[Leggende della boxe]

Tiberio Mitri

 

 

 

La storia di Tiberio Mitri: ex campione dei pesi medi di pugilato, ex attore di cinema, ex divo dei fotoromanzi. Un'avventura umana e sportiva sorprendente, fatta di sudore e di polvere, di glamour e di occasioni mancate, di successi e di sfortuna, di talento e di errori.

 

 

 

Biondo, bello, occhi blu, faccia da schiaffi, 70 chili di muscoli guizzanti, Tiberio Mitri non ha avuto una vita facile. Nato il 12 luglio del 1926 ha perso il padre a dieci anni, ha conosciuto la miseria, ha fatto il garzone di panetteria e il radiotecnico, poi, entrato in palestra, si è messo a fare boxe. Carattere difficile, violento, pieno di energia e di voglia di vivere, fisicamente molto dotato, sfonda nel mondo del pugilato. Pochi anni e Frankie Carbo, il gangster che controlla la boxe della Grande Mela, lo porta sul ring per il titolo mondiale: è l'american dream dell'angelo biondo.

Mitri non ha paura: sa di essere forte. Campione italiano nel '48, campione europeo nel '49, Tiberio Mitri inizia il 1950 sotto eccellenti auspici e con numeri da primato: 53 incontri disputati, 49 vittorie, tre pareggi e un no contest. La marcia del pugile di Trieste verso il titolo mondiale sembra inarrestabile, accompagnata da soldi, fama e dalla splendida moglie Fulvia Franco, miss Italia 1948.

Il 12 luglio 1950, al Madison Square Garden di New York, affronta dunque il campione, Jack La Motta, detto il "Toro del Bronx", ventottenne italo-americano solido e potente, un pericoloso picchiatore. Il match è aperto. Mitri è imbattuto, più giovane - ha 24 anni - e integro, si dice che la mafia del ring punti su di lui. Insomma, ci sono le condizioni perché la corona dei medi attraversi l'Atlantico.

Egli però ha un punto debole, la moglie. Mentre Tiberio si allena a New York, Fulvia, giovane attrice in cerca di scritture, coltiva infatti a Hollywood il proprio american dream: provini, fotografie, cocktail, forse qualche concessione alle galanterie hollywoodiane. Tiberio impazzisce di gelosia, perde la concentrazione, si allena poco e male. Con il Madison pieno come un uovo, in un'afosa serata di luglio, suona il primo gong del match. Mitri non è lui, è l'ombra del pugile veloce e potente che ha conquistato l'Europa; è lento, scarico, quasi distratto, incapace di imporre la propria boxe in velocità al "Toro del Bronx". Alla quinta ripresa perde molto sangue da un sopracciglio, la resa sembra imminente. Tiberio invece resiste, barcolla ma resta in piedi. Il pubblico è in delirio per il match durissimo e per il suo coraggio. Il verdetto, dopo 15 round, è di sconfitta ai punti. Tiberio ha dato tutto quello che gli era rimasto dentro ma non è bastato. Ha perso nel modo peggiore, avendo nei pugni le carte per vincere. È la sua prima sconfitta, nel giorno del compleanno. Quando si spengono le luci del Madison, è un uomo distrutto.

L' America lo ha svuotato: prima lo ha illuso, poi lo ha distrutto. Il sogno è svanito. Ha perso l'amore, è uscito dal grande giro.                                                                               

Il bell' italiano, dai lineamenti regolari segnati dai colpi, rientra a Trieste. Non combatte più per il mondiale. Riconquista il titolo europeo nel '54 ma dopo pochi mesi è spazzato via dal picchiatore francese Humez. Si ritira nel '57, lo stesso anno in cui si separa da Fulvia. Il 12 luglio del '50 ha lasciato segni profondi. Nel giorno della separazione i rotocalchi li inseguono per l'ultima volta, lei tradita dal cinema e vagamente ingrassata, lui dallo sguardo lievemente intontito. Poi il silenzio. 

Tiberio tenta la strada del cinema: da grande campione diventa un piccolo divo di Cinecittà. Ma l'ex "Toro di Trieste" fa di tutto per farsi del male. Alcol, droga, prigione, Alzheimer, entrambi i figli morti, uno di eroina, l'altra di Aids. Una vita bruciata. "Lo sport - dice - alla fine ti lascia solo". "Sono un diseredato - scrive nell'autobiografia "Una botta in testa" - quello che si crea in una vita si può perdere in dieci secondi". Gli tremano le mani, vive in una roulotte, poi in una pensione romana. Ha ancora un bel viso, segnato, alla Chet Baker, ma il suo è il regno delle ombre.

Muore a Roma, il 12 febbraio del 2001. Cammina lungo i binari, non sente il fischio del treno, è travolto. Andava in direzione ostinata e contraria, come nella boxe, come nella vita.