"Uno sguardo nel tempo".
Una vita breve, un mistero italiano. Tributo a Luigi Tenco.
Luigi Tenco nasce a Cassine, in provincia di Alessandria il 21 marzo del 1938 e muore a Sanremo, durante il sedicesimo Festival della Canzone italiana, il 27 gennaio del 1967. Personalità inquieta e imperscrutabile, è stato un cantautore prolifico e dalla grande vena crepuscolare.
Già nei primi anni di vita si trasferisce in Liguria: prima a Nervi e poi a Genova. Quella Genova che negli stessi anni ha dato fiato a tanti cantautori italiani, come Paoli, De Andrè, Lauzi: tutte voci che faranno parte, oltre che del panorama musicale italiano, anche della vita di Luigi Tenco che con loro studierà, lavorerà, litigherà. La sua primissima infanzia si svolge tra Cassine e Ricaldone - paese natìo della madre dove Tenco è sepolto - e all’età di dieci anni si trasferisce dapprima nella ligure Nervi e a seguire a Genova, dove la sua famiglia apre un negozio di vini: “Enos”. Luigi Tenco non conoscerà mai suo padre, Giuseppe Tenco, poiché egli muore in circostanze misteriose nei campi dove stava lavorando. Capofamiglia è considerato lo zio di Luigi, Giovanni Zoccola, fratello della mamma Teresa: sanguigno, con grande determinazione, è lui a provvedere alle necessità della famiglia. I Tenco si spostano in Liguria per diverse necessità, tra le quali il desiderio della madre Teresa di rimanere vicino ai congiunti bisognosi di cure. Nel negozio di vini lavorano la madre, lo zio Giovanni e Valentino, il fratello maggiore di Luigi, che verso la passione del fratello minore nutre un distacco emotivo, poiché considera la musica come fuorviante e una sorta di perdita di tempo. I due, pur amandosi molto, sono destinati a parlare tra loro con codici diversi.
Già da piccolo, Luigi è un bambino assolutamente fuori dal comune: impara a leggere e scrivere prestissimo, dimostrando alla maestra Sandra Novelli un’intelligenza fuori dal normale, una capacità di apprendimento sorprendente e una curiosità tanto viva quanto fredda, distaccata. Ha capacità per ogni disciplina, ma la sua attitudine a nascondere gli entusiasmi lo fa apparire indifferente. L’affidamento di Luigi alla maestra privata trova giustificazione nelle aspirazioni della mamma Teresa che, appurato che il destino del primogenito Valentino si sarebbe svolto all’interno di “Enos”, vuole lavorare per dare a Luigi un futuro diverso, fatto di studi classici. Fu proprio l’incontro con la maestra Novelli, però, a portare Luigi verso le grandi ali della musica, per la quale il futuro cantautore era evidentemente portato senza alcuna forzatura. Bravo in matematica e in musica, in lui la maestra Novelli non vedeva né fuoco, né passione, bensì un atteggiamento compassato, fine e freddo: lo stesso freddo dal quale nacquero le contraddizioni che disegnarono, in un futuro che purtroppo rimase corto e spezzato, la figura tenchiana e la sua produzione artistica.
Tra coloro che hanno dato a Tenco il suo nome di artista ci sono Ruggero Coppola e Pupi Gatto, amici più grandi di Luigi con i quali lo stesso Tenco formerà un gruppo di ragazzi “fuori dal comune” come spesso la gente li definisce per strada: ragazzi che amano il mito di Jeams Dean e il fascino del mare, dell’orizzonte.
Il rapporto con la sua bottiglieria rimane sempre saldo, anche perché è nel soppalco del negozio che Tenco impara le prime note su un clarino e a lui si accompagna Bruno Lauzi con il suo banjo. Il suo primo complesso nasce nel 1953: i “Jelly Roll Morton Boys Jazz Band”. Con lui suonavano Danilo Degipo alla batteria, Bruno Lauzi al banjo, Alfredo Gerard alla chitarra, (Tenco era al clarino) e Paolo Carrera “tuttofare”. Ispirano il gruppo le musiche di Mulligan, di Charlie Parker, di Jelly Roll Morton e di Paul Desmond. Già in quegli anni, Luigi dimostra tanto una spiccata sensibilità artistica quanto un forte carattere, ragionato, consapevole, di chi lotta giornalmente per le cose in cui crede.
Negli anni del Ginnasio si prende a pugni con Lauzi perché non concorda con il messaggio artistico che il cantautore con i baffi intende riguardo a Picasso. Così come qualche anno più tardi, smette di rivolgere la parola a Paoli perché non approva la sua relazione con la giovanissima attrice Stefania Sandrelli.
Il gruppo - che spesso e periodicamente si riunisce a casa di Degipo - vede passare diversi artisti dell’epoca, molti dei quali rimangono sconosciuti al grande pubblico: i fratelli Reverberi, Nicola e Roy Grassi, Gino e Guido Paoli, Matilde Repetto, Arnaldo Bagnasco, Sergio Sandrini e Fabrizio De Andrè. L’avventura di Tenco continua con diverse realtà musicali, tra le quali spicca una jazz band della quale fa parte lo stesso Fabrizio De Andrè, con Attilio Oliva al sax, Alberto Cameli come voce, Mario De Sanctis al piano e Corrado Galletto alla batteria. Poco tempo prima di uscire con il suo primo 45 giri, compone l’ennesimo complesso della sua realtà musicale. Insieme a Nicola Grassi e Gino Paoli forma “I Diavoli del rock”, al quale fa seguito il “Trio Garibaldi”: Tenco, Coppola e Marcello Minerbi. Ed è con loro che Tenco trova l’ispirazione per scrivere la sua prima canzone: non “Quando”- come i più pensano e credono - bensì la sigla delle loro performance, la prima delle quali è in occasione di una sostituzione dell’orchestra “Dino Siani” a San Pellegrino: si tratta proprio di un gingle sull’acqua effervescente che mostra fin da subito le capacità “parolistiche” di Tenco.
Sul finire degli anni ‘50, dopo aver concluso brillantemente gli studi ed essersi iscritto all’università, Luigi Tenco viene finalmente scoperto dall’industria discografica e con Gaber e Reverberi, fa le prime apparizioni in pubblico, dormendo negli alberghi piemontesi e liguri in attesa delle prove musicali. Alla Ricordi, proprio nel periodo in cui Tenco è “provinato”, inizia una sorta di ragionamento per portare al rinnovamento della canzone italiana: tale rinnovamento arriva forte e chiaro solo diversi anni dopo, quando Tenco non ci sarà già più. Gli esperti del settore - Giulio Rapetti, in arte Mogol, in primis - si chiedono se finalmente non sia arrivato il momento di vedere la canzone non solo più come uno svago, una “leggerezza”, bensì un tramite per lanciare messaggi.
Nei primissimi anni ’60, Tenco sceglie nomi d’arte per esprimere la sua arte musicale: Gigi Mai, Dick Ventuno e Gordon Cliff. La motivazione di questa scelta di nascondersi dietro a pseudonimi sta nella convinzione che per una futura carriera lavorativa l’hobby della musica sia in qualche modo disdicevole e assolutamente non edificante. Lui stesso indica come la sua professione non il cantante o il musicista, bensì lo studente. Quasi abbia intenzione, in un futuro mai esistito, di abbandonare e dedicarsi alla serietà della vita.
La sua prima tournè non è in Italia, né tanto meno a Genova. Con Adriano Celentano e Giorgio Gaber va in Germania, dove Tenco viene osannato dal pubblico in delirio per i pezzi di Little Richard riprodotti con rara bellezza. Lui ha una grande paura del pubblico ed è per questo che prega Gaber di precederlo. I tedeschi, dopo la magnifica esibizione, lo attorniano per un autografo, salvo poi rimanere delusi quando scoprono che quel giovane non è Adriano Celentano. Al limite del buffo, il fatto che accade poco dopo, quando l’impresario che li aveva ingaggiati scappa con la cassa. Fortunatamente, i tre italiani nordici hanno in mano il biglietto di ritorno.
Gli anni sono propizi, ma spesso la produzione di Luigi Tenco incontra la censura: succede con Cara Maestra (1961), Io sì e Una brava ragazza (1963), troppo esplicite per il tempo. Ancora a confermare che Tenco arriva troppo presto: troppo presto per essere cantautore, quando sui palchi impazzano ancora i complessi “vuoti” della musica leggera e quando “certi argomenti” non si possono toccare.
Luigi Tenco, però, non è solo cantautore e musicista. Lavora anche nel cinema di nicchia, partecipando alla pellicola “La cuccagna” di Luciano Salce. A presentare Luigi a colui che sarà il papà di Fantozzi è Nanni Ricordi che riconosce in Tenco il personaggio che Salce sta cercando: volto disfatto dal sonno, barba lunga. Due caratteristiche che ben incarnavano il carattere ribelle e contestatario che Tenco recitava nella vita.
È capace di appassionarsi ad ogni cosa, tanto che dopo l’avventura con “La cuccagna” acquista una macchina da presa. La sua creatività a volte “ingegnieristica” (creò una piccola radio da sub) è figlia delle mille contraddizioni che hanno costellato la sua vita, forse creando esse stesse il mito che diverrà tale dopo la tragica morte: ama i gatti ma alleva solo cani, dilaziona il più possibile la chiamata alle armi per un evidente antimilitarismo, ma possiede due fucili e tre pistole.
I due anni a seguire sono fondamentali: è al secondo film della sua carriera (Questo pazzo, pazzo mondo della canzone di Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi), mentre nasce in lui la necessità di un pubblico sempre più ampio, di un palcoscenico sempre più popolare.
Chiacchierando con Walter Guertler, con il quale ha avuto in passato dissidi poiché il discografico non amava il genere e le canzoni di Tenco, prende piede l’idea di andare a Sanremo. Il titolare della Jolly e della Joker sa che Tenco non ha la possibilità caratteriale di resistere ad un impegno tanto stressante: ma Luigi Tenco trova la RCA, una casa discografica che gli offre maggiore attenzione e la possibilità di partecipare al Festival.
Combattuto rispetto alla sua possibile esibizione, viene persuaso da Dalida, artista italo-francese che, una volta ascoltato il pezzo che Luigi Tenco vorrebbe portare al Festival (Ciao amore ciao, una canzone che tutto ha a che fare tranne che con una sdolcinata melodia d’amore), pare subordinare la sua partecipazione a quella di Luigi. Tenco quel Festival voleva vincerlo.
Ancora una volta, il piemontese adottato dalla Liguria vive l’ennesima contraddizione della sua vita: stigmatizza i comportamenti “partecipazionisti”, non condivide i concorsi canori - da buon cantautore ribelle e schietto, non pieghevole alla forma e ai formalismi - ma vuole a tutti i costi partecipare. Anzi: in un’intervista rilasciata a Daniele Piombi - vincitore del premio “Libertà di stampa”- dice di voler vincere. Ancora una volta esprime una grande dicotomia: la fobia del pubblico, con la quale farà i conti fino al termine dei suoi giorni, si mescola alla voglia di emergere e al desiderio di avere il suo pubblico sempre più grande, sempre più immenso.
La sua canzone Ciao amore, ciao parla di emigrazione: della difficoltà economica, sentimentale, affettiva di un emigrante (“E non avere un soldo nemmeno per tornare”, “In un mondo di luci sentirsi nessuno”, “E non capirci niente e aver voglia di tornare da te”). Per cantarla e vincere la sua paura, Tenco deve trangugiare una scatoletta di Pronox e una bottiglia di grappa alle pere, tanto che la sua performance risulta quanto meno sconnessa.
A Sanremo Tenco si uccide. La sua canzone non passa al vaglio degli addetti ai lavori. Ciao amore, ciao, cantata in coppia - così come si usava all’epoca - con Dalida non piacque e racimola solo 38 voti su 900. La commissione di ripescaggio sceglie La rivoluzione di Gianni Pettenati. Agitato non partecipa al jet set del dietro le quinte di Sanremo: quel panorama che tuttora fa parte dei vincitori, così come dei vinti. Tenco crede troppo a quello che fa per pensare di “mangiarci su”. Contrariato da tutti e tutto, si chiude nella sua camera del seminterrato del Savoy, l’area dell’hotel riservata ai cantanti meno abbienti. Da quella stanza Tenco non uscirà vivo. Un colpo di pistola lo porta via per sempre, avvolto nel suo mistero, nella sua ombra, nella sua eccessiva intelligenza e nelle sue capacità comunicative. Nel suo fascino di uomo giovane e tenebroso. Se ne va lasciando un biglietto: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sia stanco della vita (tutt’altro), ma come atto di protesta contro un pubblico che manda in finale Io tu e le rose e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao, Luigi”.
Un colpo di pistola, quel biglietto: più forte dello shot che nessuno sente quella notte. Tenco giace a terra in una pozza di sangue, e il modus operandi dei media dell’epoca non antepone la dignità umana allo scandalo sanremese. Il fratello Valentino, così come il carro funebre, viene mal indirizzato e si reca prima all’obitorio, per poi sapere che il corpo di Luigi è rimasto in albergo. Il commissario di Sanremo promette addirittura la foto del morto ai giornali. Una morte atroce, forte, violenta che tutto sommato non blocca il festival e, forse, scuote le coscienze: ma con ritardo.
Vincono Claudio Villa e Iva Zanicchi con Non pensare a me, espressione di quella musica che Tenco - suo malgrado e forse, in parte, a torto - voleva combattere.
Intanto, per qualche giorno, le accuse si scambiano, le ipotesi si spalleggiano. Suicidio? Omicidio? Roulette russa? Nessuno lo saprà mai. Senza volerlo, probabilmente, Luigi Tenco ha costruito una storia che ha raggiunto il suo obiettivo: comunicare, scuotere, creare. Da Tenco in poi, si può parlare davvero di “cantautorato”. Il mondo della musica “leggera” cambia dopo quel freddo gennaio 1967.
Sanremo non ha avuto la forza di fermarsi quell’anno. La musica lo ha fatto ed è ripartita.
Il trauma di Tenco - assolutamente personale - si trasforma in trauma sociale. Ad un fatto individuale fa seguito la rivoluzione musicale. A lui, tanti artisti italiani dedicano qualcosa. Spesso dimenticato dai gradi media, Tenco rimane la forza di un genere musicale al quale forse lui ha dato fiato e voce senza saperlo. Non come vittima sacrificale, come qualcuno ama definirlo implicitamente, ma come ideatore. Fabrizio De Andrè gli dedica la meravigliosa “Preghiera in gennaio”: personale, forte, rivolta al cielo e alla sua misericordia verso un suicida. Verso uno che in chiesa non è potuto entrare neanche il giorno del suo funerale. Francesco De Gregori è il più sanguigno dei “dedicatori” che bacchetta gli avvoltoi e pone l’accento sulla dimensione personale di Luigi: “Qualcuno ricordò che aveva dei debiti, mormorò sottobanco che quello era il motivo. Era pieno di tranquillanti, ma non era un ragazzo cattivo" e ancora "Si ritrovarono dietro il palco, con gli occhi sudati e le mani in tasca, tutti dicevano: "Io sono stato suo padre!", purché lo spettacolo non finisca”.
Nessuno saprà mai la verità. Colei che forse era con lui, Dalida, muore suicida nel 1987.
Ci sono solo “forse” sulla fine di questa storia. Ed è forse questo il velo di tristezza più spesso e ruvido che Luigi lascia nel cuore di chi lo ha conosciuto da vivo o da morto. Coerentemente con la sua visione della vita, però, lascia la possibilità a tutti di credere in ciò che vuole, nel finale che più lo convince: un omicidio per i rabbiosi e per i “giustizialisti”, un suicidio voluto e ragionato per i romantici della ragione e della rivoluzione, un suicidio “da ubriaco” per i depressi, un gioco finito male per gli azzardatori. Ognuno si può sceglier la sua fine, il suo epilogo, la sua morale, il suo messaggio: proprio come voleva lui. Proprio come Tenco intendeva la sua musica: sua perché l’aveva scritta lui, ma anche del suo pubblico (che lui ha “amato immensamente”). Ha dato la possibilità di vivere la sua storia a tutti, così come ognuno desidera, favorendo quella pluralità e quel rispetto che Tenco non ha mai tradito: così come diceva nella sua E se ci diranno (“E se ci diranno che nel mondo la gente o la pensa in un modo o non vale niente..Noi diremo No No No”). Un soggetto sanguigno, timido ma mai codardo. Forse debole. Ma sicuramente un personaggio che anche da morto continua a comunicare non solo con le sue canzoni, ma con le sue foto e con i suoi occhi immortalati per sempre.