Amintore Fanfani

 

 

 

Il “rieccolo” 

 

Tra l’estate del 1948 e la primavera del 1949 nel nostro Paese si susseguono alcuni eventi entrati poi a buon diritto nei libri di Storia: l’attentato a Palmiro Togliatti, il Piano Marchall, la scissione sindacale, l’adesione italiana al Patto Atlantico, solo per citarne alcuni. 

 

Nello stesso biennio emergono due personaggi che per molti anni saranno protagonisti indiscussi della scena politica nostrana: Amintore Fanfani e Aldo Moro, i “cavalli di razza” della scuderia di Giuseppe Dossetti. Entrambi “professorini”, entrambi decisi a fare del partito della Democrazia Cristiana qualcosa di molto diverso rispetto alla formula interclassista perseguita e realizzata da Alcide De Gasperi, vale a dire quella di un partito-recipiente in grado di accogliere elettori provenienti da ogni ceto, accomunati da un “mastice” confessionale e dalla disperata ricerca di stabilità, sicurezza e libertà. Sentimenti, questi ultimi, che tuttavia fanno ottenere alla DC lo straordinario risultato nella tornata elettorale del 18 aprile ’48. Nel governo che ne deriva Fanfani è ministro del Lavoro e Moro sottosegretario agli Esteri, con l’incarico di sovrintendere ai problemi dell’emigrazione sotto la severa guida del ministro Carlo Sforza. A questo punto Amintore ha da poco compiuto quarant’anni, essendo nato a Pieve Santo Stefano, a nord di Arezzo, tra i monti dell’Alto Tevere, il 6 febbraio del 1908. 

 

Appartenente ad una famiglia numerosa, non agiata, nipote di un falegname, deve il suo nome al desiderio del padre Giuseppe, avvocato e notaio di provincia, di battezzarlo con il nome non comune di un suo amico, autore di un inno socialista. La sua formazione ha luogo a Milano, negli anni Trenta, all’Università Cattolica del Sacro Cuore di padre Agostino Gemelli. È qui che studia brillantemente economia: a due anni dalla laurea, cum laude, diventa libero docente e sei anni più tardi, non ancora trentenne, sale in cattedra per insegnare storia dell’economia. Lo contraddistingue un carattere ruvido, autoritario, pragmatico, da uomo di azione che vive l’impegno accademico, come in seguito quello politico, all’insegna dell’operosità, della potenza e del movimento. Ed è per questo che verrà definito, riprendendo una frase del repertorio fascista, “il motorino del secolo”.

Alla ricerca continua di una “terza via” tra socialismo e capitalismo, Fanfani crede fermamente in un cattolicesimo sociale e corporativo dedicato, secondo le parole del suo amico Giorgio La Pira, “alle attese della povera gente”. Rimane pertanto fedele agli ideali espressi nei suoi scritti giovanili - “La miseria e i cultori di scienze sociali”, “Colloqui sui poveri” - pregni di affermazioni come quella che segue: “In linea generale l’etica sociale cattolica è sempre agli antipodi dell’attività capitalistica”. Ideali che inevitabilmente complicheranno il suo rapporto con la borghesia italiana del dopoguerra.

Ma Fanfani per l’immaginario collettivo rappresenta soprattutto l’Italia delle grandi opere, un cantiere di cui è ispiratore ed artefice, e di cui si sente contemporaneamente progettista, capomastro e all’occorrenza manovale. Ne sono un esempio il piano Ina-Casa, le prime abitazioni per i lavoratori parzialmente finanziate dalla mano pubblica, le grandi imprese a partecipazione statale, l’autostrada del Sole, la Rai-Tv, la televisione educatrice e pedagogica: tutte iniziative che recano impresso il sigillo fanfaniano. Inoltre, il grande edificio ben squadrato che egli fa costruire a Roma nel quartiere dell’Eur, quale nuova sede della Democrazia Cristiana, dà l’esatta misura del suo modello di leadership.

 

Nel corso della sua lunga carriera il “rieccolo”, come lo ha definito con affettuosa ammirazione Indro Montanelli, colleziona vittorie e sconfitte come pochi altri, ma come nessun altro è in grado di risalire rapidamente la china. Egli prende fra le mani le redini della DC nel 1954 e le tiene ben strette fino al 1959, l’anno dei dorotei, guidando le prime aperture nei confronti del Partito Socialista Italiano. Torna alla guida del partito nel 1973 e dopo un anno subisce la sconfitta nel referendum contro il divorzio. Sconfitto nuovamente nelle elezioni regionali del ’75, si dimette. Nel 1964 e nel 1971 è lui il candidato ufficiale della DC per il Quirinale. Nel 1987 torna per l’ultima volta a Palazzo Chigi alla testa di un monocolore elettorale. Dopo il tramonto della DC si iscrive al gruppo del PPI al Senato. Morirà a Roma il 20 novembre del 1999.  

 

È con Fanfani che si passa “dal partito al servizio del governo” alla nuova formula “dello Stato al servizio del partito”. Come ha scritto lo storico Giuseppe Tamburrano: “… la DC resta un partito che difende la religione cattolica e la Chiesa, anzi mira ad attuare nella vita politica i principi della dottrina cattolica, resta un partito che difende il sistema fondato sulla proprietà e sul profitto, anzi si propone di svilupparlo; ma è la DC che interpreta e attua in prima persona i principi cattolici e non riceve direttive dai Comitati Civici e dall’Azione Cattolica o dal singolo vescovo. Evidentemente l’interpretazione della DC cede di fronte all’interpretazione autentica della Santa Sede (…). Insomma il partito è un organismo politico, autonomo nei confronti delle associazioni cattoliche e subordinato solo al magistero della Chiesa”[1].

La carriera di Fanfani rappresenta dunque l’aspetto individuale di una storia collettiva: quella della conquista del potere in Italia da parte dei cattolici nel secondo dopoguerra. Va però ricordato che l’ “occupazione fanfaniana del potere” risulta ben diversa da quella successiva dei dorotei, ispirata da una logica spartitoria e pervasa da attenti giochi di equilibrio. La sua strategia altresì, definita con il termine di “integralismo”, portatrice di un forte senso di autosufficienza culturale e politica,  rappresenta effettivamente uno dei tratti distintivi dell’attivismo fanfaniano. 

Il disegno del “cavallo di razza” - non mi riferisco chiaramente alla pratica del suo ben noto ed apprezzato hobby della pittura - mira a rendere il partito un soggetto forte e trainante sia nei confronti del mondo cattolico che della propria rappresentanza parlamentare. Egli traduce così in pratica, in un contesto molto mutato e con intenti diversi, un’intuizione di Giuseppe Dossetti, che a suo tempo si era molto impegnato affinché la DC potesse assumere un ruolo fortemente propositivo verso la Chiesa e perché fosse il partito a indirizzare l’attività dei suoi rappresentanti in Parlamento, avviando in tal modo quello che viene generalmente stigmatizzato come il passaggio da un sistema “parlamentare” a un sistema “partitocratico”. 

 

[1] G.Tamburrano, L’iceberg democristiano, Sugarco Edizioni, Milano, 1974.