Cardinale Pietro Bembo (1470-1547)
Cardinale Pietro Bembo (1470-1547)

Ritratti del Rinascimento Italiano   

 

Il Cardinale

 [a cura di Alessandro Quinti]

 

“Capacità ed esperienza nel maneggio degli affari curiali, relazioni familiari o personali con i pontefici, ricchezza, protezione di prìncipi stranieri nel quadro della diplomazia papale”.

E questo è soltanto l’inizio.

Eh già, perché a quanto pare questi furono solamente alcuni dei canali privilegiati attraverso i quali fra il Quattro e il Cinquecento fu possibile “a suon di denaro contante” aprirsi la strada verso i vertici della Chiesa.

Ma facciamo un passo indietro.

Nel 1510, mentre Giulio II assoldava mercenari svizzeri, sottometteva Modena, dichiarava guerra contro Ferrara e combatteva con il re di Francia, veniva stampato un libro dal titolo “De cardinalatu”, dedicato al pontefice regnante. Nei tre libri dell’opera l’autore Paolo Cortesi, che era stato scriptor (scrivano) e poi segretario apostolico presso la curia pontificia, propose il ritratto dell’ideale “principe della Chiesa”, narrando e descrivendo il ritmo della vita cardinalizia tra serietà religiosa, rigore morale e impegno di governo, tra pubblico e privato, nella severa consapevolezza di un’altissima dignità e dei molti e ardui doveri che essa comportava. Ma ben presto il Cortesi finì con l’abbandonare le sue convinzioni “sotto l’impressione dell’incalzante mutare delle cose nella tumultuosa stagione in cui gli era toccato vivere”.

Al centro della vita politica italiana infatti vi era proprio la Chiesa di Roma, sotto la guida di pontefici capaci di usare spregiudicatamente “fanti e cavalieri” così come “interdetti e scomuniche”, confermando l’universale validità della regola del Guicciardini secondo cui “non si può tenere Stati secondo coscienza”.

Fu quella una Chiesa capace di attrarre energie, di offrire possibilità di azione e di carriera, di fornire canali di promozione sociale al talento e all’ambizione. Lo stesso Guicciardini, che non risparmiò invettive nei confronti di quei “scelerati preti” che il suo “particulare” gli aveva imposto di servire, anch’egli, dicevamo, in giovinezza aveva pensato di farsi chierico: “non per poltroneggiarmi colla entrata grande come fanno la più parte degli altri preti - scriveva - ma perché mi pareva, sendo io giovane e con qualche lettera, che fussi uno fondamento da farmi grande nella Chiesa e da poterne sperare di essere un dì cardinale”.

Ma osserviamo più da vicino le figure dei vari cardinali rinascimentali, i loro palazzi, le loro corti …seguitemi.

Cominciamo con il dire che un fondamento essenziale del potere dei cardinali rinascimentali consisteva nella possibilità di accumulare grandi ricchezze grazie al favore dei sovrani e pontefici ed alla consolidata prassi di dissociare le rendite ecclesiastiche dalle funzioni religiose alle quali erano in origine collegate. Interminabile è, ad esempio, la serie dei benefici che Paolo II volle assegnare ai suoi numerosi parenti “elevati alla porpora”. Pensate che fu valutata in 100.000 ducati l’eredità del cardinale Balue nel 1491, ed addirittura in 300.000 ducati quella lasciata nel 1465 da Ludovico Trevisan di cui, come scrisse il Cortesi: “nemo affluentior in senatoria dignitate fuit” (nessuno fu più ricco in tale carica).

Non meno leggendarie furono le ricchezze accumulate da Rodrigo Borgia durante i 36 anni di cardinalato che precedettero la sua elezione papale, elezione resa possibile dalle ricchezze stesse.

Vi state chiedendo di quali ricchezze si trattava?

Beh, di un elenco infinito di vescovati, di abbazie, di arcidiaconati, di priorati, canonicati, pensioni ed uffici ecclesiastici di ogni sorta, con cui Don Rodrigo Borgia volle insignire suo figlio Cesare (Borgia).

 

Che dire poi di quello straordinario personaggio venuto dal nulla che fu Adriano Castellesi da Corneto?

Un uomo davvero di ottima cultura che, dopo essersi liberato senza troppi scrupoli dai lacci di uno sconsiderato matrimonio, aveva fatto una brillante carriera ecclesiastica grazie all’esperienza nel “maneggio degli affari curiali”, al suo innato talento diplomatico e all’appoggio di papa Alessandro VI, al quale nel 1498 aveva già offerto la bellezza di 20.000 ducati in cambio di “quel cappel rosso” che avrebbe ottenuto cinque anni più tardi.

Il Castellesi fu giudicato “terribile uomo, duro e sinistro”, ma anche dotato di “singulare ingenium”(di particolare intelligenza e cultura) ed inoltre ritenuto “rerum omnium vicarius”(sostituto in tutte le cose), di papa Borgia.  Invischiato però nella congiura di Alfonso Petrucci contro Leone X e privato nel 1518 del cardinalato, sparì quasi nel nulla, e finì ucciso alcuni anni dopo da un suo servo. Con tutte le sue contraddizioni quindi il Castellesi ci offre proprio il vero ritratto a tutto tondo del cardinale rinascimentale e della sua mitica figura.

Tornando a papa Alessandro VI, “quell’uomo carnalesco”, come fu definito in quel tempo, aveva concesso la “porpora” a uno dei suoi numerosi figli illegittimi, il famigerato duca Valentino, nonché ad altri cinque tra nipoti, cugini e pronipoti, e aveva affollato il sacro collegio di personaggi in grado di comprare il “galero” (il rosso cappello cardinalizio) con denaro contante. Uomini, questi, capaci di assecondare la sfrenata ambizione di innalzamento del casato e i vasti disegni di un pontefice che non poteva dirsi soddisfatto di “godersi el papato in pace et quiete”.

Tutti questi “porporati” formavano un “sacro collegio” di dimensioni spaventose; pensate infatti che i cardinali di papa Borgia furono la bellezza di 43.

Ippolito d’Este poi, fatto cardinale nel 1493 a quattordici anni, fece “cavare gli occhi” a suo fratello perché preferito a lui da una donna di cui si era invaghito.

Il suo brillante cugino Luigi d’Aragona, insignito della “porpora” nel 1494, a vent’anni, già vedovo di una nipote di Innocenzo VIII, era anche un principe raffinato, amante della musica e della caccia, della buona tavola e delle belle donne, dei cavalli e del carnevale, in cui si mascherava per “divertirsi a burlar frati”.

Proprio così, un pesante clima di violenza, di dissolutezza, di avidità e di corruzione generalizzata sembrava allora investire l’intero vertice della Chiesa, i cui beni venivano ceduti a parenti ed amici e venduti al miglior offerente, mentre gli stessi cardinali parevano impegnarsi solo nel difendere gli interessi dei propri sovrani e delle proprie famiglie, e nell’accaparrarsi i più ricchi benefici, le cariche più lucrose, dividendosi castelli e città, diocesi e abbazie.

Di qui gli adagi:

“Roma fatta spelonca di ladri …

… e dominata da furfanti di ogni genere”, ed ancora:

“ogni giorno per Roma si trovano la notte quattro o cinque ammazzati, cioè vescovi, prelati ed altri”.

È memorabile l’invettiva scagliata dal Savonarola contro:

“la mala vita de prelati et del clero … la ribalda Chiesa”.

Per non parlare dei criteri seguiti nelle nomine cardinalizie da quel personaggio “di animo grande e forse vasto, impaziente, precipitoso, aperto e libero” che fu il successore di papa Borgia; Giulio II. Principe collerico e bellicoso, “sacerdote solo nell’abito e nel nome” come diceva il Guicciardini, deciso a ristabilire il potere del papa sulla Chiesa e della Chiesa nella nostra Penisola, creatore della grande Roma del Bramante, Raffaello e Michelangelo, Giulio II fu un altro grande maestro nell’utilizzare le nomine cardinalizie per rimpinguare le casse papali.

Certo, il sacro collegio ospitava allora anche personaggi diversi. Uomini colti come Oliviero Carafa, stimato da tutti i contemporanei, considerato secondo il Sanudo “lume exemplar del cardinalato” (luminoso esempio), così come lo “iuriconsultorum princeps” (giureconsulto dei principi) Giovanni Antonio Sangiorgio, o Domenico Grimani, mentre altri erano soltanto rampolli di potenti famiglie aristocratiche.

 

Quelli che però erano pochi, anzi pochissimi, erano gli uomini dotati di una certa consapevolezza religiosa.

Lo stesso vale anche per i “costumi sessuali”, non proprio castigatissimi, di numerosi cardinali di questi decenni, spesso circondati da una prole più o meno numerosa ma quasi sempre legittimata e dotata di una buona rendita ecclesiastica.

Si pensi ai molti ed invadenti figli che il cardinal Rodrigo Borgia aveva avuto dalla celebre Vannozza e che ne condizioneranno poi la politica papale, così come quella di Innocenzo VIII Cibo era stata condizionata dalla necessità di “accasare” adeguatamente il figlio Franceschetto.

Un altro futuro papa, Alessandro Farnese, fatto cardinale a 25 anni nel 1493, metterà al mondo almeno 4 figli, uno dei quali diventerà poi il primo duca di Parma e Piacenza.

E altrettanti ne avrà il cardinal Innocenzo Cibo “dedito ai piaceri mondani e a qualche lascivia”, secondo le parole dell’ambasciatore veneziano, nel 1533.

Così come l’autorevolissimo Ercole Gonzaga, che morirà a Trento come presidente dell’ultima convocazione del concilio nel marzo del 1563.

Pensate che nel luglio del 1506 un diarista pontificio poteva tranquillamente annotare che la morte di un altro membro del sacro collegio era da attribuirsi senza dubbio “alle sue sregolatezze …”.

Ed anche quel “matricolato furfante” del cardinal Benedetto Accolti nel 1549 passò a miglior vita per un’apoplessia causata, secondo i medici “dal continuo et estraordinario bere che ha fatto molti anni e dai molti disordini et donne …”.

Tuttavia resta il fatto che l’energica ripresa che aveva contrassegnato la storia della Chiesa dopo la lunga fase avignonese e dopo la crisi degli scismi e dei sinodi di Costanza e Basilea, aveva offerto qualche possibilità di ascesa ai vertici della gerarchia ecclesiastica anche a quei uomini che si erano distinti per “ingegno e cultura”.

Eh già, perché il ritorno della sede papale in Italia, il confronto non solo diplomatico ma anche intellettuale con il conciliarismo, l’impegno nella politica italiana e lo sviluppo della burocrazia curiale, avevano imposto anche ai pontefici estranei alla nuova sensibilità umanistica di dotarsi di un personale adeguato alle esigenze dei tempi.

Inaugurando quindi una tradizione destinata a durare per oltre un secolo, personaggi come Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni e Ambrogio Loschi erano stati chiamati a far parte della cancelleria papale, così come quel Giacomo Ammannati che nel 1461 fu creato cardinale da Pio II.

Nel 1439 la “porpora” era stata concessa al Bessiarone e al Torquemada; nel 1446 a Tommaso Parentucelli da Sarzana che, eletto papa con il nome di Niccolò V, avrebbe poco dopo avviato la costruzione della “Roma rinascimentale” a partire dalla Basilica di San Pietro, offrendo molte possibilità ai “sommi artisti della sua età” e chiamando alla corte papale “tutti gli uomini dotti del mondo”, dal Bracciolini al Valla a Vespasiano da Bisticci, il quale (Vespasiano) ne volle poi celebrare “il divino ingegno e la notizia universale d’ogni cosa”.

Anche Francesco della Rovere, il confessore del Bessiarone, il generale dei francescani divenuto cardinale nel 1467 e papa nel 1471 con il nome si Sisto IV, aveva trovato nella sua fama di predicatore e di acclamato professore nelle più prestigiose cattedre della nostra penisola lo strumento di una fortunata carriera ecclesiastica che dalle sue umili origini familiari lo avrebbe fatto salire fino ai vertici del potere, di cui si approfittò con il suo nepotismo per tramandarlo anche agli eredi. “Seguitava da quella elezione presso che la rovina della Chiesa di Dio”, scriverà di lui Vespasiano da Bisticci.

Saranno i Della Rovere, qualche anno più tardi, a sostituire i Montefeltro nel ducato d’Urbino, mentre Sisto IV volle chiamare nel sacro collegio ben quattro parenti con il suo stesso nome. Furono 34 i “cappelli rossi” da lui concessi, e fu sotto di lui che il sacro collegio subì un netto cambiamento nella direzione di un forte inserimento del papato nella politica italiana, nei suoi “tortuosi labirinti e nella sua convulsa precarietà”, e nella ostentazione di un lusso spettacolare: “In qualche cosa bisogna che se adoperi lo tesauro della Ecclesia”, annotava infatti un diarista romano che accompagnerà con parole di fuoco e atroci accuse la morte di Sisto IV.

 

Certo non si può dire che questo pontefice, fondatore della Biblioteca Vaticana di cui decretò l’apertura al pubblico, abbia spalancato al sapere le porte della carriera ecclesiastica o chiamato uomini di cultura al vertice della Chiesa.

Sisto IV infatti, principe italiano a tutti gli effetti, preparò il sacro collegio da cui furono eletti prima Innocenzo VIII, “inutile al pubblico bene”, come lo definì il Guicciardini, e poi Alessandro VI, al termine di un conclave in cui le abbazie, i vescovati, i benefici e le lucrose cariche e rendite di Rodrigo Borgia rappresentarono il prezzo dei voti dei suoi colleghi.

Primo fra tutti quell’Ascanio Sforza che, come scriverà Giovio: “Corrotto con larghissimi doni fu principal capo et autore che quello sceleratissimo sopra tutti gli altri uomini del mondo fosse fatto papa”. 

Ma veniamo ora alle corti. Eh si, perché ogni palazzo cardinalizio costituiva infatti una sorta di piccola corte principesca in cui si affollava tutta una schiera di amici, collaboratori, segretari, servi, cuochi, soldati, bravacci, cui si aggiungevano spesso musicisti, pittori, buffoni, e un folto codazzo di parenti e parassiti di ogni genere. Alla vigilia del sacco di Roma del 1527 le 21 corti cardinalizie della Città Eterna andavano da un minimo di 45 persone (i Gaetano) ad un massimo di 306 persone (i Farnese), ma ben 10 su 21 raggiungevano o superavano le 150 persone e solo 4 ne contavano meno di 100. In media quindi tra il ‘400 e il ‘500 le corti cardinalizie si componevano di circa 150 persone, ad alcune delle quali andava l’ambìto titolo di familiaris domesticus (cioè di amministratore della casa), figura giuridicamente riconosciuta con i connessi privilegi ed esenzioni.

Gentiluomini o artisti, collaboratori o umili servi che fossero, in ogni caso tutti erano “bocche”, come allora si usava dire, il cui mantenimento non era semplice. Non furono poche, ad esempio, le difficoltà che anche un “signore grande” come Francesco Gonzaga, fatto cardinale ad appena 17 anni nel 1461, dovette affrontare per trovare a Roma un palazzo in cui sistemarsi con il suo seguito. Riuscite ad immaginare quali spazi abitativi ci volevano per una simile folla?

Stalle, magazzini, attrezzature, approvvigionamenti di grano, olio, vino, legna, foraggio, per migliaia di ducati all’anno, che si aggiungevano a quelli necessari ai pagamenti di salari e pensioni, mentre l’acquisto di edifici di “rappresentanza sociale” comportava spese altissime. Pensate infatti che, ad esempio, non meno di 1.500 ducati mensili era il costo ordinario della corte di Cesare Borgia. Molto realisticamente dunque il Cortesi, nel suo “De Cardinalatu” aveva calcolato che, “la corte di un porporato poteva contare non meno di 140 persone e che la spesa corrente non poteva scendere al di sotto dei 12.000 scudi all’anno”. Senza pensare poi alle vere e proprie montagne d’oro che poteva richiedere la costruzione di una di quelle splendide dimore cardinalizie che ancora oggi si possono ammirare, da palazzo Venezia a palazzo Medici, ora  palazzo Madama, a palazzo Farnese. Si aggiungevano poi spesso i giardini per i soggiorni estivi sui colli e le lussuose ville suburbane, villa Giulia, villa Borghese, villa Phanphili. Ed ancora, i quadri, gli affreschi, le sculture, gli arredi lussuosi per decorare questi palazzi e, soprattutto, i grandiosi monumenti sepolcrali per consegnare ai posteri un’immagine “solenne e imperitura” di se stessi.

“Se morte non interrompeva il corso violento delle sue vaste voglie presto avrebbe dato fondo ai tesori della Chiesa”, si dirà dello sfarzo principesco di quel Pietro Riario, nipote di Sisto IV, che deposto il saio francescano per indossare la “cappa cardinalizia” nel 1471, nei due anni successivi riuscì ad accumulare rendite favolose, ma ben presto dilapidate con banchetti e sontuose feste. Bisogna però comprendere il significato “politico” di tale sfarzo principesco, la dimostrazione di forza e ricchezza che tutto ciò esprimeva, non solo in funzione dei disegni di grandezza “familiari”, ma anche in funzione della dignità della Chiesa e della sua “trionfale esaltazione”.

Era questa la vera “simbologia” del potere e della grandezza che esso comportava. Restarono perciò “lettera morta” i vari tentativi di “una sancta reformatione della Chiesa”, tra i quali la “bolla” del 1514 che prescriveva ai cardinali di vivere “sobrie, caste et pie”(cioè con sobrietà, purezza e religiosità) e di occuparsi con pastorale impegno delle chiese e delle abbazie affidate al governo. Ininterrotte ma vane continueranno quindi in questi anni le invettive contro la corruzione della Chiesa, l’ignoranza e l’ignavia del clero. Come quelle del Savonarola, instancabile nel lamentare che ai calici di legno e ai “prelati d’oro” del buon tempo antico si andassero sostituendo calici d’oro e “prelati di legno”. O quelle del Machiavelli, che attribuiva alla presenza del papato in Italia non solo “la mancata unificazione politica della nostra penisola”, ma anche il fatto che i suoi abitanti fossero diventati “senza religione e cattivi”.

Tra il ‘400 e il ‘500, insomma, la Chiesa costruì se stessa come uno Stato della ricca, colta, splendida Italia del Rinascimento, di cui Roma divenne uno dei centri più fulgidi e una delle capitali politiche.

Ma chiudiamo il nostro racconto con la “pacifica” figura di Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, il quale allievo del Poliziano e destinato fin da piccino alla carriera ecclesiastica, fu nominato cardinale nel 1489 e nel 1513, a 37 anni, quando assunse la tiara (il copricapo del pontefice) con il nome di Leone X, espresse le sue intenzioni con queste parole scritte al fratello subito dopo l’incoronazione: “Godiamoci il pontificato, poiché Dio ce l’ha dato”. Questo illustre personaggio, così “mite e gaudente, che non vorrìa fatica”, amante della poesia e delle cose belle, ma anche delle feste, del carnevale e delle cacce, “deditissimo alla musica, alle facezie e a’ buffoni”, come disse il Guicciardini, e di “somma liberalità, se però si conviene questo nome a quello spendere eccessivo che passa ogni misura”, Leone X, dunque, ebbe il merito di rappresentare l’avvento di un’età dell’oro, di pace e di splendore, in cui le armi e la guerra lasciarono il campo alle arti e alle lettere.

Un’età che per il suo splendore artistico e culturale Voltaire giudicò alla pari dell’età di Augusto e di Luigi XIV.