Ritratti del Rinascimento Italiano 

 

Il Filosofo 

 [a cura di Alessandro Quinti]

 

Possiamo definire il filosofo come “l’uomo universale del Rinascimento”. Un uomo sempre aperto ed attivo, perennemente rivolto verso il mondo morale e politico, interessato all’uomo e alla sua esistenza. Egli ha inventato un nuovo modo di pensare, di vivere, e di fare cultura.

Questi è un uomo “rinato” nel Rinascimento, che porta anche le vesti del “mago”, dell’ “astrologo”, e magari dell’uomo di scienza, e che diviene oltre che maitre à penser (cioè un maestro, una guida intellettuale) anche un vero maestro di vita.

La filosofia quindi rompe definitivamente con il passato, scoprendo strade nuove ed abbattendo ogni possibile barriera.

Contrariamente ai tanto numerosi filosofi del Settecento, con i quali ha nonostante tutto qualche piccola parentela, questo filosofo nuovo è rappresentato da pochi “esemplari”, per così dire. Eh già, perché se molti sono i “filosofastri” quelli autentici sono davvero pochi ma molto significativi, introducendo infatti una tipologia di uomini tra le più caratteristiche dell’epoca rinascimentale.

Ad esempio è questo il tempo del grande successo di Diogene Laerzio, tradotto anche in italiano, e largamente diffuso attraverso curiosi compendi e vari adattamenti semplificati per un giusto uso popolare, con molte illustrazioni, massime, dialoghi, insegnamenti morali.

La celeberrima opera d’arte i Tre Filosofi del Giorgione ci offre poi la nuova immagine del “filosofo”. Le tre figure simboliche rappresentano un giovane scienziato affascinato dalla natura, un vecchio venerando e un orientale, i Re Magi quindi, i quali, assorti, osservano la Stella che annuncia la venuta del Cristo e indica la strada a chi sa interpretarla.

Dunque i Magi come astrologi e saggi, ovvero i nuovi filosofi, che indagano i misteri della natura avvalendosi di calcoli e misure, ancora affascinati dal Platonico “mito della caverna” che Leonardo da Vinci chiamò “la minacciante e scura spilonca”:

“Vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio, e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia; e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desiderio: paura per la minacciante e scura spilonca, desiderio per vedere se là dentro fusse alcuna miracolosa cosa”.

Eh già, perché scrutare la caverna, cioè entrare profondamente nella realtà naturale, interrogare le stelle, dettare le leggi alla città, erano alcuni dei compiti dei filosofi tra il ‘400 e il ‘500.

“Assertore e restauratore della rinascente letteratura e della lingua latina, inquinata e quasi distrutta da alcuni secoli di orrenda barbarie”.

Così veniva descritto il Petrarca, grande esponente del rinnovamento, reflorescentis literaturae, grande filosofo e per questo unico maestro di stile. Lontano dalle accademie ma apprezzato dai più nel suo valore: “Chi mai negherà che questo Petrarca, e altri uomini simili a lui, sono giustamente venerati dagli Stati bene ordinati?”.

Vi starete chiedendo come mai stiamo parlando del Petrarca con il quale ci troviamo ancora nel ‘300.

Beh, perché egli con il suo discusso dialogo dall’ironico titolo “dell’ignoranza propria e di molti altri”, de sui ipsius et multorum ignorantia liber, rappresenta lo spartiacque tra il vecchio e il nuovo modo di insegnare e concepire la filosofia.

Ad una filosofia che è soltanto “lettura” e “commento” di verità raggiunte si contrappone una filosofia che si apre alla discussione, alla molteplicità, alle tante concezioni della vita, e soprattutto dell’uomo e del suo destino. Duecento anni dopo Montaigne esordirà “lettore, sono io stesso la natura del mio libro”, e Petrarca avrebbe potuto esprimersi allo stesso modo.

La società degli uomini dunque, con le loro esperienze, i loro sentimenti, interpretati attraverso la “storia degli uomini”.

Pensate poi che la definizione di una storia “umana”, come la sola degna di questo nome, è stata data soltanto poco più di mezzo secolo fa da Marc Bloch e Lucien Febvre quale conquista irrinunciabile, con “l’uomo misura della storia, sua unica misura. Più ancora, la sua ragione di essere”. Ed ancora “Gli uomini, soli oggetti della storia - di una storia che non si interessa a non so quale uomo astratto, eterno, in fondo immutabile e in perpetuo identico a se stesso - gli uomini colti sempre nel quadro delle società di cui sono membri. Gli uomini membri di queste società in un’epoca ben determinata del loro sviluppo - gli uomini dotati di funzioni molteplici; di attività diverse, di preoccupazioni e attitudini varie, che tutte si mescolano fra loro, si urtano, si contraddicono, finendo per concludere una pace di compromesso, un modus vivendi che si chiama Vita”.

Sembra allora che vi sia un sottile filo che percorre e unisce secoli di pensiero e di vita.

Fu sempre il Petrarca a lottare contro il dogmatismo della Scuola per vivificare il pluralismo filosofico che nel ‘400 si esprimerà compiutamente.

Egli infine infiammò gli animi con la discussione sul rapporto fra le discipline, la nota “disputa delle arti”, mettendo in discussione i confini tra la filosofia, la poesia, e le arti, che dettò la crisi della struttura dell’enciclopedia del sapere regolando anche il rapporto fra la teoria e la pratica, fra la vita attiva e quella contemplativa.

Quanto influirono poi sul progresso della filosofia grandi “umanisti” quali Leonardo Bruni, Erasmo, Lorenzo Valla?

Ovvero, quale fu il peso degli studia humanitatis sulla filosofia e quanto filosofi furono codesti “umanisti”?

Di certo molto.

Basti citare per esempio la rivoluzionaria opera del Valla “Dialettica”, che fu ritenuta un’opera contenente “i fondamenti della filosofia universale”, nella quale vennero confutati non solo Aristotele, Boezio e Porfirio, ma altresì i recentiores  philosophi, i filosofi moderni, mettendo in discussione tutte le categorie.

In tal modo l’autore si procurò molti nemici poiché, citando Erasmo, “essi non sopportano che un grammatico si occupi di filosofia e teologia”. Ed aggiunge “la grammatica si occupa sì di cose piccolissime, ma senza le quali nessuno può divenire grande; agita questioni da poco, ma che hanno conseguenze molto serie”. Infatti senza una profonda e solida conoscenza del linguaggio e della struttura del discorso è impossibile afferrarne i significati.

Eh si, Valla ed Erasmo; due grandi filosofi ed intellettuali tipizzanti del Rinascimento, capaci di compenetrare la grande eredità del mondo antico con la brillante e originale concezione riformatrice della vita e della realtà, permeata di una consapevolezza critica che raggiunge il suo apice nel Morae encomium, l’Elogio della follia di Erasmo.

È proprio con Valla ed Erasmo che possiamo comprendere quel nodo fra Umanesimo e filosofia così caratterizzante dell’età Rinascimentale.

Non possiamo poi dimenticare quanto si sono scartabellati lessici e documenti universitari per stabilire che cosa gli umanisti intendevano quando si dicevano “umanisti”, quali erano gli insegnamenti che impartivano e quali titoli avevano le cattedre dei maestri “celebrati”.

Abbiamo detto che nel Rinascimento “rinasce”, appunto, il filosofo, perché egli si pone in rapporto con il filosofo antico quale modello da cui partire e da cui staccarsi, teso verso i nuovi tempi e verso la propria autonomia, alla ricerca di una verità da trovare nell’esperienza delle cose e nella già ricordata storia degli uomini.

Sentiamo cosa scriveva Niccolò Cusano, un grande filosofo del Quattrocento, in un bellissimo testo del 1433 proprio sul ritorno agli antichi: “vediamo che tutti gli ingegni di oggi, anche i maggiori studiosi di tutte la arti liberali e meccaniche, ricercano le cose antiche, e con grande avidità, come se si potesse sperare che stia per concludersi presto un intero ciclo”.

Con il Rinascimento infatti, come diceva anche Machiavelli, si chiudeva realmente un ciclo. Mutava infatti “l’albero” del sapere e nascevano nuovi luoghi deputati all’indagine del sapere e alla sua trasmissione; meravigliose biblioteche. La domanda era sempre la stessa; quale il nesso fra poesia e teologia, o fra astronomia, astrologia e filosofia?

L’uomo “universale” del Rinascimento ha abbattuto gli steccati del sapere e del fare. È colui che in un dipinto inserisce un saggio di pensiero politico, o, come Raffaello, illustra Diogene Laerzio e le vite dei filosofi, o ancora, colui che in un’opera sulla pittura discetta di filosofia, e così via….Lo stesso insegnamento cambia radicalmente, ad esempio con l’allontanamento dei frati dal ruolo di docenti, perché gli studenti non sopportano più “fratesca ingenia ac fratescas et crassissimas doctrinas”(cioè il carattere e l’assai grossolana cultura dei frati).

Saranno studiosi come Leonardo Bruni, “l’umanista” più letto in Europa nella prima metà del ‘400, ed altri storici e politici a riflettere sulla storia e sulla politica, facendo filosofia, ossia analizzando criticamente i problemi rapportandosi ai “venerati autori” per rafforzare le proprie deduzioni, ma non per attingere verità assolute.

Uno per tutti Nicolò Machiavelli, che per secoli diverrà l’incubo dei filosofi della scuola.

Questa “Rivoluzione culturale” in buona sostanza ha delineato la nuova immagine del “filosofo” come colui che riflette criticamente sulle proprie esperienze e che, oltre a teorizzare, opera.

Così Marsilio Ficino, medico e figlio del medico di Cosimo il Vecchio, che dal 1460 ha tradotto e commentato un’intera biblioteca platonica e neoplatonica. Davvero un incredibile personaggio, lontano dalle Università ma vicino a prìncipi e signori nel suo circolo di “confilosofi” alla villa di Careggi, dove il vecchio Cosimo aveva immaginato la sede della nuova accademia platonica. Ficino inventò l’ermetismo, una strana combinazione di magia e astrologia permeata di neoplatonismo, che si insinuò dappertutto, dalla poesia alle arti figurative alla religione.

L’ermetismo invase il ‘500 con la sua esaltazione dell’uomo; “grande miracolo”, come ripeteva Giovanni Pico della Mirandola. Ermetismo come visione della realtà come vita universale ed universale amore, su cui tanto insiste nei suoi “Libri della vita”, De vita libri tres. Difendendosi da una accusa di magia mossagli da ambienti ecclesiastici, pur essendo protetto da Lorenzo de’ Medici, egli scriveva: “Il cielo sposo della terra non la tocca né si congiunge con essa come comunemente si crede. Con i raggi delle stelle che sono i suoi occhi avvolge la sposa, e nell’amplesso la feconda e genera gli esseri viventi. E diremo noi forse che il cielo, che diffonde ovunque la vita col solo suo sguardo, è esso stesso privo di vita?”. In lui troviamo il fascino dell’occulto, la seduzione della magia.

Egli sostiene che il filosofo è mago occupandosi di scienze della natura, secondo la tesi di Pico della Mirandola sulla “magia naturale”, e riabilita l’astrologia in quanto analisi di forze naturali presenti nei corpi celesti. Come l’agricoltore - dice - “prepara il campo e i semi a ricevere i doni celesti, qualcosa di simile fanno il medico e il chirurgo nel nostro corpo, sia per rafforzare la nostra natura, sia per meglio adeguarla alla natura dell’universo. Lo stesso fa il filosofo esperto delle cose naturali e di quelle celesti, quel filosofo che noi propriamente siamo soliti chiamare mago”.

Accanto a lui un altro “filosofo nuovo”, Giovanni Pico signore di Mirandola e Concordia, straordinaria figura del ‘400. Di famiglia ricca e potente, lontano anch’egli dal mondo universitario, come Ficino è innamorato dell’ermetismo ed ermetico è l’incipit del suo più noto scritto, il discorso sull’uomo, “grande miracolo, o Ascelpio, è l’uomo”.

Pico esprime un monito di “concordia” dei filosofi, tutti tesi, per lui, verso la verità, vista da punti diversi ma convergenti.

I due furono grandi amici, nonostante alcune polemiche di Pico col Ficino, e al tempo stesso assai diversi; Pico vuole definire i confini di ciò che è accertabile e di ciò che è arbitrario e fantastico, al contrario di Ficino che invece esprime una grande fantasia per l’immaginario. Pertanto Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, insieme ad Ermolao Barbaro ed altri, incarnano il nuovo tipo di intellettuale che, lontano dal mondo accademico, ha rapporti con prìncipi e cardinali partecipando a quella che noi oggi definiremmo la “politica culturale del paese”. Leggendo “El libro dello amore” di Ficino, ad esempio, si coglie il rapporto nuovo tra le arti e la filosofia, riflesso della profonda rivoluzione non solo nella filosofia ma in tutte le forme di approccio alla realtà, nelle varie arti quindi. È conseguenza inevitabile di tutto ciò la difficoltà nel separare l’artista dallo scienziato, il moralista dal filosofo. Di qui la definizione, a volte sbrigativa, di “uomini universali” con la quale si sono indicate figure quali Leonardo da Vinci o Leon Battista Alberti che con il loro insaziabile desiderio di conoscenza sono stati la linfa del nuovo filosofare, concepito come un quadro d’insieme del mondo e dell’uomo.

Rileggiamo queste parole di Leonardo: “la pittura esser filosofia perché essa tratta del moto de’ corpi nella prontitudine delle loro azioni, anche se, poi, la filosofia penetra dentro ai medesimi corpi, considerando in quelli le loro proprie virtù”. Ed ancora “chi sprezza la pittura non ama la filosofia, perché se tu sprezzerai la pittura, la quale è sola imitatrice di tutte le opere evidenti di natura, per certo tu sprezzerai una sottile invenzione, la quale con filosofia e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme, prima nella mente, e poi nelle mani”. André Chastel, uno dei maggiori storici dell’arte italiana, ha scritto che per il re di Francia Leonardo era “un vero filosofo, un mago prodigioso”.

Ma ricordiamo ora le parole che nel 1485 Pico della Mirandola rivolge ad Ermolao Barbaro: “Siamo vissuti celebri, o Ermolao, e tali vivremo in futuro, non nelle scuole dei grammatici, non là dove si insegna ai ragazzi, ma nelle accolte dei filosofi e nei circoli dei sapienti, dove non si tratta né si discute sulla madre di Andromaca, sui figli di Niobe e su fatuità del genere, ma sui princìpi delle cose umane e divine”.

La lettera di Pico suscitò lunghe discussioni. Barbaro gli rispose subito, facendogli osservare che proprio lui, Pico, si preoccupava soprattutto di una cosa: “della proprietà del linguaggio, e della precisione ed eleganza del dettato”. Barbaro sapeva bene che, dietro la discussione sulla forma, si trattava e si discuteva della filosofia, della “nuova” filosofia: “chiarezza di idee e chiarezza di espressione”.

Certo, la filosofia è fatta di cose, non di parole, ma proprio per questo le parole devono esprimere con precisione le cose, con termini adatti. Barbaro dunque sapeva bene che non era questione di “ornato” ma di chiarezza e di precisione. Ma non finisce qui, c’è di più. La nuova filosofia infatti tendeva ormai a produrre un tipo diverso di opere, destinate ad un altro pubblico; opere leggibili, appunto, brevi e gradevoli, largamente accessibili.

Lo stesso Pomponazzi, che era un professore, anche se un po’ scandaloso e molto provocante, non solo “riduceva l’immortalità dell’anima a un amabile profumo”, ma lo diceva in un libretto agile e semplice, così come consegnava la sua teoria “sul rapporto fra miracoli, incantesimi e fantasie” a un piacevole opuscolo intrecciato a temi “ficiniani”. I nuovi filosofi quindi fanno ormai circolare sempre più le loro idee non in fastidiosi e incomprensibili corsi di lezioni, per la gran parte copiati uno dall’altro, ma in epistole scritte in volgare già dal Quattrocento. Infatti al latino scolastico, “un orrido gergo per iniziati ridicolizzato nei versi maccheronici”, si sostituisce un latino chiaro, accessibile, che presto avrebbe lasciato il posto al volgare. Ovvero, la scienza e la filosofia, la “nuova” scienza e la “nuova” filosofia, cercano un altro pubblico al quale raccontare in maniera diversa altre cose.

Come teorizzarono alcuni autori italiani del Cinquecento, ad esempio Alessandro Piccolomini o Sperone Speroni: “bisognava cominciare a ricordarsi che anche le donne vogliono leggere e imparare, così come gli uomini d’affari e di governo, e quanti non hanno né tempo né voglia di studiare il latino e il greco”. Era cioè chiaramente implicito che la filosofia è, o è anche, logica e morale, politica e poetica, scienza della natura e psicologia. In poche parole, davvero un’altra cosa. 

Questa era la crisi dell’enciclopedia del sapere medievale, che aveva abbattuto antiche barriere in nome di una nuova scienza capace di instaurare il “regno dell’uomo”; l’artista si era fatto scienziato, il filosofo teologo, lo storico moralista, il fisico filosofo. 

Questi erano, dunque, i “nuovi filosofi” i quali, inquieti e ribelli, furono una sorta di “cavalieri erranti del sapere”, che cavalcarono fra sogni e magie, fra utopie e illusioni di paci universali e perpetue.