra in una pozza di sangue. Accorre un commesso della Camera richiamato dalle detonazioni e rientra precipitosamente. “Hanno sparato a Togliatti”, grida. Di colpo il Parlamento si ferma, come dopo pochi minuti, si ferma, atterrita e sbigottita, l’Italia intera all’annuncio della radio. La domanda che tutti si pongono con angoscia è: “E adesso, cosa accadrà?”. Il Paese è percorso da una scossa elettrica. I primi giornali escono in edizione straordinaria con i titoli a nove colonne: “Togliatti colpito a morte”. Ma Togliatti non è morto.

Medicato sommariamente nell’infermeria di Montecitorio, il ferito viene caricato su un’autoambulanza e portato al Policlinico, dove il professor Pietro Valdoni è pronto ad operarlo. Togliatti è debole ma cosciente e lucido: le ferite sono serie ma non mortali. Attorno a lui ci sono i fedelissimi: Longo, Secchia, D’Onofrio e Scoccimarro. “Non perdete la testa - ha la forza di dire -. Non fate fesserie, state calmi”. Alle 13.15 Valdoni lo opera con l’assistenza del professor Cesare Frugoni. L’intervento dura 45 minuti, con gli italiani davanti alla radio, in ansiosa attesa del primo bollettino medico. Alle 14.25 Valdoni esce dalla sala operatoria e dice: “Per me è fuori pericolo”.

“L’ho ucciso perché ha rovinato l’Italia”, afferma l’attentatore con calma, e ha un gesto di contrarietà quando lo informano che Togliatti è sopravvissuto. È un giovane bruno, con gli occhi scuri, di media statura, occhiaie profonde, capelli unti di brillantina, fisionomia da uomo del Sud. Si chiama Antonio Pallante, ha 24 anni, viene dalla provincia di Catania. Ha in tasca 70 lire e una copia del Mein Kampf. La sua è una povera storia. Mancato ufficiale di pubblica sicurezza bocciato al concorso, mancato politico dopo velleitari tentativi, studente di giurisprudenza lontano dalla laurea, pochi soldi, Pallante è un fanatico sbandato, malato di nazionalismo, mentalmente instabile.

È così che il ragazzo della provincia di Catania, spinto dalle sue ideologie e dalle sue ossessioni, frustrato e deluso, ha deciso di compiere il “grande gesto”. Ha comprato per quattromila lire una pistola Hopkins e cinque proiettili: materiale vecchio, scadente, per buona sorte della sua vittima. È arrivato a Roma e ha sparato, come fosse una missione. Non è un sicario ma un esaltato megalomane. Non c’è nessun complotto, nessun “giallo”. Solo un fanatico omicida, zuppo di nazionalismo. Condannato a 13 anni di carcere, ne sconterà solo quattro. Tornerà libero il 23 dicembre 1953 per amnistia. Si farà dimenticare dopo aver portato il Paese sull’orlo della guerra civile, senza rendersene conto. “Strano che una storia come la sua - stigmatizzerà più tardi il giornalista e scrittore Silvio Bertoldi - non abbia interessato Leonardo Sciascia”.