Vittorio Gassman 

 

Ritratto di un “mattatore” 

 

 

 

 

Vittorio Gassman (Genova, 1 settembre 1922 - Roma, 29 giugno 2000).                 

C’è un pubblico che lo identifica in maniera esclusiva con il grande schermo - o tutt’al più aggiungendovi le apparizioni televisive - ignorando o conoscendo poco l’anima teatrale, assolutamente decisiva, imprescindibile, della personalità gassmaniana. E lo stesso pubblico identifica il Gassman cinematografico con la nascita del Gassman brillante, comico, satirico e divertente battezzato dai Soliti ignoti nel 1958.

In realtà, sebbene praticamente nulla resti memorabile salvo il caso di “Riso amaro”(1949), Vittorio aveva debuttato sullo schermo già con la fine della guerra.

Ma per molto tempo la giovane rivelazione del teatro italiano guarda al cinema con supponenza, con ostentato disprezzo. Il cinema è - d’estate, quando il teatro si ferma - soltanto un modo per “guadagnare”. Forse esagera, forse si sente mal utilizzato, e ripaga l’avversione con esibita superiorità e con fastidio.

Film in costume, polpettoni, riduzioni letterarie costellano i primi anni, talvolta però anche sotto il comando di registi di vaglia: “La figlia del capitano” con Camerini nel 1947, “L’ebreo errante” con Alessandrini nel ’48, e poi Freda, Gentilomo, Vergano.

È dopo “Riso amaro” - il sussiegoso ma importante pamphlet melodrammatico di Giuseppe De Santis - e dopo il ripetuto successo di “Anna”, di nuovo accanto all’astro nascente di Silvana Mangano che Hollywood lo chiama con un contratto della Mgm.

Vittorio va, anche perché c’è di mezzo la storia d’amore con l’attrice Shelley Winters che gli darà la sua seconda paternità - Vittoria -, ma sarà un’esperienza professionalmente penosa.

C’è da divertirsi a leggere nella sua autobiografia il disappunto, descritto con sopraffina ironia, per il fatto che l’approssimativa conoscenza americana di ciò che sta appena fuori dalla loro porta lo blocca in un cliché vagamente europeo-mediterraneo: con prevalenza spagnoleggiante. Ne è testimonianza l’orrido “Sombrero”, ma non scherzano neanche “Rapsodia” con la giovane Liz Taylor né “Mambo” che lo fa trovare per la terza volta accanto alla Mangano.

L’emancipazione dal cliché è lenta e faticosa e anche l’agognato e riconquistato ritorno in Italia, ottenuto grazie alla complicità di Ponti e De Laurentiis, prevede altri passaggi mediocri. Tipo “Guerra e pace”.

Poi inizia un’altra storia, ed è quella che conosciamo e amiamo. Quella che lo stesso Vittorio coglie come nuovo inizio.

“I soliti ignoti” e “La grande guerra” con Monicelli, “Il sorpasso”, “La marcia su Roma” e “I mostri” con Risi sono i capitoli chiave di questo rilancio alla grande, che peraltro va di pari passo con non meno indimenticabili prove in palcoscenico; basti ricordare la titanica impresa, inventata nel 1960, del Teatro Popolare itinerante come un grande circo.

Ci saranno infinite variazioni non sempre alla stessa altezza. “Slalom” con Salce, il pur gustoso “Gaucho” ancora con Risi che è palesemente un film-vacanza, i primi film sotto la direzione del neoregista Scola già collaudatissimo sceneggiatore.

Ma c’è anche l’esplosivo “Brancaleone” nel 1966. Ci sono altri due Risi molto significativi come “In nome del popolo italiano” e il celebrato “Profumo di donna”. Ci sono le sue episodiche prove di regia come “Senza famiglia, nullatenenti, cercano affetto”. E ci sono nuove frontiere da sperimentare nella raggiunta maturità fisica e anagrafica, come “Il deserto dei tartari” di Zurlini da Buzzati. C’è il ritorno in America ma a condizioni completamente mutate, con Robert Altman.

Ci sono soprattutto i grandi film della maturità di Ettore Scola: “C’eravamo tanto amati”, “La terrazza”, “La famiglia”, “La cena”, interpretato due volte prima della morte. Film di bilancio anche per Vittorio.

 

Ci sono infine due titoli, che forse non figureranno incisi nella memoria collettiva, ma che dicono parecchio sulla condivisione tra attore e i suoi autori e registi di un sentimento di volta in volta delicatamente o rabbiosamente crepuscolare: “Lo zio indegno” di Brasati, nel 1989 e “Tolgo il disturbo” di Risi nel 1990.

Vittorio Gassman è stato dunque un supertestimone di cinquant’anni della nostra Storia comune. E lo è stato grandemente attraverso il cinema, anche se la reciproca attenzione e simpatia hanno tardato a farsi scoprire e a venire allo scoperto.

Lo è stato, naturalmente, in lussuosa compagnia con i quattro quasi-coetanei Alberto Sordi, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi - anch’egli del ’22 - e Marcello Mastroianni. E con ciascuno di loro ha condiviso importanti e straordinarie avventure.