Roma: un problema Capitale.

 

 

La città di Roma non è mai riuscita a diventare il centro propulsivo e direttivo dell’intero Paese: lo dimostra l’evidenza politica, storica e culturale. Anche la storia urbana è quella di una città senza progetti di grande respiro. Il “caput mundi” è così diventato la capitale della burocrazia che “consuma e non produce”. Il suo ruolo resta dunque tutto da definire. 

 

“La scelta della capitale è determinata da grandi ragioni morali. È il sentimento dei popoli quello che decide le questioni ad esse relative. Ora, o signori, in Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Ma qui cominciano le difficoltà del problema”. (Camillo Benso conte di Cavour, discorso alla Camera dei Deputati, 25 marzo 1861).

  

Negli oltre 150 anni di sviluppo nazionale della storia d’Italia colpisce l’assenza di un centro realmente unitario che indirizzi il processo di modernizzazione e ne simboleggi adeguatamente il livello via via raggiunto. Roma infatti non è mai stata un centro “realmente unitario e unificante” benché su di essa i democratici risorgimentali avessero da sempre puntato le proprie aspettative per la capitale della “Terza Italia”.

Già nel 1871 Roma capitale, lungi dal contribuire al superamento del dualismo Nord-Sud, fu subito considerata dagli uni lo strumento politico atto “a ristabilire l’equilibrio delle influenze nell’indirizzo dell’amministrazione pubblica”, dagli altri la sede in cui “trionferà il mezzogiorno, agitato dall’elemento romano”.

Anche storicamente Roma risultò inferiore al suo ruolo. Nelle due occasioni più drammatiche (1915-1918 e 1943-1945) in cui le forti tensioni della prima grande prova nazionale o le terribili lacerazioni provocate dalla guerra civile e dall’occupazione straniera coinvolsero direttamente o indirettamente tutta la popolazione, il centro decisionale era altrove - a Udine o sulla “linea del Piave” durante la Grande guerra; a Brindisi, a Bari, a Salerno, perfino a Ravello, durante la Resistenza -. Solo due volte sembrò che gli italiani guardassero a Roma come al centro del Paese: quando nell’ottobre del ‘22 - con la “marcia su Roma” del 28 ottobre 1922 - Mussolini vi converse per portare al re “l’Italia di Vittorio Veneto”, e negli anni Cinquanta quando fu formulata l’equazione “capitale corrotta-nazione infetta”.

La stessa carenza di un centro unificante si riscontra sul piano culturale, sia per la carenza di iniziative di rilievo che vi si organizzano, sia per il non eccelso prestigio delle sue istituzioni pubbliche e private, tranne poche eccezioni. 

Se, infine, dalla storia nazionale si passa a quella urbana, ci si renderà conto che Roma non è stata capitale neppure di per sé, dal punto di vista cioè delle strutture proprie; nel senso che a partire da quel fatidico 20 settembre 1870 - la breccia di Porta Pia - ad essa è mancata la programmazione necessaria a un’organizzazione strutturale-amministrativa adeguata alle nuove esigenze e alla funzione che era chiamata a svolgere. Ben lo sapevano i più “responsabili e pensosi” tra gli intellettuali e i politici di fine secolo - tanto fra i progressisti quanto fra i moderati - quando sostenevano che “né l’amministrazione del Comune, né il Governo ebbero un adeguato concetto di ciò che Roma doveva divenire, o se l’ebbero mancò ad essi l’energia per porre ad atto tutti i mezzi rispondenti allo scopo”.

Si tratta di considerazioni valide, purtroppo, ancora oggi, come ben sanno i cittadini romani, anche se in passato non sono mancate le buone intenzioni: da Pianciani che voleva dotare Roma delle industrie necessarie a fare di “una magnifica capitale da sagrestia” una città adatta “ai bisogni della civiltà moderna”, a Sella che voleva dare vita alla “capitale della scienza e dell’amministrazione”, a Nathan che sognava “una grande Metropoli dove scienza e coscienza indirizzino insieme ai destini patrii, rinnovate attività artistiche, industriali, commerciali”. Né sono mancati interventi coronati da parziale successo, come il risanamento delle borgate operato dalla giunta presieduta da Petroselli.

In altri termini, se si escludono le realizzazioni attuate negli anni tra le due guerre - quando Mussolini, affidandosi all’opera del “piccone demolitore” e all’ingegno di disciplinati esecutori, volle fare di Roma il simbolo concreto delle “aspirazioni imperiali dell’Italia fascista”, - nella storia di Roma capitale si avverte la mancanza di un progetto organico e di programmi di ampio respiro in grado di caratterizzare le linee del suo sviluppo.

Quali le cause e a chi le responsabilità dell’innegabile “degrado romano”, del venir meno di quel ruolo di capitale che tutti fin da subito dichiaravano di voler attribuire a Roma?

Ai posteri l’ardua sentenza.