Breve storia dell’abusivismo in Italia
"Un fenomeno dalle radici profonde"
Negli anni del secondo dopoguerra, con le maggiori città ridotte spesso a macerie, il fenomeno dell’edilizia illegale dilagava in tutta Italia, anche nelle aree più sviluppate del Nord.
Erano abusive intere “città della domenica” alla periferia di Milano, nei comuni della “cintura” settentrionale, come Limbiate e Paderno Dugnano, dove le chiamavano “coree”, affollate di immigrati veneti, calabresi, siciliani, campani; il fenomeno, di proporzioni impressionanti, si riassorbirà soltanto negli anni Settanta. Ma già sulle riviere liguri e lungo la costa romagnola o toscana l’abusivismo era diventato il grimaldello della speculazione edilizia, che faceva saltare i piani regolatori e poneva le basi per la cementificazione delle nostre coste. Di litoranea in litoranea, di lungomare in lungomare, dei 1240 chilometri di dune sabbiose in faccia all’Adriatico ne “sopravviveranno”, alla fine del Novecento, appena 120, cioè meno del 9%.
A Roma, le inchieste giornalistiche dell’epoca stimavano in 800 mila il numero dei romani che risiedevano in case illegali. Si trattava cioè di 800 mila “stanze” abusive non allacciate alle fognature - fra l’altro - e che quindi determinavano un inquinamento terribile delle marane, delle falde idriche e del Tevere: una vera e propria “anti-città”. Erano gli anni dell’epos drammatico e populista dei pasoliniani “Ragazzi di vita” (1955) e di “Una vita violenta” (1959). Di quegli stessi anni è il film “Il tetto” di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, da ricordare come documento cinematografico delle “case della domenica”, dell’autocostruzione nel decennio Cinquanta nella Capitale, e non solo.
Ma, accanto alle case, ai borghi e ai borghetti abusivi, si cominciavano a sviluppare intere lottizzazioni non meno abusive che, sulla pelle dei più poveri, della stessa micro-borghesia e del Comune, si ramificavano nell’Agro cementificando intere zone verdi e lucrando profitti enormi.
Ci vorrà lo sforzo di molte amministrazioni per sanare, a carissimo prezzo, la ferita immane dell’abusivismo e per dare una forma di città a quella “anti-città”.
Nel 1984 - da una inchiesta sull’abusivismo edilizio affidata al Censis - emergeva infine che l’abusivismo “sociale” o “di necessità” era ormai poca cosa, rappresentando il 4,5% dell’edilizia illegale a Roma. Ecco assurgere pertanto i protagonisti del nuovo abusivismo romano: speculatori che imboccheranno la solita scorciatoia per costruire tutto rigorosamente in “nero”.
Certo è che, indebolitesi nel tempo le tracce di una “necessità sociale”, l’abusivismo ha scelto i propri nuovi insediamenti nelle aree più pregiate della Capitale, ai margini delle zone archeologiche o di grandi parchi.
Si tratta dunque, in conclusione, di un fenomeno evidentemente assai difficile da estirpare, anche per la progressiva riduzione dell’edilizia pubblica - in specie quella sociale - con ripercussioni estremamente negative sull’intero arco dei beni primari di una città, e di un intero Paese.